TOLKIEN, LA FILOSOFIA, IL FANTASTICO

Sul quotidiano di oggi, una mia intervista a Wu Ming 4. Su Giap!, un articolo di Roberto Arduini. Che la festa cominci.

Riprendersi Tolkien. Liberarlo dalla presunta appartenenza alla destra. Liberarlo dal disprezzo di quella critica che accusa la sua opera di non essere vera letteratura ma semplice evasione. Bene, l’evasione del prigioniero non può essere equiparata alla fuga del disertore, ebbe a dire un giorno J.R.R.Tolkien in persona: forse sospettando che la questione del fantastico aperta da Il signore degli anelli sarebbe vissuta a lungo nell’ombra della letteratura “minore”.
In Italia, l’ombra è più densa, e si deve proprio ad una interpretazione di Tolkien che è stata, fin qui, sviante: a maggior ragione, si pone come eccezionale – nel senso letterale del termine – il convegno che avrà luogo il 22 maggio a Modena. Tolkien e la filosofia, organizzato dall’Istituto filosofico Studi Tomistici e dall’Associazione Romana Studi Tolkieniani, vede infatti la partecipazione di alcuni fra i massimi esperti mondiali del professore. Da Lublino viene Christopher Garbowski, fra i più interessanti commentatori cattolici dell’opera di Tolkien. Dall’Inghilterra, Tom Shippey, autore de La Via per la Terra di Mezzo (pubblicato in Italia da Marietti, che negli ultimi anni ha tradotto i saggi degli studiosi di ogni paese), considerato fra le pietre miliari per la comprensione del linguaggio tolkieniano. Dal Maryland giunge Verlyn Flieger, cui si deve la tematizzazione della poetica di Tolkien come dialettica fra luce e ombra. E fra gli italiani, insieme al filosofo Franco Manni, direttore della rivista Endòre, e al giornalista e studioso Andrea Monda, ci sarà lo scrittore Wu Ming 4, attento osservatore del mito e del fantastico (il suo saggio L’eroe imperfetto uscirà agli inizi di giugno presso Bompiani) e autore del romanzo Stella del Mattino, dove è proprio il farsi della mitologia tolkieniana uno dei filoni principali.
Scopo del convegno, racconta Wu Ming 4, è proprio quello di provare ad intervenire dall’Italia nel dibattito internazionale su Tolkien: cercando così di superare un gap. “Su Tolkien – racconta – pesa un’ipoteca ormai quarantennale dovuta sostanzialmente a due fattori concomitanti. Il primo è l’approdo nel nostro paese di Tolkien: che è stato traghettato da intellettuali vicini alla destra e anche all’estrema destra neofascista e misticheggiante. Questo fece sì che per molti anni venisse considerato l’autore tradizionalista che non è mai stato. Il secondo fattore riguarda la sottovalutazione o la misinterpretazione da parte della critica letteraria di sinistra, che – con le rare eccezioni di Portelli e Lodigiani – ha applicato a Tolkien il pregiudizio nutrito su tutta la letteratura fantastica”.

Un pregiudizio pesante, che – sottolinea Wu Ming 4 – prende alla lettera alcune teorie di Todorov giustificando il fantastico solo come allegoria del reale. “E dunque va bene Orwell, vanno benissimo 1984 e Fattoria degli animali: ma non chi scrive fantastico in quanto tale. Tolkien sosteneva di non scrivere allegorie: distingueva, anzi, fra allegoria e applicabilità, laddove la prima è un atto di imperio da parte dell’autore, che racconta una cosa per parlarti di altro come fa, appunto, Orwell. L’applicabilità è invece la libertà del lettore: è lui che può riscontrare nell’opera una vicinanza con le cose che gli accadono attorno. L’applicabilità significa lasciare sempre aperta la narrazione”.
Una caratteristica che ha reso Tolkien uno degli autori più amati dai lettori: il suo fandom, che indica la partecipazione attiva e spesso anche narrativa dei fan, è immenso. E l’atteggiamento iniziale dell’autore lo ha favorito: “negli anni Cinquanta Tolkien si poneva il problema che non gli sarebbe bastata un’intera vita per portare a compimento tutta l’epica della Terra di Mezzo. Per questo si augurò l’intervento di “altre menti e altri mani” che completassero l’opera parlando di quegli aspetti di cui non poteva occuparsi, dalla botanica alla musica. In pratica, ha teorizzato con enorme anticipo quello che oggi chiamiamo transmedia storytelling, e lo ha messo in atto: non chiuse i confini della sua opera, lasciò porte, punti di fuga, falle nel recinto o interi portali spalancati perché altri potessero entrare e partecipare al racconto del mondo da lui inventato”.

Ma se dal punto di vista di chi legge la mancanza dell’allegoria ha favorito la partecipazione, sul versante critico continua a pesare il pregiudizio del disimpegno. Non solo: a Tolkien, e al fantasy, si imputa il passatismo, il “guardare indietro” verso mondi svaniti. Un equivoco ulteriore, dice Wu Ming 4: “si dà per scontato che il guardare indietro sia dettato dalla nostalgia, così come si dà per scontato che inventare un mondo futuribile comporti necessariamente uno sguardo in avanti. Non trovo alcuna traccia di nostalgia nella poetica di Tolkien: ci trovo, invece, un’altra questione cruciale: l’importanza di scremare la contemporaneità dal reale. Togliere il presente dal quadro serve a selezionare temi e archetipi. Tolkien era uno studioso di letteratura medievale, e in quella ha trovato i suoi archetipi. Poi, basterebbe ricordare che i veri eroi della Terra di Mezzo sono i personaggi più borghesi di tutti, gli hobbit: i quali non vivono in una società feudale e adottano i costumi degli uomini moderni in cui il lettore contemporaneo può identificarsi”.

