Ammetto che la vicenda di Antonio Moresco mi ha lasciato sconcertata. Come ho letto questa mattina a Pagina 3, tutto nasce da un articolo di Giusy Capone per Il giornale d’Italia. Capone è un’insegnante, collabora con diverse testate (La Fionda, Il Borghese, Barbadillo) e interpreta l’opera di Moresco come ascrivibile alla destra.
Ora, ognuno può tirare per la giacchetta chi vuole, e si è visto nel tempo cosa è avvenuto e avviene ancora con Tolkien (anche se buona parte della colpa va a molti giornalisti e critici di sinistra, che alla parola “Tolkien” nitriscono come i cavalli di Frau Blücher e si affrettano ad accostarlo ai campi hobbit senza averne mai letto mezza riga). Personalmente trovo l’accostamento fallace, perché Moresco è inaccostabile a chiunque, e dunque meravigliosamente anarchico di suo. Inoltre, basterebbe aver letto la sua storia, i cammini, la Repubblica nomade, l’impegno sul clima, per essere quanto meno perplessi.
Perplesso è ovviamente lo stesso Moresco, che ne ha scritto su Il Primo amore. Anche perché non è che basti leggere Celine, che va letto, per essere arruolati.
Lo sconcerto viene però dalla falsa attribuzione di citazioni.
Ora, il falso d’autore è faccenda nobile, e nel tempo sono stati innumerevoli gli esempi, in buona o cattiva fede, per beffa o per imbroglio. Ma qui è un po’ diverso. Mi chiedo non se domani qualcuno o qualcuna possa impunemente attribuire ad altri parole che non ha detto o scritto (sì, lo so, è già successo e succede), ma quanto siamo attrezzati per opporci e dire che no, non abbiamo detto o scritto quel che ci viene attribuito.
E, su tutto, mi chiedo dove sono finiti i caporedattori.
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