STORIA DI LETIZIA

Riporto, in testa alla storia di oggi, il commento lasciato poco fa in calce a un altro post, prima che si perda fra gli altri. Due commentatori, m e k,  si chiedono se pubblicare storie faccia bene alle donne o (k) se “questa specie di battaglia” (senza specie: è una battaglia, fattene una ragione) utilizzi le donne stesse “come scudi umani”. In primo luogo, ritengo che le donne abbiano bisogno di parlare delle proprie storie, di condividerle con gli altri, di ragionarci insieme. Proprio perché, in tutti questi anni, su quel che avviene a proposito di 194 e contraccezione d’emergenza è calato – salvo molte meritevoli iniziative – il silenzio.
In secondo luogo, stiamo, vorrei ricordare, parlando di una legge che è stata svuotata dall’interno e di una controffensiva (mi dispiace ma è così) del cattolicesimo più oscurantista per renderla inapplicabile e per non fornire alle donne stesse gli strumenti che richiedono. E che spettano loro.
Detto questo: non solo continuerò ad accogliere e pubblicare storie. Ma, come anticipato ieri, sto studiando con altre donne il modo di mettere in atto iniziative permanenti che riguardano sia l’illecito che si commette negando la pillola del giorno dopo sia l’obiezione di coscienza sulla 194. E, visto che è stata citata – a ragione – anche l’educazione sessuale nelle scuole italiane.
Ecco la storia di Letizia.

La mia storia è di più di vent’anni fa, si risale alla seconda metà degli ottanta.
Sposata da tre anni, nessun problema se non le normali tensioni e stanchezze dei reciproci lavori molto impegnativi. Ci diciamo che sarebbe ora di avere un figlio. Al primo tentativo compiuto quasi per caso, resto incinta. Un po’ di problemi (nausee molto forti, qualche piccola perdita di sangue…) e qualche apprensione all’idea che la nostra vita stia per cambiare, ma comunque ci si prepara all’evento.
C’è però un intoppo: alle analisi, i valori degli anticorpi della rosolia sono un po’ troppo alti. Non finirò mai di battermi il petto per non aver fatto analisi prima, o magari una vaccinazione quando mi sono sposata. Ma ormai, purtroppo, così è andata e non posso tornare indietro.
Il ginecologo minimizza, ma tutti gli altri, da mio marito ai familiari al medico di famiglia ai pochi amici con cui mi confido, mi suggeriscono di abortire.
Non sono del tutto convinta, sento che comunque la responsabilità è mia, e forse se dipendesse da me andrei avanti. Facile per gli altri, dall’esterno, decidere. Ma chi sente la cosa sulla sua pelle, sono io, con tutto il peso di una educazione cattolico repressiva che, ai tempi in cui ero stata bambina, era ancora fortissima, un imprinting che ti restava dentro anche quando, con la razionalità adulta, pensavi di essertene liberata.  Comunque la sola idea di problemi gravi del nascituro, magari da affrontare con tutti contro, mi fa decidere di non correre il rischio.
Il  mio ginecologo, un nostro coetaneo obiettore, prende atto e mi suggerisce di rivolgermi all’unico non obiettore dell’ospedale, che è anche quello con il maggior numero di parti al suo attivo.
Il quale è gentile e comprensivo, forse ha sempre un po’ troppa familiarità con le sue pazienti, specie quelle giovani, una familiarità che in qualche caso assume una sfumatura poco rispettosa, ma a parte quello niente da dire.
Io sono stata una persona fortunata: sposata, con tutti al mio fianco, circondata dal sostegno generale. Non ho dovuto affrontare isolamento, disapprovazione, biasimo, vergogna, sensi di colpa.
Se li avevo, era tutta roba mia, dubbi interiori.
Non so come avrei reagito se mi fossi trovata di fronte quei comitati della buona morte di cui si parla oggi, del movimento per la vita o simili. Forse, sarei stata tanto triste o vulnerabile da non sapermi difendere. Ma so con certezza cosa farei  adesso, se si trattasse di mia figlia in questa malaugurata situazione: sarei capace di ogni violenza fisica e verbale, fino alla denuncia, contro questi ignobili sciacalli e chi li appoggia.
Ma andiamo oltre. Frequentando la maternità dell’ospedale cittadino  mi resi conto di come le funzioni del corpo femminile siano circondate da atteggiamenti negativi, più ambivalenti riguardo al parto, abissali negli altri casi.
Innanzitutto, la differenza fra ostetricia e ginecologia: nel primo reparto, dove andai in seguito a partorire, sorrisi e soavità. E certo, è dove nascono i bambini, è dove la donna svolge la sua funzione più alta e più pura. Tutto è gioia, fiorellini, poster pubblicitari, pupazzi e passettini lievi. Peccato che le scomodità per le partorienti fossero enormi, e qualsiasi problema fisico, dai dolori alle emorragie ai disagi post partum, fosse spesso affrontato con indifferenza, minimizzando o sgridando. E ho sentito racconti simili anche da altre partorienti, in altri luoghi e altri periodi più recenti.
A ginecologia,  dove invece mi trovai in quelle tristi circostanze, modi bruschi e un lieve disprezzo. Come se dal  camerone delle donne che abortivano, (senza far distinzioni fra aborto terapeutico e non, fra gravidanze a rischio e non volute) bisognasse estendere freddezza, senso di colpa e biasimo sociale a tutte le ricoverate.
La prassi era che la visita per chi doveva sottoporsi a qualche intervento non dovesse svolgersi in corsia. No, avveniva in un salone dove la sventurata, dopo aver atteso il suo turno in corridoio in camicia da notte e dopo essersi sfilata le  mutande, tenendole in mano, anche se mestruata, scusate la fastidiosa precisazione  ( guai ad entrare ancora con le mutande! Si faceva arrabbiare il primario che ti insultava per la perdita di tempo!) si esponeva gambe all’aria di fronte ad almeno dieci fra medici e studenti,  che disquisivano il suo caso. Per quanto mi riguardava, l’analisi della mia situazione fu fatta a voce così alta, che penso sentissero anche nei reparti vicini. Ricordo bene l’enfasi del primario nell’annunciare, visitandomi: “feto come alla dodicesima settimana” , calcando il biasimo sul numero, come a dire che ero proprio al limite consentito. Cosa che a me, in base ai calcoli di quando ero rimasta incinta, non risultava.
Il fila dopo di me c’era una donna esile già anziana, non so cosa avesse, magari qualcosa di brutto, certo non la “colpa”: tutta curva, lo sguardo al pavimento, piangeva sommessamente con le sue mutande in mano in attesa di quella umiliazione.
Ho visto una donna di quarant’anni desiderosa di prole, al suo terzo o quarto aborto spontaneo, con lo sguardo perso nel vuoto, nel camerone delle “donne perdute” , trattate tutte indistintamente da baldracche persino dalle infermiere, o con disprezzo o con quella allegra familiarità pesante che è poi la stessa cosa o peggio.
Il resto, per fortuna, fu più agevole, da quando mi addormentai in sala operatoria.
Per me non fu doloroso.  Niente di niente, neanche un doloretto, una fitta, un rimescolio, io che di solito a ogni mestruazione soffrivo fino al vomito. Solo un flusso molto abbondante per qualche giorno. Neanche quel piccolo sollievo ai sensi di colpa.
Però non è neppure che questi sensi di colpa ti devastino, come dicono i più subdoli avversari della 194, che tu non sia più la stessa, che non riesca più ad avere un rapporto sereno con il tuo corpo e la gravidanza, che abbia bisogno di sostegno psicologico eccetera.
La mia successiva gravidanza filò liscia, benché la affrontassi in concomitanza con una grave malattia di mio padre; mia figlia nacque senza problemi, spero e credo di non averle fatto scontare alcuna proiezione ansiosa. Questo nonostante mio padre, purtroppo, sia entrato in  coma e morto pochi giorni dopo la sua nascita, senza neppure averla potuta conoscere.
Di questi episodi, l’aborto e la triste concomitanza, mi è rimasto dentro solo un gran dolore, una gran rabbia, la sensazione di essere in credito col destino.
Ma niente dubbi o rimpianti di alcun genere. Anzi, più si va avanti, più sento le argomentazioni grottesche e fanatiche, prive di supporto razionale, con cui si difende una vita minuscola e presunta, ben più di quanto si faccia con le vite reali, spesso anzi CONTRO di esse, più mi sento serena.
Non possono in alcun modo, essere dalla parte della ragione, coloro che dimostrano così tanta cattiveria e insensibilità. Per non parlare della loro buona fede.
Trovo , riallacciandomi al presente, che effettivamente ci sia stato un tornare indietro della mentalità corrente. In alcune mailing list letterarie che frequentavo di recente, la discussione OT riguardo la 194 assumeva toni apocalittici, di muro contro muro. E quando confessai quello che mi era accaduto, le reazioni andarono dalla cristiana condiscendente compassione umana, che sospendeva il giudizio per pietà,  al fiero apprezzamento un po’ distorto per il mio espormi, da parte di chi difendeva la legge.
E qui sta il punto: reazioni entrambe estreme, lontane da una pacata accettazione della realtà, figlie dei tempi da “tifoseria” che viviamo.
Perché se una possibilità è sancita da una legge, ribadita da un referendum, (il mio primo voto, fra l’altro), chi vi ricorre non può e non deve essere criminalizzata, ma neppure considerata coraggiosa, quasi che il semplice dire la verità fosse una sfida, un esporsi al biasimo della società. Dovrebbe essere naturale poterne parlare, invece, come si parla di una malattia o di un lutto, senza doversene vergognare.
Era molto meglio negli ‘80: non riscontrai intorno a  me reazioni isteriche, drammatizzazioni pro o contro, ma solo comprensione tranquilla  e solidarietà non pelosa, persino dai miei amici di matrice cattolica più profonda. Potrebbe anche essere stato un caso personale, ma sono propensa a credere che di mutamento in peggio dell’umore corrente, delle propagande e delle esasperazioni, invece, si tratti.