Eppure la questione del passatismo resta problematica anche per i nuovi scrittori fantasy italiani: se quelli più maturi si rivolgono all’urban fantasy, molti altri, specie i giovanissimi, tendono a camminare sulla stessa strada di Tolkien e a costruire mondi molto simili a quelli de Il signore degli anelli. Fin troppo. “Il fantasy ha un problema edipico – dice Wu Ming 4 – Gli autori contemporanei imitano Tolkien in modo pedissequo o cercano di negarlo radicalmente. E’ una questione che i narratori dovranno affrontare e risolvere. Meno interessante è continuare a dibattere su generi e sottogeneri: la letteratura andrebbe letta e valutata per quel che è, senza preoccuparsi della casella in cui collocarla. Si rischia di fare, altrimenti, la stessa operazione che Tolkien contestava ai critici di Beowulf, tesi a vivisezionare il testo dimenticandone la poesia. Invece di tastare il polso al genere, occorrerebbe discutere di più di qualità delle opere. Questo, penso, avrebbe fatto Tolkien”.

64 pensieri su “TOLKIEN, LA FILOSOFIA, IL FANTASTICO

  1. Volendo applicare l’applicabilità all’ “Ipse dixit”, si potrebe dire che la Lipperini intende “Ipse” non già per Aristotile, ma per Wu Ming*-°

  2. Non posso che dire di essere completamente d’accordo con quanto espresso in questa intervista.
    Un po’ amaramente (ricordando sterili liti passate) mi piacerebbe far leggere questo testo ai tanti amici appassionati di fantascienza e sprezzanti del fantasy, e accaniti fautori di generi, sottogeneri e sotto sotto generi aggiunti in prova, con cui ho discusso inutilmente in questi anni.
    Rimango della mia idea che le categorizzazioni troppo specifiche e pignole irrigidiscano e non facciano bene allo sviluppo e alla creativita’.
    E che “vivisezionare il testo dimenticandone la poesia” o, parlando magari di letteratura un po’ meno nobile, interessandosi solo al meccanismo narrativo ed evitando con cura di farsi coinvolgere nella narrazione in quanto tale, sia operazione che fa bene solo all’ego di chi la compie. Soprattutto quando non e’ neppure un critico professionale.
    Per quanto riguarda gli scrittori di fantasy nostrani, volevo soltanto dire che forse oltre all’urban fantasy (ottimo e innovativo esperimento, nel quale pero’ non bisognerebbe rischiare di cadere in mode tipo vampiriharmonyhorror) e all’abusato filone tolkeniano, esistono molte altre strade percorribili.
    E che comunque, chi persegue un fantasy non del tutto svincolato dagli stilemi classici rischia in ogni caso di ritrovarsi appiccicata anche ingiustamente una etichetta tolkeniana intesa proprio in senso svilente, pregiudiziale e difficile da staccarsi via.

  3. Tutto condivisibile, però onestamente se l’obiettivo è quello di far “digerire” il fantastico ai critici letterari partire da Tolkien non mi sembra una buona idea. Da quando è stato pubblicato il Signore degli Anelli la letteratura fantastica – soprattutto anglosassone, ma non solo – ha prodotto opere meno “esplicitamente” conservatrici, ma altrettanto complesse e raffiinate che sono sempre state bellamente ignorate dal mondo culturale italiano.

  4. Ottima intenzione e ottima impostazione. Sempre per citare esempi caro a WM4, Robert Graves per il suo straordinario lavoro su La Dea Bianca e in misura minore anche Joseph Campbell per la sua visione complessiva del Mito si trovano di fronte a questo stesso dramma – l’accademia che svilisce le loro intuizioni sezionando le idee sulla base degli assiomi di discipline stabilite. Capita spesso, e pure in campo scientifico, ma non smetterà mai di avvilirmi.

  5. Ah, i titolisti di Repubblica… Ricordo che undici anni fa, quando io e i miei soci ci firmavamo ancora Luther Blissett, su Repubblica uscì un’intervista a noi in cui spiegavamo che Luther Blissett era uno pseudonimo collettivo usato da centianaia di persone e che noi rappresentavamo solo lo 0,04% del progetto. Il titolo era: “Luther Blissett siamo noi”. Ecco il lupo perde il pelo ma non il vizio. Nel pezzo di oggi dico che Tolkien non può essere letto in una chiave ideologica. E’ evidente a chiunque che questo vale anche per una implausibile lettura “di sinistra”. Il titolo “Compagno Hobbit” invece allude precisamente al contrario. Non è responsabilità mia, ovviamente, né di Loredana Lipperini. Ci tenevo a dirlo.

  6. Perchè i titolisti declinano tutto secondo un’impostazione politico-ideologica del quotidiano Repubblica. Per le pagine culturali e letterarie si dovrebbe praticare una maggiore mediazione tra chi piazza il titolo e chi scrive l’articolo. In questo caso il contenuto del pezzo è in contraddizione con il titolone.

