TOLKIEN, LA FILOSOFIA, IL FANTASTICO

Sul quotidiano di oggi, una mia intervista a Wu Ming 4. Su Giap!, un articolo di Roberto Arduini. Che la festa cominci.

Riprendersi Tolkien. Liberarlo dalla presunta appartenenza alla destra. Liberarlo dal disprezzo di quella critica che accusa la sua opera di non essere vera letteratura ma semplice evasione. Bene, l’evasione del prigioniero non può essere equiparata alla fuga del disertore, ebbe a dire un giorno J.R.R.Tolkien in persona: forse sospettando che la questione del fantastico aperta da Il signore degli anelli sarebbe vissuta a lungo nell’ombra della letteratura “minore”.
In Italia, l’ombra è più densa, e si deve proprio ad una interpretazione di Tolkien che è stata, fin qui, sviante: a maggior ragione, si pone come eccezionale – nel senso letterale del termine – il convegno che avrà luogo il 22 maggio a Modena. Tolkien e la filosofia, organizzato dall’Istituto filosofico Studi Tomistici e dall’Associazione Romana Studi Tolkieniani, vede infatti la partecipazione di alcuni fra i massimi esperti mondiali del professore. Da Lublino viene Christopher Garbowski, fra i più interessanti commentatori cattolici dell’opera di Tolkien. Dall’Inghilterra, Tom Shippey, autore de La Via per la Terra di Mezzo (pubblicato in Italia da Marietti, che negli ultimi anni ha tradotto i saggi degli studiosi di ogni paese), considerato fra le pietre miliari per la comprensione del linguaggio tolkieniano. Dal Maryland giunge Verlyn Flieger, cui si deve la tematizzazione della poetica di Tolkien come dialettica fra luce e ombra. E fra gli italiani, insieme al filosofo Franco Manni, direttore della rivista Endòre, e al giornalista e studioso Andrea Monda, ci sarà lo scrittore Wu Ming 4, attento osservatore del mito e del fantastico (il suo saggio L’eroe imperfetto uscirà agli inizi di giugno presso Bompiani) e autore del romanzo Stella del Mattino, dove è proprio il farsi della mitologia tolkieniana uno dei filoni principali.
Scopo del convegno, racconta Wu Ming 4, è proprio quello di provare ad intervenire dall’Italia nel dibattito internazionale su Tolkien: cercando così di superare un gap. “Su Tolkien – racconta – pesa un’ipoteca ormai quarantennale dovuta sostanzialmente a due fattori concomitanti. Il primo è l’approdo nel nostro paese di Tolkien: che è stato traghettato da intellettuali vicini alla destra e anche all’estrema destra neofascista e misticheggiante. Questo fece sì che per molti anni venisse considerato l’autore tradizionalista che non è mai stato. Il secondo fattore riguarda la sottovalutazione o la misinterpretazione da parte della critica letteraria di sinistra, che – con le rare eccezioni di Portelli e Lodigiani – ha applicato a Tolkien il pregiudizio nutrito su tutta la letteratura fantastica”.

Un pregiudizio pesante, che – sottolinea Wu Ming 4 – prende alla lettera alcune teorie di Todorov giustificando il fantastico solo come allegoria del reale. “E dunque va bene Orwell, vanno benissimo 1984 e Fattoria degli animali: ma non chi scrive fantastico in quanto tale. Tolkien sosteneva di non scrivere allegorie: distingueva, anzi, fra allegoria e applicabilità, laddove la prima è un atto di imperio da parte dell’autore, che racconta una cosa per parlarti di altro come fa, appunto, Orwell. L’applicabilità è invece la libertà del lettore: è lui che può riscontrare nell’opera una vicinanza con le cose che gli accadono attorno. L’applicabilità significa lasciare sempre aperta la narrazione”.
Una caratteristica che ha reso Tolkien uno degli autori più amati dai lettori: il suo fandom, che indica la partecipazione attiva e spesso anche narrativa dei fan, è immenso. E l’atteggiamento iniziale dell’autore lo ha favorito: “negli anni Cinquanta Tolkien si poneva il problema che non gli sarebbe bastata un’intera vita per portare a compimento tutta l’epica della Terra di Mezzo. Per questo si augurò l’intervento di “altre menti e altri mani” che completassero l’opera parlando di quegli aspetti di cui non poteva occuparsi, dalla botanica alla musica. In pratica, ha teorizzato con enorme anticipo quello che oggi chiamiamo transmedia storytelling, e lo ha messo in atto: non chiuse i confini della sua opera, lasciò porte, punti di fuga, falle nel recinto o interi portali spalancati perché altri potessero entrare e partecipare al racconto del mondo da lui inventato”.

