Un po’ in corsa, oggi, dunque posto qui una recensione uscita ad aprile per Linus.
Che si moltiplichino gli horror italiani è cosa buona, e all’inizio del 2025 se ne contano diversi, per di più e per fortuna ambientati nel nostro territorio, faccenda che è stata e in parte è ancora un tabù per molti scrittori. Per esempio, I sette corvi di Matteo Strukul, pubblicato da Newton Compton, si svolge nelle Alpi venete, a Rauch, nella Val di Ghiaccio, così come Morsi di Marco Peano era ambientato a Lanzo Torinese, e, ormai quindici anni fa, XY di Sandro Veronesi immaginava nel Trentino l’inesistente Borgo San Giuda. Anche qui c’è una maledizione, anche qui c’è una strage, e naturalmente una risoluzione di cui si tace. È interessante, però, che spesso sia il freddo ad attirare la scrittura dell’orrore, con un’eccezione di cui si dirà la prossima volta, ovvero Gotico salentino di Marina Pierri, che ripercorre la via del fantastico mediterraneo a cui sognava di dare vita Chiara Palazzolo (e che in parte ha realizzato nel suo ultimo romanzo, Nel bosco di Aus).
I sette corvi, in origine, è una fiaba raccolta dai fratelli Grimm, dove i figli di un contadino vengono trasformati in uccelli dopo una maledizione inconsapevole del padre, che non vedendoli tornare con l’acqua per il battesimo dell’unica figlia si augura che diventino corvi. Appunto. La storia prosegue con la ricerca avventurosa e perigliosa dei fratelli da parte della ragazza, in un modo molto simile a quanto avverrà ne I cigni selvatici di Andersen.
Nel romanzo di Strukul i corvi sono quelli, terribili e maestosi, della leggenda. Nel gelo dei boschi che circondano Rauch viene infatti ritrovato il cadavere di una giovane insegnante, che si è allontanata dalla scuola credendo di vedere due studenti che si addentravano fra gli alberi. A sua volta, sembra perdersi nel bosco, ipnotizzata da rumori che non comprende, e verrà ritrovata senza gli occhi. Da Belluno, arrivano il medico legale Alvise Stella e l’ispettrice Zoe Tormen, che ha alle sue spalle un passato da pilota di rally e molti tormenti. Naturalmente c’è una storia che viene dal passato lontano, e altrettanto naturalmente c’è una vecchia e misteriosa depositaria di quel segreto che grava sull’intero paese, e soprattutto ci sono loro, i corvi imperiali, grandi e feroci, che dopo il primo delitto seminano il terrore, colpendo il giusto e l’ingiusto come avviene nelle storie, e non solo.
La scelta più interessante di Strukul è proprio quella di aver usato i corvi: e vale la pena di andare a cercare un libro che nel 2019 uscì per Adelphi, La mente del corvo di Bernd Heinrich (traduzione di Valentina Marconi), indagine straordinaria sul corvo imperiale che i popoli nordici chiamavano l’uccello-lupo, e sull’intelligenza che già gli antichi descrivevano, ricordando (Tucidide) che i corvi avevano l’accortezza di non mangiare animali morti di peste. Ma i corvi sono sempre stati considerati sacri, e spesso temuti: sono i messaggeri di Odino sotto i nomi di Huginn e Muninn, e lo stesso ruolo di osservatori viene affidato da Noé nella Bibbia (il corvo, dopo il diluvio, non tornò, a differenza della colomba e della rondine, testimoniando che esisteva un mondo dove mettere radici). Ma i corvi hanno sempre avuto un legame stretto con la magia oscura, e con la morte, perché si nutrono di cadaveri, e per secoli sono stati perseguitati, fin quando, nel 1979, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione che li ha inseriti fra le specie protette. E dovrebbero esserlo, perché la loro intelligenza, ci dice Heinrich, è davvero straordinaria.
Nelle storie, il corvo è nefasto, come ricorda Francesca Matteoni nel suo bel libro Il famiglio della strega, uscito per effequ: insieme ai gatti e ai rospi, si accompagna alle donne dedite alla stregoneria. Ed è il macabro nevermore ripetuto dal corvo a gettare nella disperazione assoluta il protagonista della poesia The Raven di Edgar Allan Poe, per non parlare del fumetto di James O’Barr (poi film fatale con Brandon Lee), che viene citato nel romanzo di Strukul insieme a Poe, ai Figli del grano di Stephen King e ad altri a cui paga il proprio debito.
Strukul, infatti, raccoglie consapevolmente diverse eredità, che risalgono fino a un’altra fiaba gotica già citata qui, Il terrore, che Arthur Machen scrisse nel 1917, due anni dopo la fine della Prima guerra mondiale. In un villaggio del Galles, durante gli anni di guerra, si comincia a morire, in modo strano e apparentemente non collegabile. Un aereo viene abbattuto da uno stormo di piccioni. Un’esplosione in una fabbrica di munizioni uccide decine di persone, ma l’osservatore in cerca di notizie scoprirà che l’edificio è intatto e i morti non sono stati mostrati alle famiglie perché straziati dai morsi. Una bambina va a cogliere fiori e non torna più, e il corpo non viene ritrovato. Una donna precipita in una cava abbandonata. Padre e figlio annegano in una palude. Intere famiglie muoiono massacrate o si barricano in casa e muoiono di sete. Si pensa naturalmente ai tedeschi. Si pensa a una nuova arma, terribile come l’iprite che ha fatto strage durante la battaglia della Somme. Ma non è così, perché le morti cessano insieme alla guerra, e infine si comprende che sono stati gli animali, e le altre creature viventi non umane, a ribellarsi, o essere contagiati dall’odio che le guerre portano con sé.
Non è un caso che Il terrore sia stato tra le letture che hanno ispirato il racconto Gli uccelli di Daphne du Maurier, di cui Hitchcock, nel famosissimo film, manterrà solo lo spunto iniziale, perché la storia originale è molto più spaventosa. Ed è semplice, e terribile: l’inverno sta arrivando, ma insieme alle nuvole nere e al vento gelato stormi di uccelli si avvicinano alla costa. Nat Hocken e la sua famiglia vivono in una fattoria isolata in riva al mare. Nat è il primo ad accorgersi che sta accadendo qualcosa di imprevedibile, e tenterà invano di mettere sull’avviso i vicini o far arrivare la sua voce alle autorità. Infine, sarà costretto a barricarsi in casa, con i viveri contati, mentre i becchi degli uccelli battono sulle finestre inchiodate, e il mondo, supponiamo, finisce. Senza motivo: in du Maurier non ci sono spiegazioni, non c’è un gesto umano che chiama vendetta, tutto avviene come avvengono le catastrofi, senza motivo, e senza giustizia.
Ne I sette corvi, invece, la giustizia c’è, così come c’è un crimine commesso nel passato, quando era facile commetterne, specie contro le donne e soprattutto contro le donne sapienti. Ci sono nuovi inizi, forse, e riparazioni, forse. Perché il romanzo, come avviene quasi sempre nell’horror, non racconta soltanto le storie di uomini e donne ordinari in circostanze straordinarie: racconta le loro debolezze e le loro imperfezioni, di cui i corvi stessi, nella mitologia, sono il simbolo. E dunque le relazioni sbagliate, le infelicità. Ma anche la speranza rappresentata da Lu e soprattutto da Marco, l’adolescente che ama le storie e che sa che solo le storie, anche quelle più incredibili, possono salvarci, con la memoria che portano con sé e con il potere che, grazie al cielo, conservano.