  7. Per me è interessantissima la distinzione che viene fatta tra “allegoria” e “applicabilità”.
    Mi piacciono molto le opere “allegoriche” citate (Orwell), però in genere non ho simpatia per l’allegoria in sé: dire una cosa per un’altra è un’arte difficilissima, e da questa trasposizione deve scaturire un valore aggiunto molto grande, se no è solo esercizio retorico. Magritte o Bronzino ad esempio usano allegoria a go-go ma il risultato non è una “spiegazione” del mondo, bensì ulteriore enigma e meraviglia (perlomeno a me contemplatrice e non studiosa la loro opera produce questo effetto). Senza analoga maestria, o in mancanza di materiali potentissimi, l’allegoria secondo me rischia di rendere un’opera pedissequa, sterile.
    E poi, giustamente si fa notare che l’allegoria fornisce al lettore il pacchetto già pronto, mentre l’applicabilità gli chiede qualcosa: se è vero che il “marchio” della letteratura rispetto, per dire, all’evasione, è che la prima deve interrogarci sul mondo/su noi stessi, l’applicabilità sarebbe insomma uno strumento molto adatto alla letteratura.

  8. È da un bel po’ che va avanti questa “operazione di recupero” dell’opera tolkeniana; temo però che libri, articoli e convegni servano a poco dal momento che la radice del problema non credo risieda nella genesi dell’opera stessa o nel suo iter di introduzione in Italia, ma nella iattura, contro la quale nulla vale, costituita dalla mai doma settarietà della cosiddetta cultura di sinistra italiana. Cultura che rispecchia la frammentazione politica della stessa e del suo conseguente atteggaimento narcisistico: come se cedere alla riflessione su fenomeni non facilmente domabili ideologicamente, sia una sconfitta o un cedimento anziché un’onesta ammissione della propria ignoranza…
    Che da lì, poi, si passi ad etichettare tutto e tutti, il passo è breve.
    Quando ammetteremo che più che figli di Darwin siamo figli di… Lombroso? (nel migliore dei casi…, quando non figli di scorpioni, sembre pronti ad infilzare e riempire di veleno chiunque non ci somigli).

  9. La distinzione tra allegoria e applicabilità è alla fonte, ovvero nell’atto consapevole dell’autore. Ciò che è applicabilità nell’autore, si trasforma in allegoria nell’esperienza di ciascuna lettura. Quindi, oltre a esserci una problema edipico nel fantasy, direi che c’è anche un chiaro fenomeno di transfert che attribuisce all’autore intenzioni che sono invece solo filtri applicati dal lettore. In psicanalisi la chiamerebbero paranoia da critica letteraria.

  10. @giacinto: se posso provare a fare un’ipotesi, io credo che la “settarietà” culturale italica sia dovuta all’anomalia politica di questo paese. Un paese che non ha una storia e una narrazione condivisa. L’ossessione di arruolare tutto e tutti da una parte o dall’altra, insomma è il risultato di una divisione interna al paese che risale almeno al biennio rosso di fine anni Dieci del secolo scorso, se non addirittura all’Ottocento. Risorgimento e Resistenza, i due pilastri su cui si è costruita la narrazione nazionale italiana, non sono momenti su cui ci sia un piano di condivisione neanche minimo. Basti pensare che dal 1994 ci sono due forze politiche di governo che culturalmente negano il valore positivo di uno o l’altro di quei due momenti storici. Non è così in Francia, dove nonostante i mille revisionismi, nessuno metterebbe in discussione la Rivoluzione del 1789; né in Gran Bretagna con la Gloriuos Revolution del 1688; né in Germania, dove nessuno si permetterebbe di avere un atteggiamento che non fosse di condanna per il nazismo. La Spagna è sicuramente più simile a noi in quanto a spaccatura storico-culturale, ma non so se abbia sviluppato lo stesso tipo di paranoia “divisionista”.
    E’ evidente che cercare di spiegare ad esempio a un anglosassone il tipo di operazione culturale che è toccato in sorte a Tolkien in Italia è come parlare del deserto a un abitante dell’Amazzonia. Ma di fatto, forse, il modo più efficace di illustrare certi fenomeni nostrani è proprio riferirli alla nostra storia. Storia che gunge fino a noi, ovviamente, e che ha spinto Repubblica, da qualche anno a questa parte, a mettersi l’elmetto e a scendere in trincea. Ma del resto, sarebbe ipocrita fingere che l’anomalia italiana in Europa non fosse tale (non da ultimo in campo mediatico-informativo)…

  11. La ricostruzione del mio socio è stringata ma mi pare inappuntabile anche nell’individuazione del momento di “spaccatura” (il Biennio Rosso, al quale il padronato reagiì ingaggiando lo squadrismo, che poi andò al potere).
    Questo, sia chiaro, non implica alcuna ricerca né tantomeno apologia della “memoria condivisa”. E’ una cosa che come WM abbiamo spiegato stesso. Non si può chiedere alla vittima di ricordare allo stesso modo del carnefice, e nemmeno viceversa. La memoria è divisa perché c’è il conflitto e “tutti noi, inevitabilmente, scriviamo del passato da dentro la storia dei nostri giorni e in un certo senso combattiamo le battaglie di oggi indossando costumi d’epoca” (E. J. Hobsbawm). Da qui il revisionismo storico-mediatico utilizzato come clava contro l’avversario politico, sociale, culturale. C’è un conflitto tra due Italie, per semplificare. E nelle fasi in cui cresce la tensione, la memoria si “s-condivide” ancora di più.
    Hobsbawm aggiungeva: “Coloro che scrivono soltanto da dentro la storia del loro tempo non possono comprendere il passato, né ciò che dal passato è venuto”. E così, mossi da esigenze contingenti e strumentali, si sputa sulla Resistenza che contribuì a conquistare la libertà d’espressione… che consente di sputare sulla Resistenza. Non contenti, si maledice in blocco il Risorgimento etc. Si procede sempre isolando episodi specifici (chessò: le foibe, via Rasella, l’uccisione di Gentile) e giudicandoli fuori dal loro contesto, in nome di tornaconti propagandistici immediati.
    La risposta non può essere invocare un’impossibile “condivisione della memoria”. Se non si va d’accordo (perché non è possibile andare d’accordo) sulla vita, come potremmo andare d’accordo sulla memoria?
    La risposta può consistere solo nell’attrezzarsi meglio per il conflitto, nel contrastare senza tirarsi indietro le cattive narrazioni di cui sopra. Sta nella battaglia culturale, non nel “volemose bbene”.
    Quella di una parentela tra Tolkien ed Evola, e quindi – tradurre significa smascherare! – di una continuità tra Terra di Mezzo e nazismo, è una cattiva narrazione specificamente italiota, inventata per ragioni di schieramento, nel contesto descritto sopra.

