Mi auguro che il Feminist Blog Camp che si apre domani a Torino (e purtroppo non riuscirò a esserci, ma mando un pensiero partecipe a tutte e tutti) trovi il modo di parlare anche di rappresentazione del materno in un paese che non supporta il materno, ma lo glorifica in un’immagine non scalfibile.
Penso che l’impegno delle donne contro l’uso del corpo femminile in pubblicità e in televisione dovrebbe rivolgersi, ora, anche alla decostruzione di quelle immagini di madri angelicate quanto affannate, ma sempre adoranti, mai un dubbio, mai una ribellione, che si affacciano da ogni medium.
Ieri mi scriveva una lettrice: “Sbaglio o da un po’ di tempo sono aumentate le pubblicità che fanno leva sull’amore materno per vendere? “Mamma sei un angelo” per il lievito per torte, il portale mammeattente.it che mi manda una mail per ricordarmi di comprare lysoform per essere una mamma-modello (quelle che non lo comprano sono reprobe e sporcaccione) e poi sottilette, merendine… un mondo appiccicoso e vagamente ansiogeno dove trionfa la mammina giovane e saggia che sa cosa è meglio”. Parallelamente, corre il filone della mamma stremata da “come fai a far tutto?” che comunque riesce a mettersi sempre in secondo piano. E se così non è, balza fuori il commento (femminile, ahinoi) che è la litania più dolorosa che si possa rivolgere al cuore di un genitore. Identica da millenni, sia che sibili da una panchina di una piazza o che venga scritta su un forum: “Se non voleva sacrificarsi, perché ha fatto un figlio?”.
Questo è il motivo per cui non mi stupisco che nella Commissione che ha censurato Quando la notte di Cristina Comencini ci sia, pare, una maggioranza femminile. Le motivazioni, dunque: “La violenza della madre sul suo bambino è inquietante perchè trattasi di una madre normale che, spinta dallo stress, diventa violenta verso il figlio pur non volendolo. Si ritiene che il vuoto della volontà di una madre normale ingenera inquietudine nei minori di anni 14″.
Cosa significhi madre “normale” e quale sia il modello accettabile di normalità materna è un mistero. Di fatto, intaccare l’icona dell’accudimento sorridente, insinuare i dubbi, raccontare quella che è, in effetti, la normalità, sembra scandaloso. E le conseguenze non sono belle: perchè inducono un numero non quantificabile di donne a rappresentarsi come eroiche a tutti i costi. In molti casi lo sono, intendiamoci. In moltissimi. Ma non in quanto madri: in quanto persone che ogni giorno, in questo paese, cercano di mettere insieme i pezzi di una normalità davvero impossibile, fatta di servizi inesistenti, di scuole impoverite e allo sbando, di povertà e (tra brevissimo su questi schermi) di posti di lavoro a forte rischio.
Perchè non dirlo? Perché, per tornare a una vecchia questione, le reazioni furibonde lette in rete contro Elisabeth Badinter e chiunque provi a incrinare il mito confermano che Badinter ha ragione: esiste una rappresentazione del femminile che moltissime donne non sono disposte a prendere in considerazione. Meglio bocciarla.
Mala tempora.
Voglio far entrare uno psicologo che abbia i titoli accademici e professionali per dichiararsi tale e, come a chiunque altro essere umano entri nella scuola, chiedergli autentico interesse per i discenti e onestà intellettuale per insegnare.
E la chiudo qui, perchè mi sembra di parlare a gente che vive su un altro pianeta, talmente preoccupata dall’ideologia da essere diventata incapace di recepire in termini di semplice senso comune.
Comunque, se vi chiedete perchè dove i ministri di destra si limitano a tagliare spese quelli di sinistra portano camionate di logorrea inconcludente, rileggetevi o guardatevi allo specchio.
C’è un mondo intero là fuori, fatto di cose, persone, bisogni.
Per Walter, come ho già detto non sono nel ramo psicologia e affini, quindi, per me, la cantonata è dietro l’angolo. Tuttavia il discorso di Zauberei, titolatissima in materia, mi persuade. Ultimo ma non da ultimo, nei convegni gli storici discutono se Mussolini sia stato un buono statista fino al 36. Anche quelli antifascisti – non diamo mica patenti morali. E un buono statista non è quasi mai una brava persona. Altri ed io siamo invece persuasi sia stato un pessimo statista fin dal lontano 1922.
Valter credo che ci sia un problema con i tuoi post iniziali.
