Tag: lavoro culturale

Alla fine di questa settimana, bisognerà mettere in fila gli infiniti post, commenti, riflessioni sul lavoro culturale. Sono stati tantissimi, ognuno  ha un tassello da aggiungere, nessuno (per forza di cose) ha la soluzione in tasca.
Quattro punti, per ora, da discutere insieme.
Uno. Perché le riviste culturali online pagano meglio dei giornali? Si dirà, perché hanno gli abbonati. Giusto. Ma stiamo parlando di circa il doppio del compenso per un articolo. Non tutte, ovvio. Alcune fra le più importanti sì, però. Qui bisognerebbe aprire, allora, non una riflessione ma un’azione che riguarda le collaborazioni con i quotidiani.
Due: non partecipare più gratuitamente almeno ai grandi festival (sui piccoli c’è un altro discorso da fare).
Tre. Perché non si riesce a unirsi? Questa è la domanda che è venuta fuori più volte: quando parlo di unirsi, intendo non solo confrontarsi con tutte le parti della cosiddetta filiera, ma con tutti i lavoratori e le lavoratrici non del mondo culturale che in questo preciso momento affrontano la stessa crisi.
Quattro. Il lavoro culturale ha una componente di quella che viene chiamata Fomo, Fear of missing out, ovvero il timore di perdere visibilità. E’ inutile negarla, c’è, viene ritenuta parte indispensabile del lavoro culturale e in parte lo è. Però bisogna ragionarci sopra. Leggendo, come giustamente consiglia Raimo su substack, due fra i molti libri segnalati, il già citato “La conquista dell’infelicità” di Raffaele Alberto Ventura e “Le grandi dimissioni” di Francesca Coin, che contengono analisi e spunti di reazione e anzi di ribellione e anzi di una possibile rivoluzione. 
Che non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta delicatezza.

A maggio 2023, Vincenzo Latronico scrisse un articolo che si intitolava “Presentare stanca”, dove raccontava quel che alcuni già sanno, ovvero che in Germania, per dire, si pagano non solo i presentatori dei libri, ma anche gli autori. La faccenda delle presentazioni è solo una parte del problema, evidentemente. E peraltro pone a chi scrive un paio di dilemmi. Parlo di me: non so se mi farei pagare per presentare un mio libro, e credo anzi di no, perché non è solo una questione di autopromozione, ma la possibilità concreta di incontrare altre e altri, che quel libro lo hanno letto o hanno intenzione di farlo, e dal momento che credo che questo sia un aspetto importantissimo dello scrivere, direi che non sono del tutto d’accordo (se n’è parlato a lungo durante la polemica sulle presentazioni, in primavera, e su Lucy sulla cultura trovate ancora la mia intervista a Wu Ming 1 in proposito). 
Però per i libri degli altri è diverso. In realtà, il lavoro andrebbe fatto in primo luogo su se stessi. Se penso agli impegni che ho preso per la prossima edizione di Più Libri Più Liberi mi arrabbio con me stessa: perché se si escludono quelli dove presento un mio libro o un libro in cui sono coinvolta (come L’isola riflessa di Fabrizia Ramondino), nei fatti lavorerò tre giorni senza alcun compenso. Certo, sono abbastanza vecchia da usufruire di un reddito, non combatto (non più, come è avvenuto fino ai miei 45 anni) con il precariato: ma non è una scusa, perché se io lo faccio gratuitamente fornirò un alibi ai committenti per continuare a comportarsi così.
Questo è solo uno degli aspetti da prendere in esame: resto però convinta che occorra unire tutti i tasselli della cosiddetta filiera, librai, traduttori, scrittrici e scrittori, organizzatori di festival eccetera. Ieri ho partecipato a un incontro online organizzato da Icwa (Italian Children’s Writers Association) dove tutte le figure interessate dicevano più o meno questo, che agire separati ha poco senso. Ma c’è un punto centrale: per farlo, bisogna superare quello schermo che porta a voler parlare sempre e soltanto di sè.