  12. Iniziativa molto interessante! Che mi attrae anche per la componente cattolica del convegno, per motivi personali: fu mio padre, cattolico convinto – non democristiano, solo cattolico… e buono – e tolkieniano della prima ora, a mettermi in mano il Signore degli anelli nei primi anni Settanta, dicendo: leggilo, è un capolavoro.

  13. Grande Marziano, io mi riferisco a quando l’allegoria è usata con consapevolezza dall’autore, tipo nelle favole di Esopo, la Divina Commedia, o appunto si diceva la Fattoria degli Animali.

  14. Ottimo articolo.
    Da quello che vedo, tuttavia, l’high/heroic fantasy di stampo tolkeniano, a prescindere dalla giovinezza degli autori, è in netto declino. Anzi, era già nella sua parabola discendente qualche anno fa.
    Non è una novità che all’estero il fantastico una commistione di generi, una realtà che si è ormai affacciata anche in Italia.

  15. Falso problema. Se Tolkien vale qualcosa resterà, nel tempo. Se no, passerà di moda. A ora si può dire che ha resistito 50 anni, senza cadute nelle vendite. Non male. Se la cosa si dovesse protrarre nel secolo, pian piano i critici cambieranno avviso. Anche in Italia (anche se possibilmente per ultimi).

  16. Posso dire che, a mio modesto avviso, la saga tolkeniana ha avuto fin troppo successo per quello che è? Grazie. A volte il successo (editoriale, dibattuale o quel che volete) è decisamente sproporzionato rispetto alla proposta letteraria in sé.

  17. @ WM1: però il rischio implicito in ciò che sostieni tu è quello, come lo definisce il tuo socio, di restare nell’ossessione “di arruolare tutto e tutti da una parte o dall’altra” – sia pure per legittima reazione.
    Tu stai dicendo: una parte è depositaria della verità storica e non può accettare di subire le manipolazioni dell’altra, tantomeno condividerle. Ma la verità storica non è il solo piano su cui si formano l’identità e la memoria delle persone… L’esempio della Francia e della Gran Bretagna mostrano proprio che che qualcosa di simile a un “carattere nazionale” si forma in virtù di un mito, più che di una verità storica. Per dire, l’invenzione della scozzesità da parte di Sir Walter Scott è risultata più forte e produttiva della decostruzione che ne fa Hobsbawm, o sbaglio?

  18. @francesca: facevo un discorso in generale, senza chiamare in causa direttamente il tuo intervento. E’ chiaro che se c’è allegoria alla fonte, significa che è esplicita e quindi anche il lettore distratto difficilmente potrà non notarla. Tuttavia, l’allegoria esiste anche quando c’è solo anche l’applicabilità da parte dell’autore. E’ il lettore che se la costruisce.
    Poi è chiaro che se una narrativa si basa su mitologie preesistenti, anche se non fa allegoria esplicita, difficilmente sfuggirà alla regola dell’applicabilità e quindi all’allegoria interpretata. Il problema semmai si verifica quando l’applicabilità (come è accaduto in Italia) viene fatta propria e strumentalizzata lungo binari ideologici precostituiti e non lasciata alla libera sensibilità di ciascun lettore.