Due problemi.
Il primo è che il discorso di Loredana ha a cuore una cosa diversa da quella di cui parli te, e mo stamo tutti io compresa a parlare di te e non della questione posta da Loredana. Ma siccome abbiamo in mente la questione posta da Loredana è chiaro che rispondiamo pensando a quella questione. Tu parli di cultura della buona genitorialità, noi si parla dell’iconografia falsa del materno. Si parla di sociologia e di ideologia e il nostro problema GRAVE è ora come tante altre volte il potere di una ideologia.
Ma il problema serio che il tuo commento pone è che metti la psicologia in area del curriculum scolastico, cioè tu la proponi come culturalizzata, come sapere non come intervento che è ben altra cosa, tu la proponi concorrenzialmente con la cultura cattolica, quando invece è qualcosa che sta su un piano diverso che proprio non ci entra. E non dire cavolate sui tuoi interlocutori: per esempio io da psicologa ho proposto diversi progetti di intervento nelle scuole. E certo che voglio la psicologia nelle scuole, ma chiaramente, intervento è una cosa, invece pedagogia è un’altra.
@Zauberei
Se Loredana vuole aprire un gineceo basta che lo dica (ma non credo)
Se io da educatore (casualmente maschio) avverto il problema dei disagi della maternità anche come un fatto d’impreparazione, e se attribuisco alla scuola (il posto dove un adolescente passa la maggior parte del suo tempo fino a 19 anni) il compito di sostenerlo, mi pare di prospettare un’ipotesi praticabile se non doverosa.
La concorrenza tra psicologia e cultura cattolica la vedi tu e chi altro non ha ancora capito che il moralismo è un surrogato della religione quando la religione non c’è più, e la psicologia tende a moralizzare quando perde la sua attenzione al fenomeno e si pretende diagnostica o terapeutica.
Motivo per cui io invece ho forti perplessità sull'”intervento” psicologico (questo si, fortemente pregiudicato in termini ideologici e prescrittivi) e non su un insegnamento di psicologia generale e dell’età evolutiva, un po’ più specifico di come già si pratica da decenni negli istituti magistrali.
Nessuno allude al gineceo, e non cadere di nuovo nel tuo vizio di distorcere e semplificare il pensiero altrui. Un’insegnamento di psicologia generale più che approfondito non serve proprio a un bel niente – e anzi peggiora le cose, perchè chi ha buoni motivi culturali e psicologici per non voler essere genitori trova in questo modo un buon vocabolario per le proprie resistenze, un alibi.Non una possibilità di approfondire Fatte na gitarella tra i laureati in psicologia vedrai che competenze esistenziali che levete, tutti padri e madri di nidiate di ragazzini. La comparazione tra psicologia e cultura cattolica l’hai fatta tu quindi rileggiti i tuoi commenti e prenditi la responsablità di quello che tu stesso proponi. Mi pare che ti incarti, e mi pare anche che hai un’idea molto astratta di quello che vuoi proporre di concreto. Non si vede infatti come faccia un insegnamento a non essere ideologico diversamente da una prassi di intervento. Ma chiuderei qui perchè è ot e perchè temo che come succede spesso tra noi non è che cambiamo idea e invece ci arrabbiamo:) piuttosto inutile ecco:)
@zauberei
“nel tuo vizio di distorcere e semplificare il pensiero altrui”
Hai ragione, bisogna che mi adegui alla nuova retorica scientifica:
“Fatte na gitarella tra i laureati in psicologia vedrai che competenze esistenziali che levete”
Però mi viene un dubbio.
Come, non sapete distinguere un’esistenza serena, una situazione limite o una patologia reiterata e pretendete di forumare diagnosi e interventi terapeutici? Si può essere chirurgici senza essere anatomisti?
Che osserva e insegna ad osservare nella completezza è più o meno ideologico di chi cura soggetti inconsapevoli della propria struttura psicologica? E perchè non si dovrebbe desiderare di incentivare questa consapevolezza degli studenti, magari a spese della disanima di un filosofo inglese del seicento come Locke, che esprime una psicologia rudimentale?
“Mi pare che t’incarti” dici.
Io scrivo: “alla critica al femminile coniugale e materno di matrice cattolica, non segue alcuna positiva declinazione antropologica e psicologica alternativa” Sostanzialmente chiedo che ci sia, in una società laica e scientifica, un approccio coerente, per tutti, nella scuola, a tematiche un tempo affidate solo all’educazione familiare e religiosa. Cioè chiedo qualcosa al posto di qualcosa. Si chiama sostituzione, non comparazione. Preferisci il nulla?