56 pensieri su “STORIA DI LETIZIA

  1. “Due commentatori, m e k, si chiedono se pubblicare storie faccia bene alle donne o (k) se “questa specie di battaglia” (senza specie: è una battaglia, fattene una ragione) utilizzi le donne stesse “come scudi umani”.”
    Aggiungerei che ognuna ha scelto di inviare e condividere quanto ha vissuto: pensare che tu le stia usando è profondamente paternalistico. “Ah, povere donne (idiote) che scrivono e che vengono strumentalizzate!”. Mah.
    Oppure: “Taci, che è per il tuo bene”.
    Sì, come no.

  2. Grazie per questa battaglia..i fronti aperti sono talmente tanti oggi per le donne (e anche per i lavoratori, e le lavoratrici, gli omosessuali, gli immigrati e le immigrate) che sono felice che tu la stua portando avanti.

  3. Grazie a Letizia e a tutte quante si sono prese la briga di raccontare la propria vicenda. Il silenzio fa male a tutti – uomini e donne. Forse se avessimo pensato prima a sollevare questo velo – quando le cose si sono cominciate a mettere male – adesso la situazione sarebbe un poco diversa. Ringraziamento esteso a Loredana e allo spazio nel suo blog.
    Allora, ammesso che abbiamo tutte almeno due punti in comune: 1) siamo favorevoli alla 194 e 2) siamo contrario all’estensione dell’obiezione di coscienza per la contraccezione d’emergenza, come possiamo parlare – senza che alcuno si senta giudicato – di quanto avvertiamo contrario alle nostre idee sulla gestione generale della salute riproduttiva?
    A scanso di equivoci questa postilla era rivolta al tread precedente.

  4. Ciao Loredana. Non ho mai commentato in questi giorni, perché sinceramente trovo che ho più da imparare che da dire in materia. Non che mi piaccia scoprire questa ennesima fetta marcia del nostro Paese, ma essere informati fa parte del nostro dovere di cittadini, e quindi grazie per quanto pubblichi.
    Non sono neanche andato a leggermi i commenti. Mi spiace, ma purtroppo non mi sorprende, che ve ne siano anche di questo tenore.
    Un abbraccio,
    Paolo

  5. fai bene a continuare a cercare un dialogo anche serrato,aspro visto che alla base di ogni avanzamento c’è una negoziazione che non può prescindere dallo stesso(per intenderci ,parfrasando ermeticamente quel vecchio detto cinese,”Dai un pesca a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”,stai diffondendo la cultura della discussione che in un mondo sempre più distratto equivale a ridargli l’acqua della vita)

  6. @ barbara
    Come parlarne? Evitando di individualizzare il problema, evitando di ridurre il dibattito ad una serie di consigli o ramanzine relativi alle scelte di chi racconta come purtroppo – ma, forse, indicativamente – è accaduto nell’altro thread.
    La voce di chi racconta, il suo punto di vista, è giocoforza soggettivo, individuale… ma, appunto, la discussione sulle questioni sollevate dal racconto in prima persona non possono e non devono essere personalizzate.
    La violenza che traspare da questi racconti è una violenza spesso sottile, incasellata nella “normalità” della professione medica e della pratica ospedaliera e nel senso comune di una cultura profondamente arretrata. Individualizzare, con tanto di illazioni, ramanzine, “consigli alle sorelline minori”, significa, inconsapevolmente, perpetrare quella violenza anziché contribuire a sconfiggerla e rimuoverla.
    Secondo me, l’unico modo per combattere questa violenza è vedere i racconti ospitati in questo spazio come le tessere interconnesse di un racconto collettivo, permeato di sofferenza, umiliazione, quotidiana lotta contro pregiudizi e vincoli legislativi che minano alla base la libertà di scelta. Insomma: la questione è politica e sociale, non individuale e non individualizzabile; affrontabile attraverso una lotta collettiva, non liquidabile con qualche consiglio, ramanzina, o “dotta constatazione”.

  7. Grazie Don Cave di tutto il tuo commento e soprattutto per la parte in cui fai osservare come la violenza possa essere perpetrata persino da atteggiamenti che si dichiarano rispettosi e che invece, secondo me, allargano il campo della solitudine in cui versa chi accetta di mettere in comune e a disposizione la sua esperienza in questo come in altri ambiti. A un certo punto, infatti, ho smesso di commentare un po’ scoraggiata dai “quoto” a tali atteggiamenti che, sempre secondo me, sono il frutto non tanto di mancanza di intelligenza e di sensibilità (verrebbe il sospetto) ma di un clima di un generale impoverimento dei sentimenti, come se la gamma disponibile fosse ridotta a un paio (pro o contro) e nello schierarsi si perdesse di vista che stiamo parlando di esseri umani, di donne in carne ed ossa e non di baluardi.

  8. @Chiara Lalli
    Devo ancora leggere il tuo libro, ma se posso approfitto della tua presenza qui per fare una domanda sulla crescita esponenziale degli obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche negli ultimissimi anni di cui si è parlato qui. Mi pare di capire che c’è stato un crescendo molto importante dal 2000, passando dal 50-60% fino ad arrivare all’attuale 90%.
    Secondo te perché?

  9. Siccome viene citata una mia espressione, però non nel senso che io le davo, vorrei spiegare meglio cosa intendevo con la storia della “sorellina”.
    Assolutamente NON mi ritengo sorella maggiore, nè nella posizione di dare consigli a Valentina che racconta la sua storia.
    Intendevo dire che per me un MEDICO dovrebbe trattare un PAZIENTE con lo stesso rispetto che se a curarsi da lui ci fosse suo fratello o sorella, e non già come oggetti distanti e passivi o minus habens come spesso avviene. Il suffisso -ina sarebbe perchè nella relazione il medico è la parte forte, con potere decisionale, maggior conoscenza ed esperienza specifica, e spetta a lui il ruolo di avere CURA di un’altra parte che in quel momento è più vulnerabile. Un medico non farebbe una visita ginecologica a sua sorella senza spiegare se e perchè lo ritiene necessario, non le farebbe notare comportamenti che ritiene pericolosi colpevolizzandola o schernendola, non la lascerebbe andar via con l’impressione di essere stata vessata e giudicata.

  10. Io trovo questa operazione – le storie, il dibattito a seguire per ognuna – di una utilità assoluta, anche in direzioni legate a questa triste storia in maniera meno conclamata e diretta. Mi pare che le discussioni aiutino ad acquisire conoscenze (per esempio io non avevo le idee molto chiare sia sulla normativa in atto riguardo obbiezione e pillona del giorno dopo che sulla posizione della chiesa cattolica in merito) sia a definire la posizione di ognuno rispetto alle esperienze di cui si parla. Ci si chiarisce e si vede la questione in tutta la sua complessità.
    Di questo racconto comunque- trovo agghiacciante la parte del ricovero, e mi torna purtroppo con altre narrazioni che ho ascoltato. Però non concordo con il discorso un po’ troppo normalizzante dell’autrice del post, forse sotterraneamente polemico verso chi come me vede nell’esperienza dell’aborto un problema che può meritare sostegno ed elaborazione psicologica. Sarà probabilmente valso per lei e non mi metto certo a discutere i suoi sentimenti e la sua storia – anche se posso dire con cognizione di causa che un’esperienza del genere può influire nei nostri comportamenti in modo che non avvertiamo – le proiezioni non si riconoscono con tutta sta agevolezza… ma questo è secondario. Quello che penso è che se l’aborto viene presentato come una esperienza come un’altra – (come un lutto dice l’autrice, ma non è che dei lutti si parli psicologicamente con tutta sta scioltezza, e non a caso) – si rischia di non mettersi nella posizione di capire e interloquire con le donne che ne hanno sofferto e se ne sono sentite frastornate, e si rischia di elicitare i commenti malevoli di chi vede la questione superficializzata. L’esperienza mi dice in ogni caso, che lì’aborto ha una sua potente dimensione problematica e dolorosa per, quanto meno la maggior parte delle donne, non sempre a livelli così immediatamente riconoscibili.