  19. @ Paolo S
    rischiamo un OT da paura, ma proviamo a ragionare! 🙂
    .
    Proprio il caso di Tolkien e il modo in cui è stato impostato negli ultimi anni il lavoro culturale su di lui mostra che si può portare avanti la battaglia senza alcuna pretesa di “arruolare” un autore dalla propria parte. E’ sufficiente “dis-arruolarlo”, liberarne l’immagine, toglierlo dai ranghi dell’esercito farlocco in cui alcuni lo arruolarono a forza. Nel far questo, va rifiutato il paralogismo a cui facevo riferimento anche nella vecchia “Lezione su 300” e anche altrove: mi piace Tolkien e io sono di sinistra, ergo Tolkien è di sinistra. Mi piace Cary Grant e io sono marxista, ergo Cary Grant è marxista.
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    Nessuno è “depositario” della verità storica. Si tratta di difendere la complessità e la contraddittorietà del passato (e della sua eredità) dalle offensive degli iper-semplificatori, che estrapolano, de-contestualizzano, schiacciano la prospettiva sulle angustie del presente e della loro interpretazione unilineare.
    In questi giorni sui giornali appare spesso la manchette pubblicitaria di un libro di Petacco e Mazzuca. Il sottotitolo fa riferimento a una “resistenza con le stellette” che sarebbe stata rimossa. Rimossa da chi? Non ci vuole un genio per capirlo: dai maledetti comunisti che hanno egemonizzato la cultura etc. Questa insinuazione fa il paio con una vecchia boutade di Paolo Mieli, secondo cui la sinistra avrebbe rimosso i caduti di Cefalonia, tant’è che in nessuna città amministrata dalla sinistra si è mai intitolata una via a quei caduti e blah blah blah.
    Ora, non solo la resistenza dei militari italiani e dei partigiani “autonomi” non è mai stata rimossa da alcuno, ma è stata celebrata dalla sinistra istituzionale di questo Paese, i cui esponenti a volte la vissero in prima persona. Tant’è che una delle testimonianze autobiografiche più note sull’argomento (edita da Einaudi) è L’altra Resistenza di Alessandro Natta, che fu segretario nazionale del PCI! E a Mieli sarebbe bastato venire a Bologna, fare due passi nell’ombelico del centro storico, dare le spalle a Palazzo Re Enzo e l’avrebbe vista, eccola affacciarsi su via Rizzoli: VIA CADUTI DI CEFALONIA.
    La storia è molto più complessa di come la dipingono gli agit-prop del revisionismo. E anche questo è un esempio di “dis-arruolamento”, nel senso che io non direi mai che i “badogliani” alla Fenoglio e i militari deportati perché resistenti erano “di sinistra”. Alcuni lo diventarono nel Dopoguerra (come Fenoglio), moltissimi non lo diventarono mai. Ma la frottola sulla loro consapevole rimozione va contrastata non per “arruolarli a sinistra”: va contrastata perché è una frottola.
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    “L’invenzione della scozzesità da parte di Sir Walter Scott è risultata più forte e produttiva della decostruzione che ne fa Hobsbawm”
    Certamente. Prova a sostituire qualche elemento nella tua frase: “l’invezione della celticità della Padania da parte…”, “l’invenzione dell’arianità della Germania da parte di…”, “l’invenzione di un Grande Israele da parte di…” E’ chiaro che sono mitologie forti, il “mito tecnicizzato” è sempre forte, fa leva sulla psicologia delle folle, su pulsioni, sulla libido di massa. Sono frame potentissimi, che andrebbero combattuti con frame altrettanto potenti ma non deformi, non malsani. Compito difficilissimo.
    La dicotomia tra storia e mito non funziona: il mito tecnicizzato si basa sempre su una re-interpretazione di elementi storici. C’è sempre una commistione: la storia viene mitizzata, il mito cerca di radicarsi nella storia etc.
    E’ chiaro che un dispositivo del genere non lo puoi contrastare solo con la razionalità, l’informazione equilibrata, il lavoro storiografico etc. Non puoi guarire un feticista dimostrandogli che il suo è un feticcio: sfondi una porta aperta, lui sa di essere un feticista e il suo feticcio gli piace! Che gli frega di guarire? Ma una nuova narrazione che disabiliti quella vecchia come la costruisci, se non fai leva anche sulla conoscenza storica?

  20. Quello che mi ha sempre colpito di più della vicenda tolkieniana italiana è sempre stato l’aspetto più strettamente identitario e ideologico “di ritorno”. Sono cioè convinto che parte delle fortune elettorali odierne e di percorso della destra-destra in Italia trovino le loro radici profonde (e cosa senno?) in queste temperie interpretative. Naturalmente la storia “si fa” con i se e con i ma. Cosa sarebbe accaduto se Elemire Zolla non avesse spinto per una appropriazione de facto di un mito rifondativo come quello della terra di mezzo? A posteriori penso si possa tranquillamente affermare che si trattava (per quel particolare periodo storico) di una parola che la gran parte delle giovani sensibilità, diciamo, non allineate, avevano una gran voglia di sentirsi dire. Ma della quale non avevano che una cognizione vaga e indistinta. Ciò che ha avuto la sua forte utilità è stato proprio un repertorio di luoghi, oggetti, simboli, parole e personalità la cui funzione è stata di inscrivere in un contesto narrativo un processo di rifondazione che è (anche) servito ad emanciparsi da una pervicacia nostalgica percepita, a ragione, come sterile. Ma che de visu nessuno si permetteva di mettere in discussione, pena la scomunica. Per esempio. Il che è stato, se non altro, un efficacissimo rimedio cosmetico. Probabilmente anche estetico se è vero che attraverso il portone aperto da Tolkien sono tornati ad affacciarsi i vari De Maistre nostrani.
    Dunque, è ottima l’iniziativa promossa da WM4 perché contribuisce a restituire un respiro meno asfittico e più internazionale all’intera vicenda. E l’auspicio è che il mondo accademico risponda con la dovuta buona volontà.
    D’altra parte Isildur si guardò bene dal gettare l’anello del potere nel magma del Monte Fato. Tanto per “applicare” giocando un po’ 🙂

