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Subito dopo la prima ondata di Covid e relativo lockdown, se ricordate, si è aperto un lungo dibattito, forse mai chiuso, sullo spazio pubblico e su come sarebbe dovuto cambiare. Si parlò, allora, di rivoluzione urbanistica, di città più aperte alla cura e alla condivisione se non addirittura alla Bellezza, con la maiuscola. Si parlò, ebbene sì, di verde urbano, e si parlò di collegamenti più diretti con i borghi, che erano da rivalutare e prendere a esempio.
Non solo non è andata così, ma credo che ci sia un altro fattore da considerare, ed è la percezione diffusa secondo la quale lo spazio pubblico non esiste. O meglio: ogni spazio dove ci si trova è, per definizione, “mio”. In altri paesi si discute, per esempio, dell’ormai inarrestabile abitudine di non usare gli auricolari in treno o in metropolitana, con la conseguenza di venir sommersi di musiche, moltissimi reel dei social, partite e film, telefonate in viva voce con mamma o fidanzato o collega di lavoro, giochi per bambini con fischi e filastrocche e tutto quello che chi si sposta conosce perfettamente.
Non è una questione di maleducazione, secondo me. O non solo: è la convinzione profonda che lo spazio in cui ci troviamo a muoverci per qualche ora non sia condiviso con gli altri ma appartenga unicamente a chi telefona o guarda o quel che volete. Non so se la causa sia da rintracciarsi nel nostro aggrapparsi alla comunicazione on line durante il lockdown. Ci vorrebbe un sociologo o uno psicologo delle masse  e io non lo sono. La sensazione che ho, invece, è che quella barriera sia caduta: se io sono qui, le regole sono le mie.
Per fare un esempio, è come se io fossi la presidente del consiglio e invece di mantenere il mio ruolo istituzionale, zompettassi sul palco cantando “chi non salta comunista è”: ma questo, come si sa, è impossibile.
Conclusione con aneddoto torinese e un consiglio di lettura per adulti: un piccolo e prezioso libro di Leo Lionni, “E’ mio”. Ma Leo Lionni è l’autore di “Piccolo blu e piccolo giallo”, finito negli anni scorsi nella lista dei libri pro-gender (no comment), e chissà come verrebbe interpretata la proposta.

In questi giorni mi passano davanti agli occhi, sui social, i post del 2020, in pieno lockdown. Rileggo e rivivo lo smarrimento, l’incredulità delle strade deserte, i cieli pieni di uccelli, il silenzio. Ma anche: gli inviti, pure istituzionali, a denunciare gli assembramenti e comportamenti ritenuti scorretti via portale, whatsapp, post su Facebook.
Ripenso a come tutto questo è stato raccontato in quei giorni. E leggo anche di come viene raccontata dai social media manipolati dagli Stati Uniti la necessità di “prendersi la Groenlandia”. Penso al linguaggio che,  per inciso, è un virus esso stesso, diceva il vecchio e amato William Burroughs. Significa che le parole che abbiamo usato hanno generato un problema. Più d’uno, in verità.
Serve a qualcosa parlarne? Sì, moltissimo. Serve come serviva allora lavarsi le mani. Perché abbandonarsi al flusso di notizie e contronotizie non ha fatto  che immergerci nell’abitudine all’eccezionalità. Occorre sempre guardare quell’eccezionalità negli occhi, e sapere esattamente dove siamo.
Lo ha fatto, per esempio, Le Monde Diplomatique, in un articolo che riflette sul confinamento, e dice: “La chiusura della primavera 2020 è una delle esperienze umane più rilevanti e meno dibattute degli ultimi anni”
Noi non lo abbiamo fatto, non lo stiamo facendo. Ed è un virus, anche questo.

Quattro anni fa, cominciava. Non eravamo ancora chiusi nelle case, almeno a Roma, ma stavamo per esserlo. 
Ricordo che stavo preparando la lettura di Testamenti di Margaret Atwood per Radio3, con Viola Graziosi e Laura Palmieri. Ricordo che quella lettura sarebbe avvenuta in una sala vuota, solo noi e, a distanza, i tecnici. Ricordo che l’8 marzo non ci sarebbero state piazze, e per questo la serata si chiamò “Come se fosse una piazza”.
Ricordo tutto. Ricordo di aver scritto e pensato che la mia paura era  che una situazione inedita, che ci spaventava e ci separava, tirasse fuori il peggio di noi. Ricordo di aver letto cose che non avrei voluto e non vorrei mai più leggere. Demonizzazioni di persone che “entrano in un supermercato col naso rosso” e “andrebbero arrestate subito”. Scenari dove i giovani, ovviamente debosciati per anagrafe, ciucciano canne passandosi tonnellate di coronavirus. E i vecchi, si sa, son maledetti perché escono a fare una passeggiata, che crepino subito, si diceva.

I social network hanno moltissime colpe, e qui non si sono mai negate. Una di queste è quella di aver ulteriormente diminuito quella che negli anni Novanta si chiamava “attention span”, ovvero il tempo di attenzione che dedichiamo all’ascolto degli altri.
Ma hanno dei meriti. Uno di questi è farci ricordare nel dettaglio quello che sempre più spesso tendiamo a dimenticare. Ci blandiscono, cioé, rivendicando il ruolo della nostra memoria, e ogni giorno ci dicono cosa facevamo in questo giorno uno, due, dieci anni fa.
Questa mattina mi è servito.
Era la sera del 23 marzo 2020. Ero sola contro un cielo rosso.

Questo post parte da un fatto molto semplice: dopo due anni e mezzo ho preso il covid, come molte e molti. E come molte e molti, ho scritto due post su Facebook per lamentare la spossatezza. Ci sono state un paio di reazioni indicative: in sostanza, la persona con follower non deve permettersi di parlare pubblicamente della propria fragilità perché sottrae attenzione a chi non ha la stessa attenzione.
Come scrive Philippe Forest:
“La maggior parte degli umani pensa che esista nel mondo una quantità limitata di fortuna. Di qui l’espressione di contentezza che passa sul loro volto quando vedono un morente. Credono che il morente, con la sua disgrazia, liberi così la parte di fortuna che gli era riservata e che questa possa reintegrare il totale a disposizione dei vivi”.
C’è qualcosa di molto antico in queste reazioni. E qualcosa di nuovo che va studiato. A quel nuovo mi sottraggo, da questo momento. Chi vuole sapere come sto, mi telefoni e mi scriva. Ai social, e ai suoi mostri, non darò più nulla di me.

LA NEBBIA

Esercito su di me, in questi giorni, la difficile pratica del vivere attimo per attimo. A dire la verità, lo faccio dalla fine di febbraio, quando è diventato chiaro che avremmo vissuto tempi non pensabili prima. Non sono una santa,…

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