Torno sul lavoro culturale, e pazienza per chi sbuffa. Sto leggendo diversi interventi di vario orientamento. E ci sono, secondo me, un paio di punti da chiarire: lavoro culturale non equivale a scrivere libri. Incredibile che occorra puntualizzarlo, ma puntualizziamo allegramente: lavoro culturale è scrivere articoli, scrivere testi per la televisione o per la radio, organizzare eventi, manifestazioni e festival, insegnare, fare ricerca e una marea di altre cose che, volendo, hanno a che fare con la narrazione. Lo scrive nella sua newsletter Giulia Blasi, che aggiunge: 

“La gente della cultura piace a malapena alla gente della cultura, per tutti gli altri siamo dei fighetti che non hanno mai lavorato in vita loro, e che – a seconda di chi parla – sono dei figli di papà o dei poveri illusi, più la prima che la seconda. Nessuno pensa di avere bisogno di noi”.
C’è un secondo equivoco, più interessante. Ovvero, si pensa che Bazzi, che ha sollevato la questione, voglia vivere dei suoi libri. Sospetto che sia questo che ha inteso Emiliano Ereddia, che è peraltro un bravissimo scrittore, nel suo articolo su substack, dove racconta di come, per potersi permettere di fare letteratura, lavori per la televisione.
Temo ci sia un equivoco, visto che siamo tutti consapevoli del fatto che per scrivere bisogna sottrarre ore al sonno e alla vita sociale, perché tocca lavorare. Ma dai? E’ quello che fa il 98% delle persone che scrivono, e forse anche il 99%: la questione del lavoro culturale non sta nelle singole lamentazioni, che finiscono sempre per attribuire ogni male alla presunta casta-cricca-cerchio, che a sua volta strappa con i denti il tempo per scrivere visto che non si vive di scrittura, tranne pochissimi (che se lo sono meritato, vorrei dire) e tranne i ricchi (che però non sono così tanti, in ambito letterario). Se faccio un elenco mentale e parziale di scrittori e scrittrici che conosco, so che lavorano quasi tutto il giorno per poter scrivere: sono insegnanti di lettere o insegnanti di sostegno, librai, grafici, programmatori, autori televisivi o radiofonici. Sono anche meccanici, pizzaioli, bancari, medici, postini, impiegati. Qualcuno prova a barcamenarsi con le sole collaborazioni (e chi, nella generazione trenta-quaranta, non lo fa?), e ammucchia traduzioni, articoli pagati male, consulenze, editing. Quel che intendo, è che nessuno è così poco realista da pensare che di letteratura si viva. E nessuno dovrebbe mai puntare il dito sul lavoro principale, diciamo così, che ti permette di scrivere, di notte o all’alba o durante le feste comandate. La questione è semmai un’altra: è come veder pagato decentemente il lavoro che deriva dalla scrittura, o che ruota intorno alla scrittura, come le presentazioni dei libri altrui (è un lavoro), la partecipazione a convegni (è un lavoro), le consulenze che ti vengono richieste (è un lavoro). Questo e solo questo è il punto.

Oggi su La Stampa in edicola torno a parlare dei librai Feltrinelli. E parlo anche di un’altra cosa, che racconta nell’articolo Corrado Meluso della valorosa Timeo. Riporto il suo virgolettato perché è importantissimo. 

“Feltrinelli ha preteso dagli editori più piccoli uno sconto di oltre il 50% (a cui vanno aggiunte le percentuali di promozione e distribuzione) solo per aprire le cedole novità e valutarle, e senza garantire maggiore esposizione né un incremento  del prenotato – e considera che la nostra media di prenotato al lancio nel circuito Feltrinelli è stata, nei due anni scorsi, di 17 copie a titolo per oltre 150 librerie. 
Editori un po’ più grandi di noi sono stati inclusi in un programma chiamato Panoplia, che prevede uno sconto base del 48%, che aumenta di 2/3 o 4 punti nel caso dovesse generare un incremento sul sell out del 10/20 o 30% rispetto all’anno precedente, e consente agli editori di raccontare la cedola anche ad alcuni librai Feltrinelli oltre che alla propria rete vendita: disintermediando si aumenta lo sconto, in buona sostanza, anziché diminuirlo”.

Cosa succede se ti rifiuti? Non sei in Feltrinelli, se non a richiesta del lettore (con quello che i librai Feltrinelli chiamano “Ordine Special”). E perché succede? Per un motivo ovvio, da una parte: dare più spazio ai libri pubblicati dal gruppo, e ci potrebbe pure stare.
Ma ci sono altre questioni.

Ieri pomeriggio ho partecipato a una discussione molto interessante organizzata da Pandora Rivista presso la sede di Treccani, coordinata da Giacomo Bottos, compagni di chiacchierata Paolo Di Paolo e Giorgio Zanchini. Interlocutore prezioso, Giuseppe Laterza in platea.
Occasione rara, quella di potersi confrontare allargando il campo in un momento complesso e, sì, frammentato da ogni punto di vista, dove è difficile progettare a lungo termine e dove è difficile anche trovare i luoghi dove prendersi il tempo per discutere. Il web e i social, certo. Ma servono anche i luoghi fisici. E, come scrivevo qualche giorno fa, i grandi festival si stanno orientando più verso l’enfasi del numero che verso l’occasione dell’incontro. Come, forse, era fatale.