  11. @ francesca violi
    Come si direbbe dalle mie parti… el tacòn xe pexo del buso (la toppa è peggiore del buco che va a coprire).
    Dire che il medico dovrebbe trattare il/la paziente “come se” fosse suo fratello o sua sorella significa assumere come giusta e valida la mentalità familistica e paternalistica che pervade il senso comune in Italia. Prendere le relazioni intrafamiliari come modello universalizzabile di empatia, come metro di ogni relazione che implichi un coinvolgimento umano, significa presupporre per queste relazioni un carattere “fondamentale” rispetto a tutte le altre relazioni che un individuo può intrattenere con i suoi simili nella società. Ecco: questa idea, secondo me, è una delle cause dell’arretratezza culturale dell’Italia in materia di educazione sessuale, contraccezione, questione di genere ecc.
    Poi giustifichi il diminutivo/vezzeggiativo dicendo che il medico deve avere un ruolo di “cura”… anche qui, il paternalismo, il senso di superiorità, l’asimmetria, il rapporto di potere implicito viene esorcizzato (con la scusa della competenza e della responsabilità nei confronti della parte “vulnerabile”) appunto per essere meglio giustificato.
    E non lo dico a caso: che queste considerazioni siano sviluppate parlando di una testimonianza che riporta un atteggiamento rude e aggressivo da parte di un medico, indica secondo me in modo piuttosto chiaro come vengono intese questa “cura” e questa “responsabilità”: come carta bianca ai depositari certificati della competenza.
    Mi dispiace, ma non potrei essere più in disaccordo.

  12. Questo commento è indirizzato a m e a k, e a coloro che hanno i loro stessi dubbi.
    Innanzitutto, sono perfettamente d’accordo con quello che dice Chiara Lalli nel primo commento a questo post.
    Poi, mi fa sinceramente sorridere la loro preoccupazione nei confronti di coloro che raccontano. Credete davvero che l’umiliazione e il disagio che può provocare esporsi – sotto anonimato – alle sparate di qualche cacasentenze e prete mancato sia qualcosa di significativo, in confronto a quelli provati durante le esperienze raccontate? Le loro sparate sono, appunto, certamente un’ottima cartina di tornasole rispetto a quello che dice bene Ileana, a un clima generale di impoverimento che aggiungo io non è solo sentimentale, ma anche proprio di capacità di prestare attenzione, di mettersi in disparte per un momento anche solo per leggere. Un deficit che è quello che diceva girolamo nell’altro thread: è l’ignoranza generale percepita come senso comune, ignoranza che autorizza a parlare, sempre e comunque, per cui quasi immediatamente il punto che io credevo di aver sollevato (come viene affrontata in pratica nel pubblico la questione della pillola del giorno dopo) è stato accantonato per dare vita a un talk show sulle mie abitudini sessuali, con tanto di “esperto”. Un talk show a tratti particolarmente brutale, da tv berlusconiana davvero.
    Ma tutto questo è niente, davvero, in confronto a quello che racconta ad esempio Letizia. Come si fa a non capire che è quello il problema, e che la battaglia sui corpi delle donne, come giustamente scrive Loredana, imperversa in modo particolarmente feroce già da un pezzo?

  13. Vorrei chiedere se Letizia si trovava in un policlinico universitario o no, perchè, per un tipo di intervento diverso, mia madre si è ritrovata, alcuni anni prima da quelli indicati da Letizia, in una condizione simile, nuda e maneggiata davanti a medici e studenti di medicina durante una visita che lei non sapeva assolutamente si sarebbe svolta in quel modo, in uno stato di grande disagio psicologico che l’ha traumatizzata moltissimo. Suppongo che fosse il modo di “insegnare” della facoltà di medicina, senza curarsi né della privacy (concetto che da noi si è sviluppato solo negli ultimi anni in realtà), né del suo stato: era una caso punto e basta, una cosa.
    .
    Ribadisco i ringraziamenti alle persone che condividono le loro storie ed a Loredana che mette a disposizione il suo blog per questo scopo.
    Credo proprio che non si possa assolutamente più aspettare.
    Ci sono due punti fermi, come ribadito più sopra da Barbara, la necessità di ripristinare la 194 e di evitare che l’obiezione si estenda alla pillola del giorno dopo (anche mascherata da appresione per i rischi).
    .
    Quando un medico incontra una paziente è normale che faccia delle domande, per indagare il suo stato di salute, ma è lui/lei che DEVE mettersi in ascolto, perchè dall’altra parte c’è qualcuno che ha un problema, questo qualcuno, dopo essere stato informato dei vantaggi e dei rischi di una cura – la pillola del giorno dopo è in pratica una cura, ha il diritto a scegliere se usifruirne o no.

  14. “un clima generale di impoverimento […] di capacità di mettersi in disparte per un momento anche solo per leggere.”
    Concordo pienamente e ti ringrazio per aver voluto condividere coraggiosamente questa tua esperienza, che oltretutto è servita proprio a far emergere l’ incapacità a farsi da parte per ascoltare e la smania di affermazione di sé e del proprio punto di vista che trapelano da diversi giorni da più di un commento. Tale smania di affermazione di sé, evidentemente, non è altro che l’espressione del potere che si vuole esercitare sul corpo delle donne e sul nostro diritto all’autodeterminazione. Mi trovi completamente d’accordo: è questo il punto e non le abitudini sessuali delle singole protagoniste.

  15. Al di là dei disaccordi dovremmo soffermarci su ciò che ci trova d’accordo, in primis la necessità di questi racconti e di confrontare le nostre esperienze, se Loredana non avesse cominciato questa serie di post non avremmo preso coscienza della realtà situazione riguardante la 194.
    Avevamo pensato fosse un diritto garantito invece così non è.
    Molte come sono venute a conoscenza delle normative riguardanti la contraccezione d’emergenza e Loredana ha creato un apposito modulo per denunciare eventuali illeciti. Quest’ultima, la direzione più pratica e concreta, mi sembra quella più giusta da prendere.
    Partendo innanzitutto da chi come Girolamo e antonella denuncia l’assenza o la strumentalizzazione di un’adeguata educazione sessuale e affettiva nelle scuole, per arrivare direttamente alle strutture ospedaliere (che potrebbero essere coinvolte nella parte educativa) al problema dell’obiezione di coscienza per ciò che è giunto ad essere ora. Ultimo ma non meno importante mi sembra che tutti concordiamo sulla necessità di garantire maggiore supporto alle donne che decidono di interrompere una gravidanza anche nella fase post-ospedaliera, proprio come diceva Zauberei nei vari post un aborto non deve essere ne una colpa segreta ne un evento normalizzato.
    Non so banalmente mi viene in mente che si potrebbe creare un modulo da mettere negli ospedali dove in forma anonima si possano lasciare giudizi o commenti sul trattamento ricevuto, so bene che in italia fare ciò richiede un iter burocratico di almeno 200 permessi, ma spesso gli illeciti e i disservizi non vengono denunciati perché non si sa a chi rivolgerli, è solo un’idea comunque.
    Tra di noi ci sono insegnanti, storici, avvocati e psicologi possiamo concretamente fare qualcosa e spero Loredana ci illustri presto ciò su cui sta lavorando, se ci fosse bisogno io nel mio piccolo sono disponibile. Grazie ancora a tutti.

  16. Riguardo alla domanda sul perchè sia così diffusa l’obiezione di coscienza vorrei dire qualcosa.
    Conoscevo una ginecologa bravissima, laica, atea, progressista, fondatrice di un consultorio. Obiettrice. Mi sono sempre chiesta il perché di questa strana scelta. Penso che il motivo sia molto semplice: se non sbaglio i medici che praticano l’IVG non possono essere pagati più dei colleghi che non la praticano. Quindi a un carico di lavoro significativamente maggiore non corrisponde un salario maggiore. Dunque perchè farlo? Con tutti i rischi che comporta, considerato che di interventi chirurgici si tratta.
    Scusate la banalità, ma penso che molti medici si facciano semplicemente i conti in tasca.

