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«Se avessi di fronte a me un uditorio di ragazze e ragazzi, non esiterei a mostrar loro com’è stata bella, com’è stata invidiabilmente ricca di viaggi, di incontri, di conoscenze, di imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri con il suo passo leggero e voglia il cielo che non perdano la speranza. »

Così Adriano Sofri commemorando, in quel 1995, Alexander Langer, che il 3 di luglio si tolse quella sua vita bella e ricca. Commemorare è difficile, su un social. Si vede in queste ore, dove giustamente ognuno condivide il suo ricordo su Langer (meno di quanto si dovrebbe), e dove siamo alle prese con l’avverarsi di molti dei timori di Langer stesso, da ogni punto di vista, dalla guerra all’ambiente.
Ecco, quelle ragazze e quei ragazzi di trenta anni fa oggi sono donne e uomini avviati alla mezza età, e magari coltivano gli ormai inevitabili risentimenti (perché io no? e tu, come ti permetti di avermi sottratto qualcosa, anche se è così comodo pensare che sei stato tu ad avermela sottratta?). Diciamo che voglio illudermi che almeno alcuni di loro non abbiano perso la speranza, e che continuino a camminare con passo leggero, e coltivando la fiducia negli altri.

Altro, per oggi, non scrivo: sono nel corso del terzo blackout in trenta ore e risparmio la batteria. Sperando, appunto.

Bene, il fallimento dei referendum ci riporta ancora al punto, e il punto è doloroso quanto noto da molto, molto tempo: non abbiamo una classe politica degna di questo nome. Perché io due cosette sui referendum, da antica militante radicale, avrei da dirle, avrei da dire su come siano stati visti per anni come una spina nel fianco che solo un gruppetto di esagitati che, a parere dei partiti, della politica non aveva il senso, usava e rivendicava come strumento di democrazia diretta. Certo che erano altri anni. Certo che non c’era stata la lunga palude berlusconiana e tutte le mutazioni antropologiche che ne sono seguite. Ma resta il fatto che quella classe politica non c’è. Non al momento.
Ehi tu, e gli intellettuali? Beh, alcuni ci sono, e intervengono e fanno quello che possono: parlano pure con le persone, se qualcuno non ci crede, e la sottoscritta, nel suo ostinato orgoglio pietralatese, vede anche come funzionano le cose nelle periferie. Le persone, molto spesso e non sempre, vogliono dai politici – i consiglieri di municipio per dire – cose come: falciate l’erba, cacciate gli immigrati perché sono pericolosi, gli zingari bruciano plastica e c’è puzza, non si dorme perché c’è la movida. 
Non è disprezzo. Non è sottovalutazione. In mezzo a questo tipo di lamentele o rivendicazioni fioriscono cose belle, e solidarietà e iniziative comuni e persone che si fanno carico di ripulire un parco e renderlo un punto di riferimento, per esempio, o che si organizzano per raccogliere e donare abiti per bambini, e altro ancora.
Ma c’è una percezione diffusa, specie fra chi ha superato i cinquant’anni, di un pericolo che minaccia le proprie vite, che come tutte le vite sono fragili e intrise di solitudine e dolore, ma anche di serenità, di desiderio di cose piccole. Quella percezione è stata alimentata senza che si riuscisse a opporvi una prospettiva diversa, al di là dei dannati e gelidi slogan. Se posso, i discorsi politici dai palchi nella grandissima parte sono noiosi, freddi, ripetitivi, svuotati di emozione e, fatemi usare ancora una volta il termine, incanto. Salvo eccezioni, va da sè, e sempre. Ma mi dà da pensare il fatto che le giovani persone si stupiscono e affascinano guardando La grande ambizione e ascoltando le parole, cinematografiche ma vere, di Berlinguer. E che si chiedano anche perché nessuno parla così, oggi. Come Berlinguer, sì, ma anche come Langer, come Pannella, come tutti coloro che nel passato hanno cercato l’emozione, hanno parlato di emozioni, hanno parlato di mani che si stringono.
Io continuo a pensare che se non si trovano altre parole non si realizzano altri fatti, e non si abbatte nessun muro, e non si convince nessuno che i pericoli sono altri, e che riguardano non solo i benestanti che “si permettono di pensare ai diritti”, ma tutti. 

Scrive David Foster Wallace: “Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito”
Domenica si vota per le elezioni regionali. In estate avevo scritto questo articolo per l’Espresso. Le cose non sono cambiate.

Nei giorni passati a ElbaBook (giorni benedetti, dove ho avuto la possibilità di rivedere vecchi amici e di partecipare a un bellissimo incontro su incanto e reincanto e disincanto con Wu Ming 1 e Mariano Tomatis), ho sentito nominare molto spesso Alex Langer.
Alla luce dei fatti recenti e soprattutto di quelli venturi, andrebbe riletto un intervento del 1987.
Dove dice fra l’altro: “Molto spesso la comunità locale può essere quella che dice “purché vengano i turisti, noi facciamo anche 7 sciovie e se c’è bisogno costruiamo anche un nuovo monte, perché il vecchio non basta più per la quantità di turisti che vorremmo ospitare”. Non e che automaticamente la comunità locale, l’autonomia locale sia risolutiva, ma se non si trova un ambito entro il quale (come in una qualsiasi comunità percepibile reale) le autolimitazioni hanno un senso, cioè non sono soltanto la paura della multa o della pena o della repressione, il discorso non regge. Se non si trova una dimensione in cui la ragione ecologica possa coniugarsi con la democrazia, allora probabilmente le virtù di cui parlavo prima rischiano di essere un nobile e minoritario esercizio di ascesi ecologica, un nobile esercizio di solidarietà, ma un esercizio probabilmente con in grado di invertire la tendenza, o per lo meno di rallentare o arrestare il degrado, cosa che d’altra parte vorremmo tentare di fare”.

“Contro la guerra, cambia la vita: le guerre scoppiano “a valle”, quando tutta una infausta concatenazione di soprusi, violenze e fallimenti si è già prodotta e sembra diventata irrimediabile; i popoli, la gente comune, sono poi chiamati a pagare il conto finale senza aver potuto intervenire sulle singole voci che lo hanno via via allungato. Ma dinnanzi al fallimento della politica e della negoziazione, che sfocia nella guerra, bisognerà pur rafforzare gli “anti-corpi” a disposizione di ogni singola persona”. Così Alex Langer, nelle parole, nelle azioni.

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