Ma se dal punto di vista di chi legge la mancanza dell’allegoria ha favorito la partecipazione, sul versante critico continua a pesare il pregiudizio del disimpegno. Non solo: a Tolkien, e al fantasy, si imputa il passatismo, il “guardare indietro” verso mondi svaniti. Un equivoco ulteriore, dice Wu Ming 4: “si dà per scontato che il guardare indietro sia dettato dalla nostalgia, così come si dà per scontato che inventare un mondo futuribile comporti necessariamente uno sguardo in avanti. Non trovo alcuna traccia di nostalgia nella poetica di Tolkien: ci trovo, invece, un’altra questione cruciale: l’importanza di scremare la contemporaneità dal reale. Togliere il presente dal quadro serve a selezionare temi e archetipi. Tolkien era uno studioso di letteratura medievale, e in quella ha trovato i suoi archetipi. Poi, basterebbe ricordare che i veri eroi della Terra di Mezzo sono i personaggi più borghesi di tutti, gli hobbit: i quali non vivono in una società feudale e adottano i costumi degli uomini moderni in cui il lettore contemporaneo può identificarsi”.

Eppure la questione del passatismo resta problematica anche per i nuovi scrittori fantasy italiani: se quelli più maturi si rivolgono all’urban fantasy, molti altri, specie i giovanissimi, tendono a camminare sulla stessa strada di Tolkien e a costruire mondi molto simili a quelli de Il signore degli anelli. Fin troppo. “Il fantasy ha un problema edipico – dice Wu Ming 4 – Gli autori contemporanei imitano Tolkien in modo pedissequo o cercano di negarlo radicalmente. E’ una questione che i narratori dovranno affrontare e risolvere. Meno interessante è continuare a dibattere su generi e sottogeneri: la letteratura andrebbe letta e valutata per quel che è, senza preoccuparsi della casella in cui collocarla. Si rischia di fare, altrimenti, la stessa operazione che Tolkien contestava ai critici di Beowulf, tesi a vivisezionare il testo dimenticandone la poesia. Invece di tastare il polso al genere, occorrerebbe discutere di più di qualità delle opere. Questo, penso, avrebbe fatto Tolkien”.

64 pensieri su “TOLKIEN, LA FILOSOFIA, IL FANTASTICO

  1. non conoscevo, incollo da Wiki:
    Babbit è un romanzo di Sinclair Lewis, pubblicato nel 1922.
    Ha avuto un notevole successo di pubblico e di critica, nella narrazione viene delineato il ritratto dello statunitense di mezza età con le classiche caratteristiche da americano medio. Il personaggio, agente immobiliare, imbevuto di mediocrità borghese, un po’ alla volta inizia ad uscire dalla monotona vita che conduce, fatta di umori mutevoli, di conformismo e di noia, di inutili tentativi di evasione, una vita tutta al servizio degli affari e dell’efficienza, tutta chiesa presbiteriana e famiglia, per avere strane avventure.
    cavolo è del 1922, magari c’entra.