  17. @ zauberei
    Cosa possa significare, per una donna in particolare, affrontare un aborto, io non posso né capirlo né saperlo, né mai potrò. Non posso saperlo per due ragioni: banalmente, nel mio caso, perché non sono donna; ma anche perché, se pure lo fossi, secondo me vale la regola aurea per cui ogni individuo è un essere distinto e unico, fa i conti con circostanze diverse, con un contesto sociale e familiare diverso, con una storia diversa.
    La sostanza del mio sforzo, nel leggere un racconto come quello di Letizia, non può quindi consistere nel tentativo di “entrare” nei suoi sentimenti, nella sua rabbia o nelle ragioni profonde che motivano le sue scelte; tanto meno, può ridursi ad una disquisizione sulle conseguenze psicologiche inconsce di una vicenda come quella raccontata. Non spetta a me, non ne ho il diritto… anche solo sollevare il tema, come fai tu, denota secondo me una sostanziale mancanza di tatto.
    L’importanza di storie come quella di Letizia, o di tutte le altre donne che hanno condiviso i loro racconti, non sta quindi in un presunto “insight” che ci permetterebbero di avere sulla sofferenza soggettiva, interiore, privata di un individuo di fronte a scelte difficili e circostanze terrificanti, o su una dinamica puramente psicologica. Quella sofferenza è e resta inattingibile. Si possono soltanto leggere queste storie e, stipulato un patto implicito con chi ce le racconta, assumere come elemento indiscutibile la sincerità dei sentimenti che esprimono attraverso un mezzo per sua natura “monco” (la parola scritta sullo schermo di un pc).
    .
    Ma il motivo per cui questi racconti vanno ben al di là della semplice testimonianza individuale – il motivo per cui, cioè, trascendono tutti i limiti di empatia e reale comprensione appena elencati e hanno una straordinaria utilità – risiede in un fatto molto semplice: parlano a TUTTE/I noi, perché raccontano una società che sdogana una violenza sottile e quotidiana in mille forme e mille modi.
    Per cui io non potrò mai attingere fino in fondo la sofferenza di Letizia, di Valentina, di Viola ecc. ma potrò pormi il problema: come deve funzionare, come deve operare, un soggetto o una struttura che ha il compito di salvaguardare la libertà e la dignità di donne come loro, di fronte a sofferenza, angoscia, scelte difficilissime…?
    In due parole: la questione che sollevano questi racconti è politica e sociale, non individuale e psicologica. Solo se la si affronta in questi termini, secondo me, si possono evitare banalizzazioni, personalizzazioni e derive da talk show.

  18. Dopo tanti post, ho deciso di raccontare la mia esperienza, anche se non è una storia tanto interessante, neanche speciale.
    Questa è la mia storia.
    19 marzo 2010, era venerdì. Non posso dimenticare questa data. Avevo 25 anni.
    Giornata di passione con il mio ragazzo. Usiamo il preservativo, sempre.
    E’ sempre andato tutto bene fino a quel giorno.
    Il preservativo, non so come, si riarrotola e si schiaccia in fondo alla vagina.
    Lui era venuto e ci siamo accorti solo dopo che il preservativo aveva preso un’altra strada.
    E’ stato come averlo fatto senza precauzioni.
    Panico totale. Corro il farmacia, quella vicino casa che elargisce farmaci anche se non hai la ricetta: “poi me la porti” dice sempre il farmacista.
    Provo a chiedere la pillola del giorno dopo, visto che il mio medico di base non c’è.
    Il primo farmacista mi accoglie dicendo:
    “un momento che chiedo alla collega”. Io mi domando come mai, perchè la farmacista è donna? Misteri.
    Arriva la farmacista che mi fa il terzo grado:
    “cos’è successo? quanti anni hai? Ma è il tuo ragazzo o un rapporto occasionale?”
    L’ultima domanda non la capisco proprio. Rispondo un pò sotrdita: “è il mio ragazzo..ma che c’entra?”
    La farmacista, forse resasi conto che ha detto una cavolata, cercando di arrampicarsi sugli specchi dice: “beh, perchè già è grave…però sai, se era uno sconosciuto…le malattie…”
    Neanche una frase grammaticalmente coerente.
    Io rilancio: “ho detto che ho usato il preservativo, purtroppo mi si è schacciato dentro, io le precauzioni le ho prese…”
    Non riesco a difendermi. La farmacista mi fa passare dietro il bancone e mi fa un discorso dicendo che la pillola è abortiva, che potrei rimanere sterile, che invece di usare il preservativo dovrei prendere la pillola, ma che se vengo con la ricetta del medico lei la pillola del giorno dopo me la da.
    Io in un nano secondo ho pensato:
    -la pillola del giorno dopo non è abortiva;
    -non dovrei usare il preservativo ma la pillola, vallo a dire alla LILA e poi mi racconti;
    -potrei rimanere sterile ma se presento la ricetta va bene, ergo, la ricetta del medico è un amuleto che protegge la fertilità.
    Io stordita, spaventata, offesa me ne vado.
    Il mio ragazzo è riuscito a farsi fare una ricetta a nome di una sua amica che si è rivolta al suo medico.
    Un giro incredibile. Farmacia notturna, pillolina per me e tanti cari saluti.
    Mi è rimasta una rabbia dentro, un senso di tristezza.
    Nella mia testa mi sono dovuta ripetere mille volte, per poter andare avanti e farmene una malattia, che ero (sono) abbastanza grande da sapere cosa sia la contraccezione, anche quella d’emergenza, che io le precauzioni le ho usate, ma gli incidenti capitano.
    Eppure, ogni volta che vedo quella farmacista ho tanta voglia di dirle tutto quello che mi porto dentro.

  19. Sono molto d’accordo sugli interventi di chi sottolinea i punti che ci accomunano – il bisogno di difendere la 194 e la somministrazione della pillola del giorno dopo. dal mio punto di vista poi, sono molto allarmata all’idea che il sostegno psicologico sia terra di conquista dei movimenti pro – life, e in generale di soggetti guidati più da una spinta ideologica (scelta terminologica non casuale, perchè i comportamenti che traducono la metafisica religiosa in crociata smettono di essere religiosi ma diventano ideologizzati). Questa colonizzazione è incompetente e pericolosa. Una donna che per motivi assolutamente suoi, legati alla sua vicenda personale, si trovi a vivere la scelta abortiva con un senso di colpa che magari della religione si serve ma con la religione non ha niente a che spartire, può trovare in questi interventi un’amplificazione dei suoi problemi di cui proprio non aveva bisogno.
    Infine sono superd’accordo per un progetto di educazione sessuale nelle scuole – credo tra l’altro che, potrebbe essere anche moderatamente fattibile, sul piano pratico e che se fatto bene possa essere una grande occasione per i ragazzi per riflettere su un sacco di cose (non solo sesso, genere, corpo – ed eventualmente relazione – ma anche vantaggi e limiti del linguaggio scientifico per dire)

  20. Don Cave – ma anche secondo me non è possibile inferire al cun chè. Come ho scritto, e ho invece reagito alle inferenze proposte da Letizia – inferenze che hanno ricadute nel dibattito. Ritengo un diritto interloquire, e ritengo utile farlo.
    Aggiungo che sono donna, ho preso una pillola del giorno dopo, ho affrontato una gravidanza in età avanzata e ho contemplato prima dell’amniocentesi la possibilità di un aborto. So che per me abortire sarebbe stata una mazzata e trovo che sottolineare la necessità di una comprensione psicologica del problema e l’urgenza di un sostegno sia un oggetto politico importante – un diritto a chi attraversa una situazione difficile. Polemizzo regolarmente con i cattolici che liquidano le donne che abortiscono come delle sceme svampite che non sanno quello che fanno, e quindi come posso e quando posso discuto la normalizzazione dell’esperienza – perchè la conquista e tutela di un diritto passa per la consapevolezza di una complessità non per la sua scotomizzazione.

  21. @ alice: ma guarda, non credo, non perchè i medici non possano essere venali, per carità, ma chi non fa ivg fa qualcos’altro, non è che stanno con le mani in mano…. una cosa che molti anni fa ho sentito dire da qualcuno è piuttosto che chi fa ivg poi va a finire che fa solo quello, dato che sono pochi a farle, e questo alle lunghe è deprimente….chi fa ginecologia parte con l’idea di occuparsi anche di altre cose, compresi i parti che alla fine comunque sono come dire più piacevoli – esiste anche un burn out dell’operatore…..
    non voglio assolutamente difendere la categoria, eh.