  21. Sulla questione identitaria, forse era già stato fatto notare, in effetti non solo nella critica si è sedimentata l’idea che Tolkien fosse di destra.
    Di fatto, tra i giovani nati negli anni ’70 e anni ’80 – oggi non più dei regazzini – che direi sono i fruitori più “fanatici” del fantastico tolkeniano e le sue derivazioni primarie (ossia il role game, il gioco di ruolo dal vivo, e il videogame) ho riscontrato che ideologicamente buona parte di loro è schierata a destra. E intendo destra dalle parti di Alleanza Nazionale.
    Non tutti, ovvio.
    Ma persino nella terra rossissima come la Toscana, ho potuto riscontrare che il fantasy era diventato una “valvola di sfogo” ideologica e non solo per molti gruppi di ispirazione post-fascista (non necessariamente politicizzati).
    E’ evidente che nella “applicabilità” del SDA vi è anche questa possibile interpretazione. Molto arbitraria e poco attenta. Senza dubbio.
    Questo convegno e una maggiore distribuzione di saggi ed esegesi critiche non voglio dire corrette ma più esatte potranno almeno evitare alle nuove generazioni di lettori e fruitori del fantastico di non lasciarsi incastrare in queste trappole.
    Che poi sono bi-partisan. Perché pure i fanatici di sinistra non è che mi siano simpatici.
    Il giorno che i fan di tolkien (italiani of course) capiranno che il SDA piace loro perché è un gran figata senza colori e senza ma, sarà un gran bel giorno. Debbo dire che le nuove generazioni – quelle nate negli ’90 – essendo approdate al romanzo dalla pubblicità mediatica del film hanno saltato a piè pari tutto l’annoso problema. Per cui c’è la speranza – almeno tra gli ammiratori – che con la nostra morte spariranno anche queste visioni distorte e difettose.
    Per i critici…
    E’ assai interessante, oltretutto, la questione edipica.
    Tolkien sta al fantastico come il neorealismo al Cinema Italiano.
    Un mito, ma anche un guaio.
    Come si fa dopo Tolkien a scrivere un fantasy che inevitabilmente non lo richiami?
    Pensate a Terry Brooks. Uno dei primissimi “epigoni”, che nel ’77 riapre le porte del fantasy forse inaugurando una stagione di remake. Nel suo pur dignitoso tentativo, la critica l’ha totalmente snobbato: è una brutta copia di Tolkien.
    In realtà, dal mio punto di vista, la soluzione è semplice.
    Basterebbe cominciare a scrivere un libro senza preoccuparsi se è fantasy. E soprattutto evitare di finire il SDA e poi dire “Adesso voglio scrivere un fantasy”.
    Il nodo (gordiano) di partenza è sempre un altro: voglio raccontare una storia.

  22. Wu Ming, la storia deve rappresentare i contesti, la complessità, le articolazioni. Purtroppo, non dai “revisionisti”, ma da storici “istituzionali” e baronali è stata semplificata. Gli è stata tolta la dimensione prospettica, è degenerata in pubblicistica politica. Anche quando si è scritto di Resistenza si è evitato di rappresentarla in tutte le sue molteplici sfaccettature. Oltre la lotta fondamentale contro il nazifascismo i resistenti avevano nella testa prospettive politiche assai diverse, inconciliabili, per il futuro dell’Italia. In tanti libri è scritto che la lotta partigiana ha liberato l’Italia. Non c’è traccia in moltissimi testi del sacrificio di polacchi, inglesi, e di altre nazionalità. Non si tratta di sforzarsi nell’esclamare un insignificante: “volemose bbene”, ma di separare la Storia dalle suggestioni e dalle strumentalizzazioni politiche ed ideologiche. Tolkien non poteva che essere interpretato attraverso le deviazioni e le anomalie tipiche del mondo culturale italiano. C’è chi lo ha elevato ad icona mitologica e chi l’ha collocato tra gli autori di fumetti (con tutto il rispetto per chi scrive fumetti).

  23. Ekerot scrive: ” ho riscontrato che ideologicamente buona parte di loro è schierata a destra. E intendo destra dalle parti di Alleanza Nazionale”
    Mmmmmmnon so (e no, il “non tutti” non mi basta). Sono nato negli anni 70, ho giocato di ruolo, leggo fantastico (e fantasy, e tanto tanto altro) da quando ho tredici anni e non sono di Destra. Come me ne conosco centinaia. Per me, e per le centinaia -se non migliaia- di giocatori che ho conosciuto nella mia vita, il Gdr NON era una una valvola di sfiato ideologica: altrimenti non si spiegherebbe perché tra i miei co-giocatori ci fossero anarchici, poliziotti con simpatie di estrema destra, ‘figli di papà’, frequentatori di centri sociali, cannaioli, agnostici, e ingessatissimi professionisti-to-be.
    Sarà che (forse eh) chi parla i giochi di ruolo non li ha mai giocato, e ha sempre guardato al ‘fenomeno’ come, appunto, a un fenomeno. Suvvia, fatevi una bella campagna di Nobilis e parlate di meno di quello che non conoscete.
    Ma poi generalizzare: a che serve?
    A creare un modello di realtà facilmente digeribile? (-ruttino-)
    E non era di questo che si accusava i Tolkieniani svasticati?
    Ossequi.

  24. Melmoth avresti dovuto leggere il mio intervento con un pochetto più di amore.
    Innanzitutto perché come te anche io c’ho avuto le mie belle esperienze di rolegamer in tutte le salse. E poi ho scritto più sotto che non necessariamente quella valvola di sfogo fosse “politicizzata”.
    Ma appunto ideologica. Come se la possibilità di aprire ed incontrare nel fantastico un mondo di buoni e cattivi, di guerre contro ogri, di società ordinate e medievaleggianti, desse in qualche modo loro la chance di sfogare idee e valori che nel mondo hic et nunc non trovavano o non trovano corrisposti.
    Non tutti, non basta. Questo è un problema tuo. Significa appunto che non volevo generalizzare. So benissimo che ci sono molte sfumature. Ho anche fatto un esempio preciso, quello appunto che ho incontrato io nella mia vita. Facendo notare come, proprio in Toscana, il fantasy avesse “coalizzato” molti ragazzi di genuina vocazione destrorsa altrimenti destinati a restare “slegati”.
    Ben lieto che la tua esperienza sia stata diversa.
    I dibattiti servono appunto per confrontarle.

