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Quattro anni fa, cominciava. Non eravamo ancora chiusi nelle case, almeno a Roma, ma stavamo per esserlo. 
Ricordo che stavo preparando la lettura di Testamenti di Margaret Atwood per Radio3, con Viola Graziosi e Laura Palmieri. Ricordo che quella lettura sarebbe avvenuta in una sala vuota, solo noi e, a distanza, i tecnici. Ricordo che l’8 marzo non ci sarebbero state piazze, e per questo la serata si chiamò “Come se fosse una piazza”.
Ricordo tutto. Ricordo di aver scritto e pensato che la mia paura era  che una situazione inedita, che ci spaventava e ci separava, tirasse fuori il peggio di noi. Ricordo di aver letto cose che non avrei voluto e non vorrei mai più leggere. Demonizzazioni di persone che “entrano in un supermercato col naso rosso” e “andrebbero arrestate subito”. Scenari dove i giovani, ovviamente debosciati per anagrafe, ciucciano canne passandosi tonnellate di coronavirus. E i vecchi, si sa, son maledetti perché escono a fare una passeggiata, che crepino subito, si diceva.

I social network hanno moltissime colpe, e qui non si sono mai negate. Una di queste è quella di aver ulteriormente diminuito quella che negli anni Novanta si chiamava “attention span”, ovvero il tempo di attenzione che dedichiamo all’ascolto degli altri.
Ma hanno dei meriti. Uno di questi è farci ricordare nel dettaglio quello che sempre più spesso tendiamo a dimenticare. Ci blandiscono, cioé, rivendicando il ruolo della nostra memoria, e ogni giorno ci dicono cosa facevamo in questo giorno uno, due, dieci anni fa.
Questa mattina mi è servito.
Era la sera del 23 marzo 2020. Ero sola contro un cielo rosso.

Questo post parte da un fatto molto semplice: dopo due anni e mezzo ho preso il covid, come molte e molti. E come molte e molti, ho scritto due post su Facebook per lamentare la spossatezza. Ci sono state un paio di reazioni indicative: in sostanza, la persona con follower non deve permettersi di parlare pubblicamente della propria fragilità perché sottrae attenzione a chi non ha la stessa attenzione.
Come scrive Philippe Forest:
“La maggior parte degli umani pensa che esista nel mondo una quantità limitata di fortuna. Di qui l’espressione di contentezza che passa sul loro volto quando vedono un morente. Credono che il morente, con la sua disgrazia, liberi così la parte di fortuna che gli era riservata e che questa possa reintegrare il totale a disposizione dei vivi”.
C’è qualcosa di molto antico in queste reazioni. E qualcosa di nuovo che va studiato. A quel nuovo mi sottraggo, da questo momento. Chi vuole sapere come sto, mi telefoni e mi scriva. Ai social, e ai suoi mostri, non darò più nulla di me.

LA NEBBIA

Esercito su di me, in questi giorni, la difficile pratica del vivere attimo per attimo. A dire la verità, lo faccio dalla fine di febbraio, quando è diventato chiaro che avremmo vissuto tempi non pensabili prima. Non sono una santa,…

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