Valter il problema è che te non sai un sacco di cose, e non le vedi.
Allora. Il problema della psicologia come professione è che quello che impari sulla carta, cioè la formazione strutturata seria, non è la stessa cosa di quello che tu impari con la tua formazione come terapeuta, ossia con LE analisi personali e didattiche che fanno i terapeuti più seri. Senza quel passaggio concreto e artigianale le infarinature dottrinarie per me sono lettera morta. In ragione di questo, io mi accorgo della qualità professionale una qualità che arriva a toccare tante altri aspetti della vita, di colleghi che hanno fatto una formazione che non li ha obbigati al lavoro su di se. I colleghi per esempio della scuola di specializzazione dello stato, i colleghi di formazione cognitivista. E i neolaureati in genere. Tutte queste persone hanno gli stessi problemi degli altri, sono immerse nella stessa contestualità storica e sociale, ma il sapere che tu auspichi non li aiuta a essere in una posizione diversa, ma solo ad argomentare quella vecchia. Sono una difesa in più a un problema strutturale della persona e della contestualità storica. E’ questo stesso il motivo per cui molti terapeuti esortano i propri pazienti a non leggere niente di psicologico durante il loro lavoro di cura: non per una presunta spocchia, ma perchè si sa che il paziente tende poi a usare le conoscenze contro di se e non per se. Perchè la psicologia buona è a servizio di una strutturazione del se nel progetto del soggetto, non nel progetto di una cultura, è una cosa di cui ci si serve bene solo se in scena c’è un Io, un TU, un Noi non un generico bene e male che non ci si fa niente. Alla lezioncina di gruppo io perciò non credo. Fa anzi solo danno. E non è un caso che non si proponga mai
Quindi io alla lezioncina di gruppo non ci credo, è un po’ come sperare di insegnare a suonare il pianoforte, senza che ci sia manco un pianoforte e facendo due ore di lezione a parlare di Chopin.
Non credo che il momento di vuoto fisiologico dovuto a un cambiamento epocale, come il tramonto della prospettiva cattolica, possa davvero essere risolto con attacchi di zelo esclusivamente disciplinare. Proporre una successione come tu l’hai proposta confida in questo, e io lo trovo scusami, decisamente inadeguato.
A mia volta io faccio osservare che tu hai un problema di distinzione tra statuto scientifico di una disciplina (la psicologia), opportunità di un intervento terapeutico e spazio pedagogico.
A diffeenza di te, non mi permetto di dire che “non sai un sacco di cose” e che “non vedi” ma sicuramente i ragionamenti che fai sono intorbidati da una continua confusione di piani.
In ogni caso, professionalità per professionalità, quando di parlo di scuola, spazio formativo e scienze umane so di che parlo, e non sono in fase di “tutoraggio didattico”, ma pratico la mia professione da trent’anni.
Valter – mi permetto eccome di dire e ribadire quanto e quando cani e porci si permettono di pontificare sulla psicologia, avendo le spalle abbastanza larghe da sapere quali non sono le mie competenze e quali sono le tue su cui io non sono preparata. Sono io che distinguo i piani e sei tu che non sei in grado di capire come la psicologia non sia uguale alle discipline che insegni. Poi se lo capisci o meno, è un problema tuo molto più che mio.
Cani e porci, e galline starnazzanti.
Ad argomenti rispondi con strepiti e rivendicazioni, fondate su fraintendimenti (maliziosi?) di quello che l’altro afferma.
Io ho detto che la psicologia è uguale alle discipline che insegno (filosofia e storia)? O che andrebbe introdotta nelle scuole da parte di figure competenti?
Il problema mio è cambiare la scuola, che a differenza del (costosissimo) divanetto freudiano è per tutti e non per pochi. Quanto ai problemi tuoi, se vuoi te li scrivo a parte. Quello evidente dai tuoi commenti è che tieni molto all’aureola del terapeuta e ogni altra cosa ti pare una minaccia alla medesima. Allarga un pochino gli orizzonti figliola, senza cadere dal divano, per carità.
Ovviamente l’anonimo qui sopra sono me.
@ valter binaghi,
guarda che prima di accusare altri di essere ideologici, maliziosi, membri di un gineceo, galline, forse è il caso che rileggi quello che hai scritto.