  25. @ Dinosauro,
    “Anche quando si è scritto di Resistenza si è evitato di rappresentarla in tutte le sue molteplici sfaccettature”
    .
    anche questo è un mito, una leggenda urbana che a furia di reiterarla è presa per vera da tutti i “profani” (cioè quelli estranei all’ambiente della storiografia). Se si vanno a leggere i lavori storiografici effettivamente esistenti e risalenti al cinquantennio post-bellico, questa costruzione retorica si sbriciola. Persino nella storia della Resistenza di Battaglia, che dovrebbe rappresentare “l’ortodossia”, tutte le componenti della Resistenza sono descritte e trattate. Per non dire delle panoramiche di Claudio Pavone, altro storico preso di mira dai revisionisti mediatici. Il problema non è che la storiografia sia stata troppo selettiva, ma che la “vulgata” di sinistra sia stata troppo edulcorante, “angelizzante”.
    .
    “Non c’è traccia in moltissimi testi del sacrificio di polacchi, inglesi, e di altre nazionalità.”
    .
    Sinceramente, Dinosauro: è falso. Tutto si può dire, ma non che negli ultimi sessantacinque anni in Italia non si sia parlato degli Alleati! Io sono cresciuto con una dieta di film, libri e fumetti dove gli Alleati erano onnipresenti (e pure giustamente, viene da dire). E i partigiani stessi erano fortemente anglofili e addirittura americanofili, basti vedere i nomi di battaglia che si sceglievano. Inoltre, non c’è testo appartenente alla memorialistica sulla Resistenza che non parli della partecipazione alla Resistenza medesima di prigionieri di guerra inglesi, australiani, russi, neozelandesi che, una volta liberati, si unirono alla lotta partigiana. Quanto al sacrificio dei polacchi, proprio a Bologna c’è un grande cimitero di guerra polacco, noto a tutti, ben segnalato, piazzato proprio sulla via Emilia.
    .
    Il punto è che non si possono separare sforzo alleato e Resistenza, erano due strategie complementari, altrimenti perché gli Alleati avrebbero fatto i “lanci”, distaccato uomini presso i partigiani, concordato le modalità di liberazione delle città?
    E a quelli che dicono che la Resistenza è “sopravvalutata”, oltre a spiegargli l’importanza della guerra partigiana dal punto di vista prettamente strategico-militare, bisognerebbe porre una semplice domanda:
    “Come mai, a differenza di quel che accadde alla Germania, che addirittura venne smembrata, all’Italia fu permesso di scrivere la propria Costituzione?”
    Semplice: perché in Germania la Resistenza non c’era stata. Gli Alleati dovettero riconoscere che l’Italia si era liberata anche con le proprie forze.

  26. Porre sullo stesso piano storiografico-politico-simbolico la Germania con l’Italia è dilettantismo storiografico. Certo la Resistenza è stata soprattutto punto di riferimento ideale, dal punto di vista politico-militare ha avuto un ruolo marginale, non inutile ma molto secondario. Quindi il valore morale del movimento nessuno può metterlo in discussione, come nessuno può obiettare alla tesa che attribuisce la Liberazione quasi esclusivamente all’intervento alleato.

  27. Sono d’accordo, perciò evito di riportare qui il testo del telegramma in cui Kesselring implorava Hitler di far arretrare il fronte dalla Linea Gotica alle Alpi, perché sull’Appennino le forze germaniche cozzavano con veri e propri eserciti di “banditi” che le mettevano a dura prova. Ad esempio la 36esima Brigata Garibaldi che sconfisse i tedeschi in alcune battaglie campali di cui in Romagna si conserva la memoria 🙂 Fine OT.

  28. C’è anche da dire che Tolkien ha trovato terreno arido da noi, perchè fino agli anni ottanta, prima della rivoluzione pop culturale ad opera di tv private e soci, da noi mancava la propensione culturale da parte degli adulti a “intrattenersi con materiale narrativo fantastico”, mancava il pubblico, l’epica era il western. In letteratura calvino e buzzati non erano così consumati e popolari e nel loro “piccolo” hanno fatto miracoli; se non c’era il pubblico ad accogliere tokien figuriamoci la critica.
    I paesi anglosassoni o la francia erano coltivati da almeno cent’anni alla narrativa fantastica d’intrattenimento o d’avventura per gli adulti. Quello che lamentava Tolkien nel suo saggio sulle fiabe nel lontano 1939 ovvero che il mondo adulto relegava le fiabe, erroneamente, all’infanzia, da noi era ancora valido, generalmente, all’inizio degli anni ottanta.
    D.

  29. Dimenticavo, P.S. della chiusura OT: nemmeno il Giappone potè scrivere da solo la propria Costituzione. Dei tre paesi dell’Asse, solo l’Italia si conquistò quel diritto. Non è un’interpretazione, è un fatto.