  22. Ho letto ora il commento, Zaub in verità già venti anni fa erano le prof ed i prof di religione a fare una sorta di educazione sessuale a scuola. Per me così è stato al liceo, con i pro derivanti dal fatto che lei era molto giovane e piuttosto progressista rispetto alle direttive del vaticano, ed i contro derivanti dal fatto che essendo cattolica comunque tendeva ad una morale di questo tipo. Tutto fatto nella massima amicalità eh, seduta sulla cattedra, secievole, innescando dibattiti tra stundet* per far uscire poi ciò che considerava adeguato.
    Non è raro che le persone di azione cattolica si percepiscano come psicologi.
    Ovviamente era contraria all’aborto.
    Questo può dare l’idea che io sia favorevole agli insegnanti di religione ed al fatto che possano occuparsi dell’educazione sessuale, a scanso di equivoci: NO affatto, non è così, sono contraria ad entrambe le cose. Ho solo esperienza di una persona che non era “propriamente” una fanatica.
    L’educazione sessuale dev’essere fatta da personale realmente laico, che non cerca di inculcare una dottrina in chi ascolta, e sia preparato seriamente.

  23. @ zauberei
    Essere consapevoli della complessità è essenziale, ma la complessità non può diventare uno scudo per negare la sostanza del problema che secondo me – scusatemi se mi ripeto – resta di natura sociale e politica.
    E’ indicativo, da questo punto di vista, che quando si parla in generale di questione di genere o quando si evidenziano i limiti culturali nell’affrontare tematiche connesse alla sessualità e al rapporto con il proprio corpo, il discorso vada sempre in una direzione ben precisa, con due passaggi che ricorrono quasi sempre: (a) genderizzazione, (b) individualizzazione.
    In soldoni: la questione viene affrontata come prettamente “femminile” (un’ottima tattica per caricare sulle spalle delle donne il peso delle discriminazioni e della “sessualizzazione” che subiscono quotidianamente) e come “individuale”.
    .
    Sull’educazione sessuale e sui limiti del linguaggio scientifico, penso che anche molti uomini dovrebbero fare un piccolo “à rebours”, magari per scoprire quanto queste tematiche li coinvolgano direttamente, e non come semplici spettatori/commentatori di un problema altrui. Gli uomini si trincerano spesso, magari inconsciamente, dietro il dogma duro a morire della “virilità” per escludere la propria diretta implicazione in un dibattito su questi temi.
    C’entra poco o nulla con le testimonianze riportate in questo spazio, ma vorrei raccontare una mia personale esperienza su quanto i limiti del discorso medico (e i condizionamenti delle persone che se ne fanno portatrici) possono influire in modo trasversale, creando le basi per una lotta comune.
    Molti anni fa, in età pre-adolescenziale, in seguito ad una piccola infiammazione al pene mi feci visitare da un conoscente medico. Non è forse secondario il fatto che questo stesso medico sia contrario alla pillola del giorno dopo e definisca gli omosessuali dei “malati” avvalendosi di pseudo-argomentazioni mediche…
    Fatto sta che mi diagnosticò una fimosi e decretò che avrei dovuto sottopormi ad un intervento chirurgico per non avere problemi in caso di rapporti sessuali.
    E’ chiaro che nel momento in cui avessi preso la decisione di fare l’intervento mi sarei di fatto trovato a dichiarare, agli occhi dell’ambiente familiare e sociale circostante: ho intenzione di avere dei rapporti sessuali; o, meglio, ne ho già avuti, ho riscontrato dei problemi ed è giunto il momento di fare il famoso intervento.
    Inutile dire che, per una serie di condizionamenti, evitai accuratamente di prendere questa decisione; in compenso, mi trovai a vivere l’intera adolescenza con una specie di tabù sessuale infrangibile: non posso avere rapporti perché ho un problema che può essere risolto solo chirurgicamente… ma siccome sottoporsi all’intervento significherebbe esporre la propria vita sessuale alla pubblica conoscenza… beh, meglio evitare qualsiasi rapporto fino a data da destinarsi.
    Quando infine, dopo svariati anni, ho superato questa resistenza interna e ho avuto il primo rapporto, ho constatato che, in realtà, la presunta fimosi non era un problema; che forse la fimosi non l’avevo affatto; che, per dieci anni della mia vita, avevo convissuto con un tabù completamente infondato.
    E’ naturale che dei dubbi sulla buona fede del medico mi siano sorti…
    .
    Perché ho raccontato questa storia? Semplicemente per ribadire quanto già detto: la medicalizzazione della sessualità può fungere da scudo per sostenere, dietro il paravento della competenza medica, un approccio ideologico, per colpevolizzare l’individuo, per creare tabù e oscurantismo.
    E in questa dinamica gli uomini non sono solamente dei nobili e illuminati “alleati esterni” delle donne, chiamati a fungere da spettatori più o meno passivi ad un dialogo su problematiche esclusivamente femminili: sono parte in causa.
    Questo, ovviamente, senza nulla togliere al carattere infinitamente più pervasivo dei condizionamenti e della violenza sottile che agiscono sulle donne in materia di contraccezione e aborto, di fronte ai quali una storia come quella che ho raccontato io è davvero poca cosa.

  24. Confermo che anche per me l’educazione sessuale/sentimentale a scuola è venuta per iniziativa della parrocchia, mentre la prof. di scienze – per esempio – ci ha comunicato che avrebbe saltato a piè pari il capitolo sulla riproduzione. Probabilmente troppo scomodo da affrontare per lei con una classe di ragazzini delle medie in piena crisi ormonale.

  25. vi mando il questionario che come assemblea delle donne del lazio contro la legge di riforma dei consultori (legge Tarzia) abbiamo diffuso nei mesi scorsi cercando di raggiungere le donne in tutte le regioni.
    sabato 21 gennaio a roma alla casa internazionale delle donne via della lungara 19 (dalle 9.30 alle 17) tireremo un pò le somme.
    Stiamo cercando di organizzare una risposta nazionale laddove la legislazione regionale attacca il nostro diritto alla salute riproduttiva e quindi all’autodeterminazione
    QUESTIONARIO
    Nella tua Regione:
    1 Quanti Consultori sono aperti e quanti lavorano almeno almeno 4 mattine e 2 pomeriggi a settimana ?
    2 Ci sono difficoltà nella prescrizione della Pillola del Giorno dopo ?
    Se sì quali ?
    3 E’ somministrata la Ru486 ?
    [ ] in ospedale con ricovero
    [ ] in ospedale senza ricovero
    [ ] in clinica privata convenzionata
    [ ] no
    4 Ci sono leggi o proposte di legge di modifica dei Consultori Familiari o delibere o circolari o anche dichiarazioni verbali di voler fare proposte di modifica della legge di istituzione dei CCFF o del loro funzionamento ?
    5 Ci sono organismi privati e/o confessionali che lavorano nei Consultori Familiari ? Se sì quali ?

  26. don cave – d’accordissimo sulla necessità della lotta comune, sociale e politica e trasversale tra i generi. ma quello che è successo a te lo attribuirei più all’ambiente nel quale vivevi, familiare e sociale, che ne so, con i relativi condizionamenti, che ha operato su di te in quel momento della tua vita, che a quello che aveva detto il tuo medico….una fimosi tra l’altro può facilitare effettivamente infezioni. al di là che mi pare del tutto ovvio e sottinteso alla natura di essere umano il fatto di avere prima o poi dei rapporti sessuali con qualcuno, che dichiarazione è….

  27. Rispetto al post, solidarizzo con Letizia dall’inizio alla fine, sulle modalità della visita e sulla sua storia di parto. Nel mio blog in particolare sto raccogliendo tantissime testimonianze molto disparate, dal meglio al peggio, e anche secondo me c’è ambivalenza fra sorrisi e soavità verso il bambino e indifferenza e sgridate verso la donna/mamma.
    Premesso che:
    Chi entra in un ospedale viene presto a conoscenza di turni di lavoro molto pesanti e un clima che in alcuni casi è alienante; il famoso “burn-out” dei sanitari non è un’invenzione e ogni operatore si relaziona e si difende come può dal dolore degli altri, in qualche caso sviluppando una corazza di cinismo che può fare davvero male.
    Le visite invasive con 20 studenti ad assistere: questa purtroppo sembra essere la prassi specie nei grandi ospedali. C’è la necessità per gli studenti di “vedere” e “fare pratica” e questo spesso cozza con la necessità di delicatezza e riservatezza da parte del paziente tout court, non solo la donna. Immaginate un ricoverato con diagnosi fatale che si sente esaminare davanti a 20 persone. Certo è che capita per esempio di partorire un bambino con la testa girata in avanti e che in fretta il ginecologo convochi in sala parto tutti gli studenti e specializzandi per vedere un parto raro, e così senza che nessuno ti abbia chiesto il permesso ti trovi a sgravare davanti a 20 persone. Cioè non è un problema legato specificamente agli aborti.
    Quello che però secondo me è legato alle storie di maternità e di aborti è una cultura diffusa di sessismo che a mio modo di vedere non è tanto misoginia come “odio” verso la donna, ma piuttosto come la sua infantilizzazione. Ma non riguarda gli ospedali in particolare quanto piuttosto tutta la società.
    Cioè la donna secondo me viene ancora percepita come una persona non davvero adulta – da tutti, non solo dai sanitari. E quando sei in un contesto così delicato come quello della gravidanza, questo ha effetti nel bene e nel male: nel bene perché ci può essere quello che ti prende in carico, ti coccola ecc., nel male perché ci si sente in diritto di non raccontarti la verità (per esempio è difficile che ad una donna incinta venga detto come viene quantificato il dolore del parto), e se si impunta per far valere un suo diritto, viene vista come una bambina capricciosa.
    Da qui secondo me esce tanta frustrazione delle donne che vivono una gravidanza e che non si sentono ascoltate, tantomeno capite senza essere giudicate.
    Ci sarebbe anche un discorso molto amaro da fare sul fatto che questo stato di cose per alcune donne è anche comodo, perché una bambina può delegare le responsabilità e le colpe a qualcun altro. Ma andrei davvero troppo OT.