Codice della strada. “Per quanto riguarda gli stupefacenti non ci sarà bisogno di mostrarsi in uno stato di alterazione psico-fisica, ma è sufficiente il sospetto che siano stati assunti per far scattare il test immediato: la positività comporterà la revoca della patente e la sospensione fino a tre anni”. Sarà interessante capire cosa suscita il sospetto.
Decreto Caivano. Carcere più facile per i minorenni, possibilità di vietare l’uso del cellulare con «avviso orale», in caso di alcuni reati, carcere fino a due anni per i genitori se i figli non rispettano l’obbligo scolastico, con revoca dell’assegno di inclusione.
Scuola: riportare la “cultura del lavoro” (Valditara dixit). E soprattutto voto in condotta, o meglio “dobbiamo riportare nella società valori, buon senso e serietà per evitare che il nostro Paese vada allo sfascio”.
Undici mesi fa la Presidente del Consiglio rispondeva alle non poche polemiche relative al decreto anti-rave e anti-tutto con queste parole: “è una norma che rivendico e di cui vado fiera perché l’Italia – dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità – non sarà più maglia nera in tema di sicurezza”.
E’ un ouroboros: parte della società è divenuta più giustizialista, la politica (e non solo le destre) cerca il consenso. Possiamo mettere anche le mani nei capelli, volendo: sarà più importante sporcarsele, e darsi da fare.

Undici anni dopo “No Logo”, Naomi Klein accetta di scrivere un articolo per The Guardian: è il 20 luglio 2011 e molte cose sono cambiate dagli anni della “bibbia del movimento no-global”. Intanto, lo slogan di L’Oreal è passato da “perché io valgo” a “perché voi valete”. In poche parole, non è il più il marchio a cercarti e a convincerti ad entrare nel suo mondo, ma ti chiede, molto democraticamente, di costruirlo.
E’ da stupidi possedere cose, diceva Tom Peters, ma le cose possiedono noi, nel profondo, proprio perchè ci appaiono “immateriali” pur potendo essere toccate e usate. Nei lunghi discorsi di questi giorni sul lavoro culturale, si torna sempre qui: cosa abbiamo capito dell’immateriale, nonostante siano passati lustri?

“Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso”.
Così Sartre, nel 1945. Certo, parole di un altro secolo. Eppure in questi tempi di solitudini e di ripiegamenti, dovrebbero chiamarci ancora a riflettere su letteratura e lavoro culturale (ancora).

A proposito di lavoro culturale. C’è un aspetto che si associa immediatamente a queste due parole ed è quello della sopravvivenza dei lavoratori della cultura. Dal momento che si avvicina il primo Festival italiano di letteratura working class (che si deve ad Alberto Prunetti e ad Alegre), e sollecitata da un articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto, vado a leggere un articolo sul Guardian di Ben Quinn, che a sua volta riporta i dati del  rapporto intitolato Structurally F*cked . Vi si legge fra l’altro che la proporzione di lavoratori culturali che provengono da un contesto operaio si è ridotta della metà.
Mi torna in mente la lectio sul giornalismo culturale che Nicola Lagioia tenne quasi un anno dopo la morte di Alessandro Leogrande: “Se era così bravo, così competente, così coraggioso, così in gamba come tutti quanti non smettono di dire, perché i grandi giornali non hanno fatto a cazzotti per accaparrarselo, salvo parlarne in termini di superlativo assoluto e lodarlo solo dopo che era morto?”
Ai mille lavori di Leogrande penso spesso, e penso anche a chi ha oggi la sua età e fa appunto quei mille lavori per tirar fuori uno stipendio, e penso ai dati del Guardian e al fatto che alle parole “ascensore sociale” parecchi farebbero spallucce, qualcuno ti guarderebbe storto e altri non saprebbero neanche cosa è.

Ho visto l’ultima puntata di The Last of Us, che prima di essere una serie televisiva è stato ed è uno dei videogiochi più belli, narrativamente parlando (mi verrebbe da usare il termine “letterariamente”, in effetti), che siano stati pensati.
Ne scrivo anche per tornare sul lavoro culturale. Perché se ormai può ritenersi assodato e raccontato il legame fra letteratura e cinema, letteratura e serie televisive, letteratura e fumetto, mi pare che si faccia ancora fatica a riconoscere non una dignità (non serve dignità, serve curiosità) ma una potenza narrativa ai videogiochi. Il lavoro culturale è questo. Capire. Aprire. Immaginare.

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