Quello che hai scritto, fin dall’inizio, è stato direi “ambiguo”, o non molto chiaro.
Vuoi che la psicologia entri nella scuola, accanto alle altre materie? Cioè, oltre a storia, filosofia, matematica, chimica, italiano ecc., gli studenti delle superiori dovranno studiare psicologia generale dell’età evolutiva?
Vuoi che la psicologia entri nella scuola, per sostenere gli insegnanti nel loro lavoro? O per accompagnare gli studenti nelle varie fasi della vita dai 14 ai 19 anni?
Come vuoi cambiare la scuola attraverso (anche) la psicologia?
Se la psicologia, nella scuola, dovrebbe aiutare i ragazzi a comprendere se stessi, a entrare in relazione con gli altri, ad autoeducarsi ai sentimenti, questo significa che non dovrà essere “insegnata”, ma che i ragazzi dovranno fare un percorso personale, individuale: non è la “nozione”, non è la “storia” della psicologia che potranno educare i ragazzi ai sentimenti (quali sentimenti, poi?).
Ed è evidente che questa psicologia che vorresti che entrasse nelle scuole, grazie a insegnanti esperti nella materia e dotati di onestà intellettuale, è una psicologia legata a una certa scuola, un certo pensiero, una certa visione della persona. (E’ interessante, non trovi?, notare che a essere ideologici sono sempre gli altri, mai noi stessi…)
Non pensi che – in questa ottica dell’educazione alla relazione – anche la letteratura, ad esempio, potrebbe essere un ottimo stimolo, un grande punto di partenza? E perché la filosofia no, perché Locke no, scusa?
Per non dire, poi, che si stava parlando delle madri “normali”, che da lì si era partiti. Ma, ecco, dai l’impressione di avere una visione e un’idea molto molto parziali del mondo femminile, e non è semplice confrontarsi con te…
Ecco, appunto, confrontati con Zauberei che andate a nozze.
Per cortesia.
Troppo sbrigativo, meglio specificare.
C’è una generazione tramortita dall’ideologismo professato in gioventù e di cui non si è mai pentita, ma che vive di paura e di negazione.
Paura di tutto ciò che suona come propositivo, normalizzante (nel senso che conferma anzichè limitarsi a mettere in crisi), che ha trasformato il progressismo in una sorta di coazione a negare qualsiasi forma di stabilità nell’identità e nelle relazioni avendo fatto del proprio disorientamento cronico un idolo (ideologia deriva da idolo, almeno per Bacone), che oltretutto raramente ha mai messo il piede in una scuola (se non da discente, trent’anni prima) e crede che gli attuali programmi scolastici (di Lettere, per esempio) abbiano qualche utilità nello sviluppare consapevolezza psicologica (ci sono insegnanti di Lettere che passano un mese della Quarta liceo a parafrasare Giambattista Marino).
La materia trattata può essere ideologica? Che scoperta.
Ma ti correggo: non la materia, che è un argomento di studio, bensì la persona che la insegna può essere più o meno intellettualmente matura, e quindi capace di privilegiare il fenomeno rispetto a una sua distorsione interessata. Questo però vale praticamente per l’intero ambito dei saperi umanistici, a cui si può aggiungere anche la biologia.
Quindi per “paura” ovvero sfiducia cronica nel genere umano, che si fa?
Chiudiamo le scuole?
La mia idea del mondo femminile, poi, non è proprio in questione.
Certo, a me – che non sono un terapeuta – interessa più che ragazzi e ragazze acquisiscano consapevolezza del valore ma anche delle fatiche e dei problemi della funzione genitoriale prima di leggere orrendi fatti di cronaca tipo infanticidi o violenze sui minori. E anzichè sproloquiare sul nulla preferisco appoggiarmi a istituzioni che esistono, cioè la scuola.
Questo fa di me un pericoloso attentatore della “differenza”?
Certo che la storia della psicologia non guarisce nessuno, ma chi ne ha parlato? Se la letteratura insegna ad affinare le capacità espressive, una psicologia descrittiva non affinerà la consapevolezza psicologica?
Volete dei programmi con cui confrontarvi?
Guardatene uno del Liceo delle Scienze Sociali.
Non vi piace? Neanche a me moltissimo, ma si può far meglio, se ci si prova. Se invece si vive di paura e di negazione, ci si riduce all’affermazione isterica e irriducibile della “propria” differenza, davanti alla quale non c’è linguaggio, non c’è cultura, non c’è comunità possibile solo atomizzazione sociale e frantumazione del discorso.