  28. educazione sessuale a scuola mai da parte di quelli di religione, ma scherziamo…. secondo me la cosa migliore sarebbero degli incontri tenuti da esterni qualificati di qualche centro tipo aied o simili….

  29. Ringrazio Loredana Lipperini per il chiarimento.
    Ragionarci?
    Da quale punto di vista? Etico? Scientifico? Giurisprudenziale? Ideologico-politico? Sociologico?
    Inoltre non si può non notare l’aggressività nelle risposte a chi, nel ragionare, non dimostra di condividere totalmente ciò che di volta in volta affermano le protagoniste delle testimonianze.
    Ci sono stati interventi di ginecologi che hanno chiarito come la visita medica sia necessaria e non sia un atto eseguito per far sentire in colpa la donna, rivelando così una proiezione della donna stessa che vede all’esterno qualcosa che è dentro di sé in realtà. Questo significa che c’è forse molta determinazione nelle protagoniste di queste vicende ma, a mio parere, poca consapevolezza.
    Qual è l’obiettivo? Migliorare un servizio che si ritiene svolto male o condurre una battaglia culturale? La differenza non è da poco, specie per una donna. Nel primo caso lei è il fine, nel secondo è solo mezzo.
    Riguardo l’argomento educazione sessuale, la questione è altrettanto complessa. Molto spesso si tende a ridurre l’educazione sessuale ad una serie di informazioni biologico-farmaceutiche.
    Questo, io credo, non rende più consapevoli le persone. Piuttosto svela un equivoco di fondo presente nella nostra società: ritenere il linguaggio scientifico superiore a qualsiasi altro perché neutrale e asettico. In realtà però il linguaggio della scienza è puramente descrittivo. Una serie di nozioni non educa se non diviene coscienza della propria responsabilità.
    Da ultimo, riguardo la possibilità di obiezione di coscienza, devo dire che mi trovo in disaccordo con chi vi vede un illecito e mi piacerebbe sapere quale sia l’illecito.
    Il diritto della donna a disporre liberamente del suo corpo, in caso di IVG, si scontra con il diritto a nascere di quel qualcosa che porta in utero. Entro certi limiti stabiliti per convenzione prevale il diritto della donna, al di fuori prevale quello del nascituro. Tuttavia, essendo materia estremamente delicata da un punto di vista etico, si è ritenuto giusto e doveroso sancire la possibilità di rifiutare di contribuire all’IVG al personale medico-sanitario che non ritenga corrispondente alle finalità della professione l’IVG.

  30. Michelle la tua storia è davvero esemplificativa delle prassi ridicole, inutili e appunto accusatorie che si mettono in atto quando una donna chiede la pillola del giorno dopo. Grazie per la testimonianza

  31. Calenda Maia dixit: “la donna secondo me viene ancora percepita come una persona non davvero adulta – da tutti, non solo dai sanitari.”
    .
    Secondo me è questa la chiave per comprendere l’entità del problema. A questo atteggiamento mi viene da dare un nome: sessualizzazione. Il corpo femminile viene non soltanto sistematicamente erotizzato (trasformato in oggetto del desiderio da possedere ad ogni costo, strumentalizzato e svilito dall’uso pubblicitario ecc.) ma anche sessualizzato, riportato alla sua funzione puramente biologica, riproduttiva e di accudimento. E così la donna diventa un essere “indifeso e vulnerabile” da “progettere”, una “sorellina minore”, una bambina capricciosa e isterica (termine che, guarda caso, deriva dalla parola greca per “utero”…).
    .
    E’ anche questo il motivo per cui, secondo me, “più educazione sessuale” non è la soluzione. Non, quanto meno, se non si problematizza il modo in cui viene fatta, gli aspetti sotto cui viene considerata, il contesto in cui viene svolta. Perché io ho avuto la “fortuna” di fare educazione sessuale alle superiori… e il ricordo estremamente nitido che ho è quello di una quasi totale concentrazione sui “problemi” della componente femminile. Già: gli aspetti della sessualità femminile (rischio di gravidanza in primis) ridotti a “problemi” che non riguardano – o riguardano solo indirettamente – il partner maschile, e gli aspetti della sessualità maschile quasi interamente sottaciuti (eccezion fatta per il terrorismo psicologico sul “rischio contagio” da malattie veneree).
    .
    Perché questo? Io mi do’ una risposta semplice: perché l’educazione sessuale che mi è stata impartita a scuola era appiattita sulla dimensione medica; una lista di malattie, controindicazioni, problematiche, rispetto alle quali le precauzioni e i metodi anticoncezionali erano visti non come fattori di responsabilità e condivisione, ma come semplici barriere contro i “pericoli” del rapporto. Quale miglior modo per far sopravvivere i più radicati tabù culturali, in fondo, che dar loro la parvenza neutra, asettica e razionale della “Scienza”?
    .
    Per sintetizzare il ragionamento in una battuta: l’educazione sessuale in *questa* società rischia di essere lo specchio del modo compulsivo, represso, discriminatorio, pieno di tabù e assai poco sereno, con cui *questa* società vive la dimensione sessuale.
    Se lo sforzo di chi combatte contro la discriminazione e contro le porcherie degli obiettori non va nella direzione di un cambiamento profondo della società (e mi ricollego ad un post di Loredana Lipperini di qualche settimana fa, in cui la questione di genere era ricollegata alla lotta di classe), le importanti conquiste parziali, ottenute al prezzo di lotte durissime, saranno perennemente a rischio, minacciate dal ritorno di fiamma dell’integralismo, dell’oscurantismo o della violenza sottile che spesso si ripara dietro la parvenza rispettabile di tanti “uomini di scienza”.

  32. Infatti Don Cave per cercare di combattere “il modello unico” di educazione sessuale dovremmo provare insieme a proporre un nuovo modello. Mi domando ad esempio quale siano le figure che è necessario portare nelle scuole, un gruppo costituito da un ginecologo/andrologo, un esperto in psicologia (che si occupi abitualmente di ragazzi e sia abituato a dialogare con loro) e un sessuologo, mi sembrerebbe un team ben fatto, che ne dici? Niente prof di religione o forse, meglio ancora, niente prof se possono mettere a disagio gli alunni.
    Prima ancora dei ragazzi bisognerebbe organizzare un incontro con i genitori per spiegare loro esattamente ciò che verrà detto ai loro figli.
    Sul sito de “Il corpo delle donne” in questi giorni era in corso una bella discussione proprio su questo argomento, cercare di migliorare le cose insieme mi sembra lavorare sul sociale a tutti gli effetti, non credi?

