Non vediamo i conflitti. Vediamo soltanto noi e la nostra posizione all’interno di quei conflitti.
Questa è una di quelle mattine in cui mi interrogo sul perché abbiamo un governo di destra, e sul perché le destre ascendono un po’ ovunque. Questa è anche una di quelle mattine in cui torno a quindici anni fa, a quell’autunno 2009 in cui nasce il Movimento 5 Stelle: che nella prima fase almeno ha accolto il risentimento e lo smarrimento di chi non si sentiva riconosciuto, ma spesso trasformandolo in pura negazione. Curiosamente, The Dome esce proprio nel 2009. E’ fra i romanzi più controversi di Stephen King, per struttura e anche per il tono amarissimo, come se non ci fosse – o quasi- via d’uscita.
Due anni prima, in occasione del Vaffa-Day del 2007, Valerio Evangelisti scriveva su Carmilla:
“Che la piazza reclami i suoi diritti è positivo. Che se ne serva a fini di generico “giustizialismo” non lo è, e rischia persino di risultare infame. Secondo la stampa locale, molti di coloro che hanno partecipato al V-Day abbracciavano un concetto astratto di “legalità”, e dirigevano la loro ira, in egual misura, contro i politici come contro i lavavetri, i rom, i rumeni e gli altri bersagli dei sindaci di Bologna, Verona, Firenze, i comuni del Pavese ecc. (volutamente, e provocatoriamente, li metto tutti assieme).
Bisogna stare attenti a chi si riempie la bocca del termine “legalità” e, rimboccate le maniche della camicia, arringa le folle. Mica sempre è un “progressista”. Grillo a volte lo è, altre volte somiglia a un puro forcaiolo, come si vede vagando sul suo sito. (…)
Eugenio Scalfari e Giovanni Sartori esagerano certamente, e in maniera interessata, quando vedono dietro Grillo il supposto pericolo di un fascismo di ritorno. Però evitiamo di enfatizzare la lucidità politica di un attore che, in nome di uno slogan vecchio come il cucco (“la politica è sporca, facciamo pulizia”), sembra sollecitare, certo in buona fede, i più bassi istinti della massa quanto Berlusconi.
Prima e seconda Repubblica sono finite malissimo, c’è bisogno di una terza? In quanto a democrazia diretta, personalmente mi auguro qualcosa di meglio”.
Facciamo un passo avanti.
Nel 2008 esce un libro di Aldo Bonomi che si intitola “Il rancore. Alle radici del malessere del nord” (Feltrinelli). Bonomi si interroga su quello che avviene da tempo nel nord del paese, che manifesta il proprio disagio in vari modi: “in passato lo ha fatto affidando con forza la delega politica a un partito che esprimeva gli interessi del territorio regionale, la Lega Nord. Oggi invece manifesta il suo rancore con un atteggiamento di sfiducia nel complesso del mondo politico, e in particolare nei confronti dei partiti di centro-sinistra. La politica viene accusata di essere troppo lenta nel risolvere i problemi posti dallo sviluppo produttivo, ma anche di avere un atteggiamento vessatorio, per esempio sulla questione fiscale generale e soprattutto nei confronti del cosiddetto ‟mondo delle partite Iva” (ormai circa sette milioni in tutta Italia”).
Bonomi si pone, poi, una domanda folgorante:
“Come è stato possibile che chi sapeva tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica-territorio negli anni Settanta e Ottanta, a un certo punto si sia trovato completamente spiazzato di fronte al cambiamento?”.
Girolamo De Michele, recensendo il libro, sottolineerà come costituisca soprattutto “una vera e propria fenomenologia delle passioni, unificate dal «sordo rancore quale reazione alla frustrazione di un ruolo sociale perduto» che accomuna la “paura operaia” alla “paura della scarsità”, del non avere accesso a sufficienti risorse (…) Lungi dal tendere al mite e all’omogeneizzazione, il sociale si sfrangia e moltiplica i punti di frizione, ciascuno dei quali richiede un lavoro di ricostruzione sul campo e di messa in opera di strategie di narrazione. Bonomi insiste molto su questa dimensione del narrare, e a giusta ragione: all’incapacità della sinistra tradizionale di narrare la società dell’ultimo quindicennio (della quale il nord costituisce, per certi versi, il laboratorio) corrispondono strategie narrative opposte ed efficaci, a dispetto dell’apparente rozzezza”.