  2. Il ricordo che TOlkien fece ad Auden sull’aver scribacchiato dietro un compito di un allievo la frase “In a hole in the ground there lived a hobbit.” risale ai primi anni ’30.
    Magari c’è davvero un rapporto con il libro di Sinclair Lewis…

  3. Ottimo articolo.
    Ciò che mi colpisce sempre, nella vicenda della fama di Tolkien, non è tanto l’appropriazione ideologica, quanto l’etichettatura “etico-culturale” subita da lui e da tutta la letteratura “di genere”, in particolare quella fantasy.
    Per molto tempo TUTTI i generi sono stati etichettati come “letteratura di evasione/consumo”: il giallo/poliziesco, la fantascienza, il fantasy, l’avventuroso, il sentimentale.
    Il giallo è stato sdoganato “letterariamente” anni fa, da Simenon. Adesso sta tornando ad essere di consumo (e direi pure “di indigestione”), ma di sicuro non è più considerato un genere dozzinale, buono solo per chi cerca emozioni forti, o al contrario un gioco intellettuale per amanti degli scacchi o degli enigmi matematici. Nessuno ha più il dubbio che sia possibile fare “letteratura” anche scrivendo dei gialli.
    La fantascienza, forse perché così connessa con i concetti di utopia, distopia, di “progresso”, di “società ideali” e delle loro perversioni, del rapporto tra tecnologia e “spirito”, ha assunto uno status “superiore” al semplice intrattenimento già da molto tempo.
    Il fantasy viene ancora visto con un certo sussiego, almeno in buona parte. Viene ancora considerato un genere “d’evasione”, nel senso peggiorativo del termine. Questa è forse un’etichetta peggiore di quelle ideologiche, perché ha la pretesa di essere “obiettiva”, venendo dai “custodi del gusto”.
    Se eventi come questo di Modena servono a mostrare a certi inesorabili “custodi del gusto” che in Tolkien (e nel fantasy tutto) spesso c’è “more than meets the eye”, che, diversamente dall’essere “evasione”, le sue opere sono piuttosto un’immersione più profonda nel reale per metterne allo scoperto le “strutture fondamentali” permanenti al di là dei rivolgimenti storici contingenti… insomma, per mostrare che bisognerebbe smettere di parlare di “letteratura fantasy” e parlare invece di “letteratura” e basta… allora mi auguro che questo sia solo il primo di molti.

  4. Mi piace molto questo che dice Wu Ming4
    “l’importanza di scremare la contemporaneità dal reale. Togliere il presente dal quadro serve a selezionare temi e archetipi. ”
    Lo considero veramente centrale. E’ il motivo per cui Tolkien può essere molto utile per chi filosofa sulla storia e sul mito oltre a chi ama la letteratura, e penso soprattutto al “Silmarillion”.
    Questo però fa di Tolkien, se non un autore di destra(autentica sciocchezza, avallata però negli anni Settanta anche dalla critica militonta di sinistra) un tradizionalista nel senso che lo è chiunque cerca l’eterno nell’uomo oltre il transitorio.
    Adesso vediamo di non fare la sciocchezza contraria e di fare del fantastico tolkeniano l’anticamera di un progressismo che gli era totalmente estraneo.

  5. @ Binaghi: Giusto, Tolkien non era progressista, né lo è la sua poetica. Tuttavia non concordo sull’uso del termine “tradizionalista”. E non solo perché è il tipo di attribuzione su cui la destra più estrema ha costurito la propria lettura della sua opera, ma perché non credo davvero che il problema sia la tradizione.
    Secondo Tolkien la riscoperta, il riacquisto di una chiara visione non significa “vedere le cose come sono”, ma “vedere le cose come noi eravamo destinati a vederle, quali distinte da noi”, cioè non necessariamente connesse alla nostra vita, al sé. Si tratta cioè di liberare la nostra visione delle cose dal “grigio offuscamento della banalità e della famigliarità”. Ecco perché narrare di ciò che abbiamo intorno, del quotidiano famigliare, secondo lui significa impedersi di cogliere l’essenza delle cose. Era cioè sfiduciato sulla possibilità di un’epica del presente, dell’attuale. E’ ovvio che per Tolkien la Realtà (non a caso scritto con la maiuscola) di cui si narra rimanda a una dimensione trascendente, eterna, etc., ovvero ne contiene sempre in sé almeno una scintilla. Ma a prescindere dalla sua poetica ispirata dalla fede, si può dire che effettivamente ogni grande opera narrativa dice qualcosa di universale, qualcosa di universalmente valido. E non perché sancisca una identità, qualcosa che ritorna eguale a se stessa nel corso del tempo lungo il filum di una tradizione, bensì perché continua a dialogare con la realtà, a offirsi a letture sempre ulteriori, cioè perché produce nuovi germogli e non si limita a celebrare quelli che l’hanno preceduta. E’ chiaro che la mia lettura – tutta laica – individua l’eternità in questo costante rideclinarsi dei temi narrativi e non nel loro costante ripetersi in maniera identica. E sono convinto che proprio nella narrativa tolkieniana tale rideclinazione tematica sia molto evidente. Ecco perché, come insisto a dire da tempo, le interpretazioni cattoliche o confessionali dell’opera di Tolkien sono evidentemente fondate, ma riduttive. Perché ricollegano la simbologia tolkieniana a un unico quadro coerentemente religioso, come se Il Sillmarillion e Il Signore degli Anelli fossero la Divina Commedia o i Promessi Sposi. Per me invece l’aspetto più interessante sono i molteplici punti di fuga, le incoerenze, gli slittamenti tematici, cioè le eccedenze da un quadro conchiuso. Sono convinto che se non si considera questo secondo aspetto si capisca poco della portata di questo autore, che non a caso è riuscito a dialogare a distanza con ambiti e culture anche estremamente distanti dal cattolicesimo.