  33. Intanto sarebbe bene evitare le incursioni ideologiche in fatto di sessualità da parte di insegnanti di religione ed emissarie pro vita, che è ciò che accade oggi nei progetti sull’educazione all’affettività e alla sessualità (così si chiamano in didattichese). Circa un mese fa ho tentato di sondare le idee delle mie alunne sull’aborto e ho raccolto un coro di “donne assassine” e “l’aborto è un omicidio”. Questi sono i risultati dei progetti in questione, per cui approfitto di questo spazio per invitare Loredana a tenerne conto nella serie di iniziative che sta preparando e sulle quali mi terrò aggiornata.
    Quanto all’obiezione di coscienza, vi lascio il link ad un articolo dell’espresso di cui segnalo questo passaggio che mi sembra fondamentale:
    “C’è una parte consistente di medici che obietta per motivi che con la coscienza non hanno nulla a che fare», denuncia da tempo Carlo Flamigni, ginecologo e membro del Comitato nazionale di Bioetica. Non è facile trovarsi da soli a dire “sì” in un reparto di obiettori, malvisti quando non vessati dai colleghi. La parte del Don Chisciotte non si addice a tutti, soprattutto quando i mulini a vento sono il tuo primario o il direttore dell’ospedale. E poi, semplicemente, non si fa carriera, tutto il giorno in trincea a fare aborti. Specie se i vertici dell’ospedale sono di nomina politica e di area cattolica (o addirittura ciellina).” http://espresso.repubblica.it/dettaglio/aborto-in-ospedale-non-si-puo/2169832/1111

  34. Sarà un caso che queste storie d’ospedale italiano (perché tre quarti delle narrazioni fanno leva sull’atmosfera di quell’ambiente, che si può trovare in qualsiasi reparto: dove si abortisce ma anche dove si agonizza o dove si aggiustano le ossa), cadano su giudizi che sono l’espressione di una curiosa contraddizione: appunto perché quella vita minuscola non è presunta ma reale come la nostra che deve essere tutelata. Bisogna aver assorbito una gran quantità di radiazioni ideologiche per dire castronerie così colossali e antiscientifiche (vita presunta, stiamo scherzando?). E poi, agli occhi dell’universo siamo tutti microscopici presuntuosi, grotteschi esserini fanatiche e fanatici nati da un brodo e che torneranno presto alla polvere. Ma questo cosa vuol dire?
    La differenza non è fra tifoserie. E’fra chi ragiona e chi non lo fa, e si dimostra empiricamente. Dimostrando l’inesistenza delle ragioni di certe affermazioni.

  35. Il consultorio del mio territorio organizza lezioni di educazione sessuale in tutte le scuole (dalle elementari alle superiori) non senza incontrare resistenza, ma riesce a lavorare. Vanno insieme la ginecologa, la psicologa e *l’ostetrico*.
    Devo dire che a me e a molte compagne non è servito a molto: il loro lavoro è iniziato quando noi già frequentavamo il liceo, e ormai avevamo una vita sessualmente attiva (quando già sei abituata ad usare come unico “metodo contraccettivo” il coito interrotto è difficile farti cambiare abitudine).
    Per questo penso che sia importante iniziare prestissimo. Iniziare sin dalle elementari a spiegare ai bambini (con una psicologa che sa come parlargli) come nascono i bambini e poi continuare insegnando loro cosa è il pene, cosa la vagina, cosa sono le mestruazioni, mi sembra un ottimo metodo per vivere serenamente e consapevolmente un buon rapporto col proprio corpo e con la sessualità.

  36. un cambiamento sta avvenendo, non posso che concordare.
    decido però di lasciare un commento soprattutto per il senso di commozione, rabbia, empatia che ho provato nel leggere il tuo post nella parte della sala ginecologica. Forse più che l’aborto in sè, senza sminuirne la rlevanza, è proprio un certo tipo di atteggiamento che si riceve a segnarti per sempre…

  37. Io ho esperienza diretta di corsi fatti alle elementari con uno spirito ampio, culturale, dedicato alla relazione in generale, con grande attenzione alle domande dei ragazzi e delle ragazze, a informarli/e anche sui loro diritti. Si può fare. Ma ho anche esperienza di ostruzionismi assurdi da parte di certi dirigenti, per non parlare di genitori (madri!) sconvolte dal fatto che i loro maschi avessero sentito parlare in dettaglio dell’apparato genitale femminile (meno sconvolgimento per il contrario). Poi molto d’accordo che c’è tanto lavoro in molti ambiti, e credo che sia proprio quello che stiamo facendo.
    Un’amica mi ha segnalato un articolo scritto anni fa da Stefania Noce, la donna uccisa dal fidanzato. Penso che alcune delle sue parole qui siano molto a proposito, anche in risposta alle giuste osservazioni di Don Cave:
    “Cominciando con le battaglie inglesi delle suffragette del primo Novecento e passando per gli anni ’60 e ’70, epoca dei “femminismi”, abbiamo conquistato con le unghie e con i denti molti diritti civili che ci hanno permesso di passare da una condizionedi eterne “minorenni” sotto “tutela” a una forma di autodeterminazione sempre più definita. Abbiamo ottenuto di votare e, solo molto dopo, di avere alcune rappresentanze nelle cariche governative; siamo state tutelate dapprima come “lavoratrici madri” e, solo dopo, riconosciute come cittadini. E mentre gli altri parlavano di diritto alla vita, di “lavori morali” e di denatalità, abbiamo invocato il diritto a decidere della nostra sessualità dei nostri corpi.
    Abbiamo denunciato qualsiasi forma di “patriarcato”, le sue leggi, le sue immagini. Pensavamo di aver finito. Ma non è finita qui.
    Abbiamo grandi debiti con le donne che ci hanno preceduto.
    Il corpo delle donne, ad esempio, in quanto materno, è ancora alieni iuris per tutte le questioni cosiddette bioetiche (vedi ultimo referendum), che vorrebbero normarlo sulla base di una pretesa fondata sulla contrapposizione tra creatrice e creatura, come se fosse possibile garantire un ordine sensato alla generazione umana prescindendo dal desiderio materno. Di questa mostruosità giuridica sono poi antecedenti arcaici la trasmissione obbligatoria del cognome paterno, la perdurante violabilità del corpo femminile nell’immaginario e nella pratica sociale di molti uomini e, infine, quella cosa apparentemente ineffabile che è la lingua con cui parliamo, quel tradimento linguistico che ogni donna registra tutte le volte che cento donne e un ragazzo sono, per esempio, andati al mare. Tutto, molto spesso, inizia nell’educazione giovanile in cui è facile rilevare la disuguaglianza tra bambino e bambina: diversi i giochi, la partecipazione ai lavori casalinghi, le ore permesse fuori casa. Tutto viene fatto per condizionare le ragazze all’interno e i ragazzi all’esterno.”
    La sua conclusione: “l’autodeterminazione della sessualità e della maternità sono OVUNQUE le UNICHE vie idonee alla tutela delle relazioni familiari di fatto o di diritto che siano; ricordando che le donne sono ovviamente persone di sesso femminile prima ancora di essere mogli, madri, sorelle e quindi, che nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, nè, tantomento, di una religione.” Questo, io credo, è quel che condividiamo, ciò per cui io sono grata per la condivisione di queste storie e per le discussioni. Non ho mai avuto la sensazione di crescere come in questi giorni. Qui il link all’articolo: http://movimentostudentesco.org/cultura-e-culture/ha-ancora-senso-essere-femministe-un-articolo-di-stefania-noce

  38. @ Alice
    Grazie della risposta. Quindi secondo te l’aumento esponenziale di obiettori sarebbe dovuto meno a ragioni ideologiche e molto di più ai pesanti tagli dei finanziamenti alla sanità nel corso dei vari governi Berlusconi-Tremonti. In effetti quadra, so che molti ospedali lamentano forte sottoorganico, trovo comprensibile togliersi di mezzo un carico di superlavoro aggiuntivo mentre se non lo svolgi non vieni affatto penalizzato – anzi.
    Bisognerebbe puntare di più i riflettori su questo.
    .
    Sono molto d’accordo sul sessismo come infantilizzazione sociale delle donne, collima con tutta una serie di comportamenti che vengono riservati appunto ai bambini in quanto esseri “non finiti”: ai bambini si può mentire o tacere la verità, se ci fanno esasperare uno scapaccione non è la fine del mondo e poi, così imparano, non sono in grado di decidere da soli della loro vita (e ci mancherebbe altro).
    Nel caso della contraccezione, la componente “donna” si incrocia con la componente “paziente” ed è per così dire un cortocircuito “educativo”.
    .
    Tuttavia devo rivedere un parere che ho espresso, la disinformazione in materia sessuale di cui parla WeWee è molto più grave di quello che immaginavo: nei commenti al post di ieri è che la domanda di Valentina sull’incredibile possibiltà che una donna che richieda la contraccezione d’emergenza sia già incinta ha avuto una risposta: SI, nella sua carriera WeWee ne ha trovate ben due.
    .
    Stimo WeWee per il suo blog di divulgazione scientifica e di sensibilizzazione alle truffe mediche, e sinceramente credo che abbia espresso le preoccupazioni di un ginecologo coscienzioso rispetto alla salute di pazienti che SUL SERIO non sanno nulla di riproduzione, e non hanno la minima idea dei danni che potrebbe provocare la pillola del giorno dopo.
    Ho parlato di paternalismo rispetto alla dottoressa che ha visitato Valentina e confermo la sensazione.
    Secondo me la costatazione dell’ignoranza crassa che circonda la sessualità – può far davvero cascare le braccia ad un medico e portarlo a quell’atteggiamento tipico del professore di scuola verso lo studente che si ostina a non studiare la lezione.