Ancora un passo avanti. Siamo nel 2009
“…il conduttore ha voluto segnalare la «nuova scala di valori» che il berlusconismo ha introdotto mettendo al centro della società «l´individualismo» – al che la Meloni, che sarebbe anche un po´ «sociale», si è sentita in dovere di puntualizzare: «La persona, più che l´individualismo».”
(Il conduttore è Pierluigi Diaco, l’emittente è Radio Gioventù, ospiti Meloni e Berlusconi).
Un’inezia. Eppure dimostra come le strategie narrative del tempo, per rozze che fossero, trovassero accoglienza. Non capire quello che stava accadendo è stato un errore mortale.
Più avanti ancora, nel 2013, Wu Ming dirà la sua in diverse interviste, come questa al Manifesto:
“C’è un «Popolo onesto» (dato per indiviso al suo interno, niente classi, niente interessi contrapposti) e c’è una «Casta corrotta» descritta come esterna al «Popolo». Per risolvere i problemi dell’Italia, bisogna eleggere «le persone oneste», che non prenderanno «decisioni di destra» o «decisioni di sinistra»: prenderanno le decisioni «giuste». In questo, la retorica del grillismo è affine a quella del tanto odiato governo Monti: le questioni sono tecniche, non politiche. E’ un frame semplicistico e consolatorio, che rimuove le contraddizioni, non tocca le cause della crisi e offre nemici facili da riconoscere”.
E in questa a Repubblica, sulle colpe e le responsabilità:
«Della sinistra ufficiale, che per decenni ha pensato di doversi “spostare al centro”, alla conquista dei voti “moderati”. In nome di questa strategia ha rinunciato anche agli ultimissimi residui di alterità, ha smesso di definirsi sinistra a favore del nomignolo “centrosinistra”, ha detto sì a ogni sorta di nefandezza in nome di una presunta “modernizzazione”. Si è adagiata nella subalternità all’ideologia liberista, cantando le lodi del mercato, del privato, della “sussidiarietà”. Ha boicottato e combattuto movimenti sociali che si opponevano a privatizzazioni, speculazioni e scempi ambientali. Quando ha governato, ci ha dato leggi come il Pacchetto Treu e i campi di prigionia per i clandestini. Finché, un bel giorno, non abbiamo scoperto che il “centro” non contava nulla, anzi, non c’era proprio! Quanto ai voti “moderati”, di che stiamo parlando? Un terzo degli elettori continua a votare per “anticomunismo” anche in assenza di comunisti. Siamo un paese estremo, altro che moderato. Il centrosinistra ha gravi colpe ma non ha mai pagato dazio, perché “di là” c’era Berlusconi e poteva presentarsi come “male minore”. A forza d’iniettarsi dosi di male dicendosi che era “minore”, una parte di elettorato non ne ha potuto più, e ha deciso di cambiare spacciatore e sostanza.»
Ed ecco l’altro errore mortale. Quando i social hanno favorito la presa di parola , l’atteggiamento generale è stato quello di definire chi protestava come imbecilli, ignoranti, scomposti. Il che rafforzava la collera verso la “casta” è il disprezzo verso i “saputelli” o “colti”, che per il fatto di esser tali con la casta medesima sono giocoforza collusi. E questo è uno dei punti da meditare bene: perché il disprezzo verso i cosiddetti intellettuali non è faccenda nuova, ha attraversato quasi tre decenni in varie forme e canali, ed è diventato ancora più profondo. Colpa di chi? In parte, certo, anche di un modo di concepire il lavoro intellettuale come distaccato dal sociale e dal quotidiano. In parte, di un “frame” da cui non ci si libera perché non viene affrontato.
E così arriviamo a oggi.
Il problema è che molti intellettuali sono stati e sono distaccati, anche quando si impegnano in vari modi. Perché non riescono a vedere. Non riusciamo, perché la responsabilità è sempre collettiva.
Penso a Marco Revelli, quando parlava, pensate, dei “forconi”, che abbiamo già dimenticato (così come abbiamo dimenticato che la rabbia cresce in un paese infelice, povero, immobile):
“Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.
Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo”.
Perché ci penso oggi?
Perché continua a sembrarmi difficile battere questo governo se prima non riusciamo a vederci e a vedere. C’è un gigantesco lavoro di ricostruzione da fare, e dobbiamo pur cominciare a farlo. Partendo da noi, credo.