  6. Trovo che la tua sia una precisazione importante sul rapporto tra Tolkien e a sua fortuna in ambito cattolico. Ne avevo accennato ieri io stessa, più che altro per motivi affettivi, ma poi la discussione ha preso una piega diversa, forse più urgente.
    Sarà interessante vedere gli esiti della questione nell’ambito del convegno, visto che ci sarà anche una forte presenza cattolica a Modena. Mi sembra un ambito che vale la pena di esplorare pur nella sua – come dire – inattualità. Non foss’altro che per studiare a 360° la genesi della fortuna critica del SDA in Italia – e i relativi equivoci beninteso.

  7. @Wu Ming4
    In effetti la tua lettura “tutta laica” non solo non mi dispiace affatto, ma considero l’atteggiamento “laico” l’unico possibile di fronte all’arte. E non perchè l’arte non esprima una dimensione spirituale, ma proprio perchè per riconoscerla in modo non strumentale occorre essere più filosoficamente che teologicamente impegnati. Come insisto spesso nel dire, il vero problema della critica letteraria attuale è quello di mancare di una fondazione estetica, e quindi di finire in balia dell’intimismo del “gusto” o del confessionalismo delle ideologie. Io credo che l’eternità dell’arte stia non nei significati che veicola (che invece sono inevitabilmente storicamente dati) ma nell’universale possibilità che l’arte offre al ftuitore di fare un’esperienza “visionaria”. E’ il motivo per cui, anche se al livello iniziale, Hegel collocava l’arte nello Spirito Assoluto e non in quello Soggettivo o Oggettivo.

  8. Grande wu ming4 che evidenzia un punto molto sottile e difficile da cogliere nell’opera di tolkien.
    L’impianto etico è talmente roboante, maestoso e lindo che certamente attira lo sguardo e rende difficile cogliere aspetti più sottili come questa perla che citi tu del liberare le cose dal “grigio offuscamento della banalità e della famigliarità”.
    Così come è evidente che il nucleo caldo di tutto il mondo tolkeniano sia assolutamente poetico ed emozionale e non religioso né etico o avventuroso. C’è una profonda commozione di fondo, una tensione all’indefinito che muovo tutto e accende l’opera e i cuori come un soffio vitale che va ben l’aspetto reale/fantastico.
    Certo la religiosità di tolkien trasuda nell’opera ma non si può certo mettergli i cappello di autore cristiano e aspettarlo in fila al corteo di piazza al family day.
    La sua religiosità, quella propria personale è tutt’uno con la poetica ma è quest’ultima ad abitare le opere, la cristianità di tolkien andava con lui a messa la mattina e restava intima.
    Consiglio la lettura delle lettere, La realtà in trasparenza, Bompiani 2001 anche per imparare dalla fine e profonda religiosità dell’uomo tolkien. Soprattutto le lettere al figlio Cristopher arruolato nella r.a.f durante la seconda guerra mondiale.
    D.

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