  39. Andrologo/ginecologo sessuologo e psicologo.
    Quindi di sesso si parla solo in termini scientifici per educare?
    E il linguaggio dell’arte? La letteratura? La danza? La poesia? Non c’è nulla che possa insegnare la relazione in questi linguaggi?
    Perché solo il linguaggio scientifico merita autorevolezza?
    Io sono convinto invece che non educhi nessuno un’educazione sessuale basata su nozioni biologico-farmaceutiche.

  40. Quello si può aggiungere (o accompagnarlo di pari passo, chissenefrega) ma prima devi sapere cosa è una vagina, cosa un pene; devi sapere che quando ti viene la prima mestruazione devi usare un’assorbente e non i cerotti (come fece un’amica di mia madre), devi sapere come si usano gli anticoncezionali, e che per abortire non si usa il prezzemolo. O no?

  41. Un medico deve agire sempre secondo scienza e coscienza. Non è un robot che eroga servizi o che obbedisce a qualsiasi richiesta gli possa rivolgere il paziente o lo Stato o il Direttore sanitario.
    Nessuno può obbligare un medico o il personale sanitario a realizzare un’IVG se in coscienza considerano quell’atto contrario ai fini ed ai principi della professione medica.
    Un’IVG può essere percepita contraria alle finalità della professione medica in quanto interrompe il naturale processo di formazione di una persona umana.
    Inoltre va sottolineato che la legge e la deontologia medica impongono anche ad un medico obiettore di praticare l’IVG nel caso in cui una donna si trovasse in imminente pericolo di vita e quel medico fosse l’unico presente (L. 194/78 art. 9).

  42. Certamente alice, ha ragione.
    Tuttavia io sostengo l’idea di un uso complementare di molteplici linguaggi, non di escludere quello biologico-medico. Saranno poi i singoli protagonisti della relazione a scegliere cosa sia opportuno fare nella propria camera da letto in base alle loro esigenze.

  43. Beh, che la scuola debba insegnare anche ad usare gli assorbenti mi sembra esagerato.
    Mi accontenterei di italiano, storia, geografia, inglese e matematica fatte bene…
    La famiglia? Il pediatra/medico di base? A cosa servono?

  44. @CloseTheDoor,
    Credo che le ragioni siano varie. Alice nominava la questione economica. Aggiungo le ragioni di carriera: spesso i capi (di dipartimento, di scuola di specializzazione) sono obiettori, alcuni anche militanti (qualche anno fa a Roma tutti i direttori delle scuole lo erano, molti di loro erano i firmatari del “Manifesto dell’embrione come paziente” – un capolavoro prolife), e alcuni specializzandi e medici all’inizio della carriera ti dicono: “se non sei obiettore anche tu non vai da nessuna parte”.
    Poi ci sono le ragioni professionali, cioè passare tutta la vita a fare IVG non è magari quello che avevi desiderato. Anche questo è un effetto dell’altissima percentuale: se siamo solo in 10 su 100 a fare qualcosa, noi 10 non faremo altro per cercare di garantire il servizio. Alcuni ci arrivano a diventare obiettori, per esasperazione.
    Ci sono anche ragioni più “genuine”, ma qui si crea un conflitto intrinseco e che ora è esploso: è la stessa 194 che, da una parte, garantisce un servizio e, dall’altra, prevede una via per fiaccarlo. Finché i numeri di obiettori rimangono bassi, il sistema più o meno funziona. Quando si arriva al 70, 90% e più (esistono reparti “fantasma” o reparti che interrompono il servizio in caso di malattia o ferie dell’unico non obiettore), si inceppa. Ma esiste un aspetto di fatto, numerico, e uno di principio: quanti usano l’esenzione e la possibilità stessa di ammettere l’esenzione per legge da un servizio pubblico che si è liberamente scelto.
    Inoltre c’è un aspetto cronologico curioso: i giovani sembrano non avere abbastanza consapevolezza delle situazione prima della legge. Sembrano avere dimenticato la clandestinità e lo schifo che causava e l’importanza della 194, pur con tutti i suoi limti. Oggi esiste ancora la clandestinità, ed è fatta di orrore di lusso se puoi pagare (cliniche, studi privati, magari di chi ufficialmente è obiettore), o di orrore da quattro soldi (Cytotec, luoghi e modalità abortive non sicuri e non igienici).
    Un medico obiettore con cui ho parlato (molto giovane) mi ha detto: “io deciderei di essere obiettore o no caso per caso”. Cioè, giudice supremo delle vita altrui. Ecco, un medico non dovrebbe usare le proprie credenze morali e/o religiose come un mezzo “educativo”, come uno strumento per insegnare e imporre i Veri valori.
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    @m,
    Sembra che tu abbia copiato il solito slogan senza nemmeno ragionare sulle parole e sui concetti: “in scienza e coscienza” è un modo di dire tanto diffuso quanto incompreso e incomprensibile. Prova a definire il significato di queste parole e a declinarle, è meno semplice di quanto sembra. La coscienza del medico non può schiacciare quella del paziente, quando si ripete che “il medico non è un robot” o un mero esecutore si dimentica di ricordare che nemmeno il paziente dovrebbe essere trattato come un minorenne capriccioso e presuntuoso. Con la fine del paternalismo e l’affermazione dell’autodeterminazione, il rapporto medico-paziente è cambiato: l’equilibrio tra poteri è molto diverso, o dovrebbe esserlo, da quanto il medico decideva e quasi nemmeno parlava con il paziente.
    Inoltre non hai idea di quello che succede negli ospedali (far conoscere la realtà della negazione di un servizio e dell’assistenza è proprio una delle ragioni della pubblicazione di questi racconti). A fronte di vuote affermazioni di principio, nessuno controlla che l’IVG sia garantita, che se non c’è nessun medico anche gli obiettori eseguano IVG o che assistano le donne. Non è raro che le donne sia state abbandonate nei corridoi, insultate, maltrattate, lasciate aspettare ore e ore o giorni inutilmente – cioè senza ragioni cliniche, ma per motivi “punitivi”. Non è raro che sia stata negata loro l’anestesia. In casi più gravi si è arrivati a urlare “assassine” o “puttane”. L’altalena tra obiettori e non è crudele e folle, soprattutto quando devi fare una interruzione tardiva e può essere che ci vogliano molte ore. Allora può capitarti di entrare il lunedì e cominciare la procedura il mercoledì, poi interromperla perché arriva l’obiettore, e riprenderla il venerdì e così via. Il tutto accanto alla sala parto e alla nursery e tra gli sguardi di riprovazione di molti (se non fosse abbastanza chiaro, gli aborti tardivi sono decisioni profondamente dolorose, decisi in seguito alla scoperta di una patologia fetale più o meno grave o di una patologia della madre la cui terapia sarebbe mortale per il feto, sono cioè situazione particolarmente gravose emotivamente – non credo che la coscienza c’entri nulla nel renderle ancora più penose, nel caricarle di una sofferenza evitabile. Magari mi sbaglio, magari è giusto che le donne soffrano il più possibile per espiare la colpa – insomma, se devi proprio abortire, soffri il più possibile!).
    Non è solo il medico ad avere la coscienza e non dimentichiamo che ha scelto liberamente di esercitare nel pubblico (almeno da quando esiste la legge). Nessuno vuole ridurlo a un robot o a un esecutore, ma ci sono anche dei doveri professionali su cui bisogna riflettere. Altrimenti dovremmo permettere a un avvocato d’ufficio di rifiutare la difesa di uno stupratore. O a un medico nel pronto soccorso di soccorrerlo. Non permetteremmo a chi ha scelte liberamente l’esercito di rifiutare l’uso delle armi.
    Concordo che sia sgradevole obbligare qualcuno contro la propria coscienza, ma il significato di “obbligare” cambia a seconda delle circostanze. Alcuni “obblighi” sono derivati dalle nostre scelte e, appunto, si chiamavo doveri professionali.
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    Aggiungo un ultima considerazione (e mi scuso per la lunghezza di questo commento): la resistenza e la delirante informazione sulla RU486, ovvero il cosiddetto aborto farmacologico. La si ostacola in tutti i modi, si blatera sulla pericolosità e si parla di “aborto facile”, si obbliga al ricovero (follia assoluta, perché a meno che non sia un TSO io firmo e me ne vado). Non commento, ma mi limito a domandare: non è che una delle ragioni dell’opposizione alla RU è che in questo modo c’è meno spazio per esercitare il potere di decidere per gli altri? La RU infatti è una procedura più snella e semplice della IVG chirurgica, che richiede meno personale e che potrebbe, almeno in parte, arginare l’effetto delle altre percentuali di obiezione.

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