TEMPI E TEMPESTE

Si pubblica troppo, e non c’è buona roba in giro, lamentava Italo Calvino. Erano gli anni Sessanta, e non oso pensare cosa penserebbe o scriverebbe oggi l’autore del Sentiero di nidi di ragno (che, peraltro, venne scartato a un concorso letterario). L’aneddoto, e molto altro, è nel libro di Gian Carlo Ferretti, Siamo spiacenti (Bruno Mondadori), dove si ricostruisce la controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti. I quali, come ognun leggerà, sono molto più variegati e hanno motivazioni molto diverse dal concetto “editore mercenario versus autore di talento ma incompreso”. O le hanno  avute. Ferretti sostiene anche che il rifiuto, in genere, produce un effetto salutare su libro e scrittore: eccezion fatta per almeno due casi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Guido Morselli, morti – il secondo suicida – prima che le loro opere trovassero accoglienza.
Alla fine del saggio di Ferretti, però, si trovano alcune riflessioni sul presente, laddove si assiste al rovesciamento della situazione. Non solo si pubblica tantissimo, ma gli esordienti vengono cercati e sollecitati: costano meno, tanto per cominciare, e hanno appeal presso i lettori.
Forse.
Perché oltre alle giuste considerazioni di Ferretti (e il saggio è piacevolissimo, peraltro), c’è un presente in continua trasformazione che è difficilmente definibile ed è, molto spesso, inquietante.  Per esempio: sui quotidiani non è apparsa questa notizia, che si deve ad Antonio Prudenzano, sul possibile divorzio tra Giunti (già in “cassa integrazione morbida”) e Messaggerie. Qui trovate le informazioni. D’accordo, un fatto (possibile) fra i molti, e i dati sulle vendite son quelli che sono e la settimana prossima vedremo quel che accadrà a Francoforte. Però l’idea che, nella gran parte, l’idea dominante sia diventata quella amazoniana (guadagnare poco da moltissimi, che ai moltissimi piaccia o no) mette un po’ di malinconia. La stessa che si prova – e probabilmente sarà questione di essere obsoleti – quando anche i lettori più giovani hanno il loro sito di selfpublishing (non scrittura, selfpublishing). Sia come sia, ma l’idea che il nuovo che avanza sia, di per sè, la cosa giusta, a me non convince. L’età.

24 pensieri su “TEMPI E TEMPESTE

  1. Soprattutto perché il selfpublishing mi pare sempre più pilotato da logiche comunque esclusivamente commerciali – se anche cambia il “chi ci guadagna”, non mi pare aumentare la qualità delle cose edite. Né il numero di persone che legge. Semplicemente, quelli che erano accaniti lettori adesso sono anche accaniti scrittori, e “si” acquistano vicendevolmente – in maniera più economica, eh, c’è la crisi. Con buona pace dei supermarket librari che, esattamente come quelli alimentari, passano sempre più a logiche da “discount”: prezzi bassi per prodotti ignoti che “hanno il sapore” degli altri, prezzi altissimi per cose normali che adesso sono diventate “di qualità”, senza esserlo state prima né adesso.
    Complimenti.

  2. Sono le stesse politiche manageriali che si scorgono in ogni settore, dalle patatine alle bibite gassate, e probabilmente il problema è quello, cioè la perdita dell’identità settoriale. dai pannolini ai libri la soluzione è stata tagliare i costi e aumentare la redditività abbassando la qualità. Un dato che risulta sconosciuto è quello delle insolvenze e dei crediti ormai inesigibili, a me risulta essere altissimo. In questo contesto è facile intuire che le catene, il franchising che fino ad oggi hanno rappresentato il futuro, diventano un cul de sac dal quale ne usciranno con le ossa rotte, sono convinto che dalla mia postazione sul fiume comincerò a veder passare i nemici, non solo gli amici

  3. A volte il nuovo che avanza è solo il ritorno del rimosso.
    La riduzione post-romantica dell’arte a “espressione” incoraggia ogni brufolo ad avere la sua brava dignità biografica da un lato, dall’altro genera lettori sprovveduti, incapaci di distinguere tra una lettura che è fonte di conoscenza e una che è solo strumento di identificazione psicologica e generazionale. Qui da noi direi che soprattutto il tondellismo (più che Tondelli in persona) ha rotto le dighe.
    Jack Frusciante è conseguenza ancora semi-letteraria.
    Il self-publishing è il cadavere della letteratura che si squaglia.

  4. Non e’ di Ferretti la considerazione, faccina. E’ mia. Peraltro, mi sembra evidente che non esiste un numero ideale di libri pubblicati. Se, pero’, il ciclo vitale di quelli attuali ormai si aggira sui venti giorni, forse forse esiste un eccesso di offerta.