Affascinante per i salotti radical chic, ma vi garantisco che i ragazzi (quelli veri, che s’incontrano a scuola) ne hanno pieni i coglioni.
E infatti non vi capiscono più, ragazze comprese, e con vostro grande scorno, non vi somigliano, magari degenerando in peggio.
Chiedetevi perchè.
Cazzo.
@”Affascinante per i salotti radical chic, ma vi garantisco che i ragazzi (quelli veri, che s’incontrano a scuola) ne hanno pieni i coglioni.
E infatti non vi capiscono più, ragazze comprese, e con vostro grande scorno, non vi somigliano, magari degenerando in peggio”.
Se c’è una frase che mi fa mettere mano alla pistola (metaforica, tocca specificare) è quella dei salotti radical chic. Valter, piano con i toni. I salotti radical chic personalmente non li ho mai frequentati. Frequento le periferie, invece, dove vivo. E i ragazzi veri, che incontro tutti i giorni, non hanno piene le tasche della presunta isteria della presunta differenza. Hanno piene le tasche del narcisismo, dell’egoismo, dell’incapacità di crescere degli adulti che hanno davanti tutti i giorni. Semmai.
Cazzo.
@Lipperini
Tocca specificare che l’espressione non era rivolta a te ma neanche alle interlocutrici precedenti: era solo un modo per dire che certe posizioni ricevono dignità intellettuale presso certe elites, ma sono del tutto improduttive in prospettiva pedagogica.
Comunque, pistola per pistola, a me prudono le mani quando mi si da dell'”ambiguo”, mentre se c’è uno che perde tempo a spiegare anzichè fare battute in romanesco sono io.
Comunque io la chiudo qui perchè, rileggendo il thread, mi sembra di aver detto tutto quel che avevo da dire, e non era un’esibizione narcisistica ma l’illustrazione di una proposta educativa.
Chi passerà leggerà e se ne farà un’idea sua.
Baci.
@ valter binaghi,
per quanto mi riguarda, non vivo di “paura” e di “negazione”, e non vedo perché devi presumere cose della mia vita, che neanche conosci.
Poni una questione importante, fondante, e cioè come educar(ci) – tutti quanti – alla relazione. Possiamo serenamente parlare di questo? Si può trovare insieme un modo per confrontarsi su questo?
Possiamo parlare – in un tale ampio contesto – delle difficoltà che in particolare le donne – tutte le donne – incontrano nell’essere se stesse? E di quanto sia importante parlare di paternità, maternità, ma anche (perché no?) di una vocazione religiosa, perché è in questo quadro ampio, complesso, che la vita di ognuno di noi si colloca?
Ah, poi,
“ci sono insegnanti di Lettere che passano un mese della Quarta liceo a parafrasare Giambattista Marino”
sì, magari sì, e altri che grazie a Leopardi e Dante intessono con i loro studenti discorsi importanti sullo stare al mondo… quindi, non è che la letteratura serve solo “ad affinare le capacità espressive”
@ valter binaghi,
scrivevo in contemporanea a te…
e mi dispiace di averti fatto prudere le mani: “ambiguo/non molto chiaro” non sei tu, ma era (per me) il tuo primo intervento…
Spiace anche a me aver alzato i toni.
Sulle discussioni ci sarà occasione, qui, di capirsi meglio.
C’è stanchezza ogni tanto, e rabbia. Si prova a migliorarsi.
Un compito infinito.
infinito, sì…
C’è stanchezza e rabbia ovunque, Valter e Danae. I toni si alzano continuamente e ovunque: in strada, sul web. E’, temo, questo che deve inquietarci.
Le rare volte in cui vado nelle scuole – come storica – e spesso sono scuole di periferia estrema mi sembra che i ragazzi e le ragazze siano stanchi di tante cose, comprese le ideologie degli insegnanti figli del sessantotto o del settantasette per cui sei quasi costretta a passare da Pansa per spiegare loro le complessità della storia. La psicologia – e io non sono psicologa – è un percorso personale, non si può insegnare se non come teoria, come la filosofia ma, a quel punto, lo studente non ha di certo gli strumenti per analizzarsi. La terapia, se serve, si fa con un terapeuta non con un l’insegnante di psicologia. E francamente non vedo disegni atti a destabilizzare, a decostruire l’idea di famiglia, di stabilità e via dicendo. Anzi vedo tutti – soprattutto i giovanissimi – molto più interessati ad accasarsi che a cercare strade altre. Questo per le donne è deleterio: la maternità – dalla pubblicità passando per i siti Internet – sembra essere tornata il centro di tutti le aspirazioni. A titolo personale se dovessi dire qualcosa a qualcuno/a molto giovane, gli raccomanderei di sperimentarsi un poco, di giocare anche coi sentimenti con una certa dose di leggerezza.
