UN SERVIZIO DI PORCELLANA E LA SCRITTURA

Riprendo i miei riti mattutini, sia pure puntellata dalle solite stampelle. Fare colazione, preparandola con qualche equilibrismo, trasbordare il cuscino che serve a stare rialzata da una stanza all’altra pinzandolo con le dita della mano destra, leggere i giornali on line (delle edicole dovrò fare a meno ancora per un po’). Questa mattina, dunque, ho letto un articolo sul New York Times apparentemente leggero: raccontava di un servizio di porcellana passato attraverso cinque generazioni. Si comincia nel 1906, quando Laura Jane Briggs arriva a Boston dopo una lunga traversata dall’Inghilterra. E’ poverissima, ha tre figli piccoli, il marito è già in America. Dopo quattro anni, nonostante viva in affitto e non se la passi benissimo, acquista un servizio di porcellana di Limoges: erano gli anni in cui gli americani spendevano in media il 13% del loro reddito annuo in stoviglie, l’equivalente odierno di più di 10.000 dollari all’anno. Con il secondo matrimonio, le cose migliorano per Laura, che diventa suffragetta e vive in una casa migliore. Ha con sé il suo servizio di porcellana: si rompe però una tazza, che ripara con attenzione.
Piatti e tazzine passano alla figlia Gigi e poi alla figlia di lei, Marilynn Buckingham, che le porta in Texas alla fine degli anni Quaranta. Marilynn rompe il coperchio della burriera, e lo ripara con la colla, come fece la nonna. Ha una figlia, Carol, che rompe il manico della zuppiera ponendovi subito rimedio, e poi una nipote, Ashley, cresciuta nel mito del servizio di porcellana che infine eredita. Anche lei rompe una ciotolina, che a sua volta ripara. Ma sa che i suoi figli, due maschi intorno ai vent’anni, non hanno alcuna intenzione di proseguire la tradizione di famiglia, e che quindi quel servizio passato attraverso molte mani di donne resterà infine negli scatoloni.
E’ una piccola storia, come si vede, ma mi ha fatto venire in mente che le cose che sono state amate da altri non siano necessariamente indispensabili per chi alla fine se le ritrova come proprie, e che gli sforzi che facciamo per preservarle per il “sempre” che siamo in grado di concepire non vanno necessariamente a buon fine.
Ma mi ha fatto venire in mente anche una frase di Annie Ernaux. Questa:
“Le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri.”
Così scrive  Ernaux ne L’evento. Poche parole ma non così semplici come possono apparire a prima vista: Ernaux non sta dicendo, almeno secondo me, che la sua vita è scrittura. Anche. Intende però per scrittura qualcosa “di intelligibile e di generale”, qualcosa che riguarda non soltanto la propria vita ma quella degli altri.
E’ uno dei molti modi di concepire la scrittura medesima, certamente. Non è detto che sia l’unico, non è detto che valga per tutti. Però, anche alla luce di quanto scritto ieri e dello stato delle cose nel mondo dei libri, vale la pena insistere su questo punto. Si può scrivere per moltissimi motivi, ma, almeno per me, se il punto di riferimento è la propria vita e basta, il risultato riguarderà poche persone. E, a meno che il gesto anche riparativo (incollare il coperchio della burriera, sì) che nella scrittura esiste non riguardi anche gli altri, quello che scriviamo potrebbe metaforicamente finire negli stessi scatoloni del servizio di porcellana di Laura Jane. Forse.

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