Nel trentennale della morte di Franco Fortini, provo a fare una riflessione sulla diffusione della cultura, e provo a farla tirandomi fuori dalla marea di polemiche di questi giorni.
Perché Fortini? Perché una decina di anni fa, un po’ per amore, un po’ per gioco, un po’ perché all’epoca le poesie di Fortini erano introvabili, ho cominciato a postare una poesia (o parte di una poesia) su Facebook, tutte le sere. Era diventato un appuntamento per parecchi commentatori, quello col “Fortini della sera”: preciso che non aggiungevo commenti, o interpretazioni, o critica. Pubblicavo e basta. Così come era cominciata, finì: finì, anzi, con la ripubblicazione delle poesie, e tanto basti.
Ora, a diversi anni di distanza, alcuni, che sono indubbiamente molto più titolati di me, hanno storto il naso su quell’esperimento, giudicandolo incongruo e soprattutto giudicando inadatta me a parlare di Fortini. E’ verissimo: basti dare un’occhiata ai partecipanti ai convegni che ne hanno celebrato in queste ore il trentennale per capirlo.
Il punto è che io non volevo essere titolata: volevo far arrivare le parole e i versi di Fortini a chi non lo conosceva.
Qualche giorno fa, si è accesa una polemica nelle polemiche a proposito dell’opportunità di commissionare un articolo su Virginia Woolf a un’autrice di romance, e di accostare Woolf ai social: la comprendo, figurarsi, e comprendo che chi ha appunto i titoli per parlare sia in ambito accademico che divulgativo di Woolf rivendichi a sè l’autorevolezza.
Ma questo pone una questione di cui, a modo mio, mi sono sempre occupata: riassumendo, si può semplificarla in una domanda, ovvero “solo all’accademia spetta la divulgazione culturale?”. Anzi due: “la cultura non deve contaminarsi con il cosiddetto pop?”.
Per me, la risposta è sempre stata no.
Qualche esempio personale. Nel 1990 scrissi Mozart in Rock, a pochi mesi dal bicentenario dalla morte di Mozart. Occasione a parte, si era nel pieno di un dibattito sulla fruizione della cultura negli anni della postmodernità. Il termine rock, dunque, veniva utilizzato in modo simbolico: titoli più altisonanti come Mozart e la fine della metafisica o, a scelta, Il postmoderno in Mozart, avrebbero avuto lo stesso significato: il peso che una filosofia della mutevolezza e un’estetica del frammento avevano allora nell’approccio alla musica in generale. All’epoca, ci si trovava a difendere la cosiddetta Muzak, la musicaccia, la musica di sottofondo, musica da ascoltare distrattamente, in onta agli adorniani: ma anche la musica classica cominciava a venir ascoltata allo stesso modo, gadget inclusi. Mozart in Rock si riferiva insomma al Mozart conosciuto, amato e consumato nell’era del rock. Già negli anni Ottanta, molto prima che Mozart trillasse nelle suonerie di milioni di telefonini, non ci si limitava a idealizzarlo e a vagheggiarlo, a reinterpretarlo in disco, in concerto, in saggio o in biografia. Era un gadget supremo quello che ci veniva proposto: un celestiale marché aux puces imbandito di Mozart-orologio (con quale tempismo è stata immessa sul mercato una tiratura limitata di Swatch con silhouette mozartiana!), accessoriato con Mozart-coiffure (la moda del codino alla Amadeus, lanciata da più di uno stilista della chioma), nobilitato da Mozart-griffe (idem per quanto riguarda il dilagare di panciotti e jabots), confortato da Mozart-yogurt (cosa di più adatto, per la pubblicità di un alimento bianco e leggero, della fresca giovinezza dell’eterno fanciullo prodigio?).
Già trent’anni fa si disse che l’importante era la musica di Mozart, non la sua vita e tanto meno la sua immagine. Giusto. Ma non valeva, non vale tuttora la pena di concentrarsi su quest’ultima e comprenderne il consumo? E’ più giustificato scandalizzarsi per il duettino del Don Giovanni inserito nella pubblicità dei cotechini o analizzare le modalità di fruizione che i destinatari dello spot applicano a quella musica (e forse anche ai cotechini)? Se fossero proprio quelle storielle, quelle figurine, quei cioccolatini a costituire, anche, un approccio diverso alla musica oltre che all’uomo? Se, insomma, immagine e prodotto artistico avessero conosciuto, proprio con Mozart, una connessione difficilmente spezzabile? O meglio, per continuare con le domande: ha senso continuare, o ritornare a concepire l’opera d’arte come necessariamente, categoricamente aliena da ogni sospetto di consumo, dalla sola idea di poter venire etichettata come “prodotto”? Arte come ciò che è destinato ad essere fruito da pochi, a non venir rimasticata e risputata come melassa per masse?
Serviva a chiarire tutto ciò, quel libro? No. Si ostinava, tramite Mozart, a ritenere il nomadismo dei saperi una forma di conoscenza non meno legittima (e spesso non meno elevata), e a indagare incroci, crossover, mondi che appaiono tra i flutti, anche se destinati ad essere inghiottiti prima di poter diventare Atlantide.
Esattamente dieci anni dopo, scrissi Generazione Pokémon: provando a riflette sulle modalità di fruizione culturale che i bambini e le bambine mettevano in atto attraverso quella che venne giudicata, e lo è ancora, come una colossale operazione di marketing. Sì, anche. Però ponevano altre questioni, come la possibilità di seguire la storia attraverso molte piattaforme, dal videogioco al cartone alle carte collezionabili. Ai tempi uscì un saggio interessante, Merci di culto, di Fulvio Carmagnola e Mauro Ferraresi, dove gli autori suggerivano di abbandonare l’ idea faustiana di un controllo del creatore sulla creatura e dicevano che, insomma, la merce ha un proprio destino, pur se imperscrutabile. E ha, in un certo qual senso, una propria sensibilità. Carmagnola e Ferraresi chiamavano tutto questo “animadvertere”, una sintesi tra la parola “anima” e la parola “advertising”: ovvero, se non l’anima, il comportamento animato della merce. Che, come la mente cartesiana, “dubita, concepisce, afferma, nega, vuole, non vuole: immagina anche, e sente”. Perché la Vespa è merce di culto? Perché esprime una felicità di ieri, vera o fabbricata molto bene, come le fotografie d’ infanzia dei replicanti di Blade Runner e come la vita antecedente del giocattolo Woody in Toy story 2. Dal momento che la merce, come tutto ciò che è vivo, non vuole morire, e fa di tutto per guadagnarsi un po’ d’ eternità.
Ancora qualche anno dopo, e scrivo Ancora dalla parte delle bambine: che nasce dallo stesso pensiero. Non sarà che attraverso quel che non guardiamo con attenzione, e che giudichiamo severamente come pop, passa molto della nostra, sì, cultura? Parlavo, in quel libro, di bambole e di pubblicità: non voleva essere un saggio accademico, ma voleva parlare alle ragazze (e infatti venne severamente giudicato dal femminismo accademico, ma pazienza). Voleva vedere con i loro occhi e provare a capire, insieme, cosa non funzionasse in una serie di modelli.
Sono ancora convinta di questo. Sono ancora convinta che, certamente, l’accademia e la critica sono indispensabili per restituirci il pensiero e l’opera di un autore o autrice. Ma che il cosiddetto pop aiuti a veicolare quegli autori e quelle autrici: magari avvicinando, in un passo successo, all’accademia stessa.
Nulla di nuovo, nulla, mi auguro, di divisivo. Ma avocare a sé l’unica autorevolezza possibile significa, per me, tornare indietro di molto.