  30. @Daniele Marotta: …e purtroppo per molti versi è ancora valido oggi. La letteratura fantastica è ancora parecchio sottostimata in quanto tale. Non facciamoci illusioni che le cose siano cambiate davvero. Magari in superficie, ma sotto sotto ho seri dubbi che il fantastico non venga ancora considerato un genere per ragazzini o per adulti mai cresciuti (cioè per nerd un po’ sfigati). Secondo me le considerazioni di Tolkien sulle favole sono ancora parecchio attuali, almeno a queste latitudini. Per una certa critica accademica il fatto nuovo della letteratura italiana è il “ritorno al reale”, visto come un fattore interessante di per sé. Si fa presto a dedurre cosa lorsignori pensano del fantastico…

  31. Nel forum si è citato l’elevato valore simbolico dell’opera di Tolkien. Gli hobbit per esempio rappresentano l’altra umanità, il superamento dell’uomo verso una beatitudine terrena ben radicata nei valori di comunità e fratellanza. li definisce “dolci come il miele e resistenti come le radici degli alberi secolari”

  32. Ne avevamo parlato in questi termini pochi post fa. A riprova del tuo sentore, WM 4, basta vedere dove sono spalmati i titoli fantastici delle case editrici generaliste… le eccezioni son pochine.

  33. Dinosauro sei proprio un rudere.
    Non te la prendere ma quello che tu chiami superamento dell’uomo e beatitudine terrena non è altro che la vita normale.
    Gli hobbit sono “dolci come il miele e resistenti come le radici” proprio come lo sono le persone comuni, se leggi tolkien vedi come la comunità hobbit non ha nulla di cominitario o di “fratellante”. Sono tutti chiusi e sospettosi gli uni degli altri, sono invidiosi e divisi, ciarlieri e festosi proprio come qualunque comunità di paese.
    Sam e Frodo con gli altri sono fraterni e solidali, ma per amicizia e non “di razza”, lascia il simbolo ti prego che non ha elevazione, almeno per capire tolkien, piuttosto leggilo bene. E vieni a modena sabato se puoi..
    @WM4
    Certo certosino.
    Le cose non cambieranno finchè non ci sarà un vero ricambio generazionale o una costruzione di ponti tra generazioni di autori e critici, non cambieranno finchè non riusciremo a diffondere un’idea di critica che si concentri sulle opere anzichè solo sugli aspetti politico-sociali delle opere, e che la smetta di giocare a campana sulle categorie letterarie, come fossero contenuti anzichè contenitori.
    Una certa critica, come il professore e autore Antonio Prete con cui mi sono formato, riesce a concentrarsi sul poetare senza inciampare sulle categorie e sui confini di genere, perchè alla ricerca della stessa tensione indefinita della letteratura e non di una gelida vivisezione analitica per far tornare tutto secondo categorie morte da tempo quando non immaginarie.

  34. Mi permetto di ignorare a pie’ pari i 39 commenti per dire solo… bell’articolo 🙂
    Sono banale, pardonnez moi.
    Aggravo la mia banalità concordando con chi ha concordato nel ritenere illuminante la dualità allegoria/applicabilità.
    Aggiungo una stupidaggine solo mia: per scrivere allegorie accettabili devi essere un genio. (Orwell, Dante) proprio per la portata e la potenza del concetto stesso di allegoria. Per scrivere qualsiasi altra cosa… beh, basta essere solo un “bravo” scrittore. Avercene, di questi ultimi. 😉

  35. Condivivo l’articolo su Tolkien e le parole di WU Ming 4, soprattutto l’ultima parte mi sembra da evidenzare. L’epica e il fantastico sono molto sottovalutati, soprattutto in Italia. Eppure nella nostra letteratura ci sono fior di scrittori che vi ricorrono spesso.
    Speriamo che il convegno di Modena contribuisca a cambiare questa visione generale, almeno per quanto riguarda il nostro amato professore!

  36. Sarò pure un rudere, Marotta tu che leggi tutti i giorni il signore degli anelli puoi spiegarmi il rapporto uomini-hobbit. Che cos’è la vita normale?

  37. Scusami per la battuta ma mi è scappata.
    Gli hobbit risultano nella terra di mezzo come uno spaccato della nostra società piccolo borghese inserita in un mondo fantastico se pur storico e coerente.
    Tanto è vero che gli hobbit sono come confinati rispetto al mondo fantastico, trincerati dietro la loro ignoranza, paura e pregiudizio. Bilbo e Frodo stessi sono visti con sospetto allorchè varcano i confini della contea per avventurarsi nel mondo.
    Come le persone comuni, della nostra realtà primaria, però, gli hobbit non sono miseri, piccoli ed inutili rispetto ai grandi poteri del mondo ma hanno celate anche virtù e doti inimmaginabili a loro stessi, cosa che li rendono preziosi agli occhi dei saggi come gandalf o elrond.
    Una delle grandi innovazioni narrative di Tolkien è che invece che di far partire i suoi protagonisti dal nostro mondo a quello fantastico via sogno, o via spazio o via tempesta o tromba d’aria come nel mago di oz, o dentro un buco come Alice eccetera, li fa direttamente nascere nella terra di mezzo, sotto forma di Hobbit.
    Non c’è più l’umano contro il fantastico come in Tarzan, in Flash Gordon eccetera ma creature che si muovono in un contesto coerente e tutte “autoctone al fantastico”.
    La contea appartiene, di fatto, al mondo nostro avendo un servizio postale, abitudini borgesi, il the il caffè eccetera. Per cui il primo Hobbit non è altri che Tolkien cosa a cui allude spesso parlando delle sue abitudini e delle sue idiosincrasie. Gli altri hobbit, ovviamente siamo noi.
    spero di essermi spiegato bene, e scusami ancora per la scortesia.
    D,

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