  5. ma venti giorni sono sempre meglio di zero. e poi: siamo sicuri che la situazione si sia rovesciata? numeri alla mano, oggi in media il rapporto manoscritti-titoli rifiutati è minore che in passato? curioso che auspichi l’astinenza per l’editoria e avversi pure la contraccezione del selfpublishing e dell’editoria a pagamento

  6. Quella di guadagnare poco da moltissimi sarebbe una bella idea, ma non ha niente a che vedere con la realtà. Il guadagno, il margine, viene tutto da pochissimi autori che compensano tutti gli altri libri che invece NON guadagnano abbastanza, e spesso perdono. È molto difficile, e non ci riesce quasi nessuno, mettere in piedi una programmazione editoriale interamente sana da un punto di vista economico, senza bestseller. Poi si pubblica comunque molto sia per un fatto strategico, la speranza che dal mucchio esca il libro ” che parte”, sia perché essendo un mercato con diritto di resa, intanto si fattura, poi si vedrà.

  7. Intanto si fattura, poi si vedrà. E’ esattamente così, Giovani. Il problema è che siamo arrivati a un punto, e i dati Nielsen recenti lo confermano, in cui occorre dire “adesso” e non “poi”. (Sorry per faccina, ma davvero non ha senso continuare a interloquire sul nulla).

  8. Nella sintesi del rapporto AIE si legge che per tre anni consecutivi il numero dei titoli pubblicati è calato, si parla di dato strutturale. Nel rapporto istat, più recente il numero è tornato a salire. Segno che la stessa AIE parla di dato strutturale a vanvera.
    Se continuare a parlare di molto, troppo e così via è d’aiuto per capire, d’accordo, viva l’approssimazione.
    A @Giovani vorrei chiedere cosa si intende per “programmazione editoriale interamente sana”, e perché dovrebbe essere senza bestseller. Se un libro vende più del dovuto lo si toglie dagli scaffali?
    Siccome ( e ammesso che sia così ) la maggior parte dei libri sono in perdita non andrebbero pubblicati? Siamo a questo? O si pensa che la troppa concorrenza toglie visibilità? Ma, è possibile immaginare che a fronte di una fetta così grande di scrittori ci si oppone ( e soprattutto perché opporsi ) non pubblicando? E ancora, è vero che oggi è più facile venir pubblicati da una casa editrice “seria”? Il rapporto fra manoscritti bocciati e quelli accolti è davvero minore rispetto al passato?
    La considerazione che gli esordienti hanno appeal verso i lettori è vera? È verificabile?
    Cosa si intende per ciclo vitale? Venti giorni sono una media immagino. Perché è così importante?

  9. Allora faccina, è insultante sentirsi chiedere le stesse cose da anni 🙂 Rispondo solo all’ultima, che dà la misura del tutto: venti giorni di media (ovviamente di media) in una libreria (venti) sono bastevoli? Allora, perdonami, ha senso pubblicare in modo tradizionale? Saluti, baci, abbracci e, per cortesia, cerchiamo di essere seri.

  10. io non capisco perché devo essere trattato in questo modo. se non ti va di rispondere non rispondere, io sono serissimo. se faccio domande è anche per capire. se non hai tempo o voglia, pazienza. poi non mi pare di porre le stesse domande da anni. non capisco davvero perché prendi le mie domande come provocazioni o come un giochino ozioso. io ho ascoltato l’intervista a Ferretti, e ne ho letta una sua di 5 anni fa. a me pare che dica delle cose sbagliate, e lo faccio notare. non mi pare così insultante. non importerà a nessuno delle mie obiezioni, ma sono obiezioni civili e serie.

  11. “Sarei diventato uno scrittore. Mi cucii delle toppe di cuoio sui gomiti delle giacche, rinunciai ai sigari per la pipa e cominciai a farcire i miei discorsi di parole come cacofonico e parentale. Non ci volle molto perché gli editori facessero la fila per la mia prima opera. Dissi al primo arrivato che stavo scrivendo di un argomento caro al cuore di chiunque. Il mio primo libro, lo informai, si sarebbe intitolato “Letti”. E poi sollevai le sopracciglia in maniera significativa.
    Non riesco ancora a capire come mi sono fatto convincere dagli editori a intraprendere questo lavoro. Basta andare in una libreria e vedere la montagna di libri che giace invenduta. La maggior parte di questi libri è opera di persone che fanno gli scrittori di professione, che scrivono bene e hanno qualcosa da dire. Ciò nonostante, fra un anno la maggior parte di questi libri sarà venduta a metà prezzo. Se per miracolo uno diventa un best seller, il fisco si prenderà la maggior parte dei guadagni.”
    (Groucho Marx, america 1930 circa).
    Che tempi, una volta si che stavano meglio.

  12. Io penso che i bei tempi non siano mai esistiti. Non si stava meglio quando si stava peggio. Non penso nemmeno che il presente sia il migliore dei mondi possibili e che il futuro vedrà sorgere un radioso sol dell’avvenire. Detto questo provo a esprimere un parere fuori di polemica. Dico davvero “fuori di polemica” perché non me ne frega niente di polemizzare con chicchessia su questo argomento.
    Se gli autori con qualche intenzione seria vogliono provare a sopravvivere nel mare magnum di libri pubblicati e con il turn over rapidissimo di oggi, devono per forza lavorare in controtendenza. Controtendenza rispetto alla fretta, all’usa-e-getta, all’avanti-il-prossimo, al fast-seller, al socialnetworking. Per lavoro in controtendenza intendo impegnarsi a fidelizzare i lettori attraverso dialogo, incontro, intervento, scambio, collaborazioni, critiche, costruzione di reti di relazioni, etc. Insomma tutte quelle cose che hanno bisogno di tempo e di cura per essere fatte intorno alla narrativa e che vanno a formare un percorso, a consolidare una qualche progettualità. Lavoro di profondità, anziché di superficie.
    Ovvio che si può essere autori in altro modo, cioè assecondando le tendenze in atto (tendenze, dico, al di là dei numeri assoluti, ma tra poco arriveranno anche quelli), e sperando che duri finché dura, fossero cinque anni o cinque minuti. In definitiva credo che dipenda molto da quello che uno chiede alla narrativa e da cosa immagina che sia, se immagina che sia qualcosa.

  13. Concordo. E neanche Ferretti li rimpiange, peraltro, e tanto meno io. Però mi spaventa l’equazione, sempre più insistente, sul nuovo come positivo in sè. Diverso, sicuramente: ma nessuno di noi sa davvero come sarà questo “nuovo”.
    Quello che è certo è che esistono figure professionali che stanno scomparendo, e lavoratori dell’editoria (come di altri settori) e della cultura (come di altri settori) che stanno rischiando grosso. Per me – e sottolineo per me – è grave: invece, noto che in rete si tende a fare un incomprensibile tifo da stadio sulla fine degli editor ritenuti malmostosi e mercantili.
    Certo, come dice giustamente Wu Ming 4, ognuno fa le proprie scelte e nessuno sta giudicando chi le fa. Si tratta di presa d’atto, non di giudizio.

  14. Ecco, un’altra differenza potrebbe essere infatti questa: auspicarsi la scomparsa degli editor o sperare di incontrarne uno bravo (sapendo che può fare la differenza). L’editoria cambia e le figure professionali cambieranno di conseguenza, ma il problema mi pare piuttosto la scomparsa della professionalità. Se un editor diventa un agente di marketing, sta facendo un altro mestiere, e io che magari vorrei due dritte per aggiustare il mio testo, io che vorrei un lettore capace di consigli tecnico-stilistici che lo potenziano non solo in base al target commerciale che l’editore ha pensato per me, ma per renderlo un testo migliore, be’, rimango sprovvisto di questo supporto professionale. Ma del resto, se il tempo di vita medio di un testo è venti giorni, questo corrisponde a un tempo di lavorazione editoriale possibilmente ancora più corto. E qui torniamo alla questione della fretta, dei tempi, della cura nel fare le cose, etc. Che è appunto la questione di fondo.

  15. Poi. Può anche darsi che sia in mutazione la stessa lettura, e che richieda tempi stretti e scritture contratte. Non è, ancora una volta, un giudizio. Sono pronta a dichiararmi obsoleta: ma continuo a pensare che la narrazione non esiga fretta né debba necessariamente adeguarsi a una tendenza. Anche perché, dati Nielsen di una settimana fa alla mano, non sembra pagare, la nuova via.

  16. Che i tempi e i modi della lettura siano profondamente mutati negli ultimi tempi, grazie all’avvento della rete, non significa che bisogni ricorrere alla fretta. Di scrivere, di editare, di pubblicare, di fare posto al nuovo. Anzi. Proprio perché il nostro atteggiamento verso il libro si è connotato secondo coordinate difficili da comprendere (almeno nel presente immediato, forse tra un decennio sarà tutto diverso), c’è urgenza di pensare al prodotto finale con molta più attenzione. Mi va bene che riguardi anche il “marketing”, ma soprattutto deve inferire con l'”editing”.
    Oltretutto rispetto al passato, la reperibilità dei libri è aumentata. Non è necessario stare attaccati alla new entry.

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