Per tornare in topic – l’idea di maternità veicolata dai media è una galera perché insegue una perfezione dannosa alla madre e alla prole. E per ultimo non è che ci sia una strada per prevenire gli infanticidi o la cronaca nera con l’istruzione o l’educazione. A volte le donne che – ai tempi della controriforma – abbandonavano consapevolmente la famiglia, marito e figli, per andare nei conventi sembrano tanto più libere dalla gabbia di quanto non siamo noi ora.
Mi sembra che nessun dibattito possa essere costruttivo se non si rispettano le competenze altrui.
“La terapia, se serve, si fa con un terapeuta non con un l’insegnante di psicologia.”
A ridaje. Ma chi vuole introdurre terapia nelle scuole?
“Questo per le donne è deleterio: la maternità – dalla pubblicità passando per i siti Internet – sembra essere tornata il centro di tutti le aspirazioni.”
Da quale pulpito o competenza questo giudizio di valore se non quello dell’ideologia?
“Se dovessi dire qualcosa a qualcuno/a molto giovane, gli raccomanderei di sperimentarsi un poco, di giocare anche coi sentimenti con una certa dose di leggerezza.”
Ma arrivi tardi. Gliel’ha già spiegato la Minetti.
Mi mordo la lingua e non vado oltre, per non infierire.
Caro Walter,
conoscere le teorie psicologiche non ti concede alcun vantaggio per risolvere i tuoi problemi, se ne hai. Per questo i terapeuti – non per spocchia o per tenersi il sapere – invitano i pazienti a sospendere letture a tema mentre sono in cura. Ti è chiaro questo punto? Quindi se sei favorevole a introdurre dei corsi di storia della psicologia va benissimo ma se ti illudi che daranno agli studenti qualche strumento in più per risolversi i loro eventuali guai, sei in errore. La leggerezza a cui alludo io non è quella della Minetti, che leggera non è affatto. Dare una prestazione sessuale in cambio di lavoro/potere/vantaggio non è essere lievi come lo si può essere da giovanissimi. E se la vuoi mettere su questo piano c’è pure chi si sposa – quindi è stabile – per vil denaro. Stai infierendo solo su te stesso e io non sono interessata a discutere con qualcuno che gioca a chi c’è la più lungo – sorry per il francesismo.
a chi ce l’ha più lungo.
“sospendere letture a tema mentre sono in cura”
Grande. Solo che io parlo di normali percorsi scolastici.
Ti è chiaro questo punto?
“corsi di storia della psicologia”
tutta roba che ci hai messo tu. Leggere prima di criticare.
“se ti illudi che daranno agli studenti qualche strumento in più per risolversi i loro eventuali guai, sei in errore”
Tua opinione, mi tengo la mia. La consapevolezza è un valore primario, guai o non guai.
“La leggerezza a cui alludo io non è quella della Minetti”
Certo, era una battuta. Ma se credi che un adolescente che vive tra tv e facebook abbia bisogno di consigli per interpretare con leggerezza la vita sentimentale, ti chiederei in che mondo vivi.
“Qualcuno che gioca a chi c’è la più lungo”
Non necessariamente è un maschio.
Te l’hanno spiegata l’invidia del pene?
Walter aspetto delle scuse. Non credo di essermi rivolta a te nei termini da te usati nei miei confronti e nei confronti di altre. Quanto all’invidia del pene, esperti psicologi confermano essere teoria ampiamente storicizzata.
Mi scuso per tutto quello che (non) ho scritto, visto che in quello che ho scritto qui sopra non vedo insulti. A meno che sia giudicata lesa maestà far dell’ironia su incongruenze e pretese non argomentate.
L’invidia del pene, quella si che è una sciocchezza ( altro che storicizzata) ma se non sbaglio sei tu che hai tirato fuori i genitali, giusto?
A proposito.
Vado a cercare castagne in Piemonte.
Ad maiora.
Per cortesia due. E non ci sarà un tre (nel senso che chiudo i commenti alla discussione se non si avvia su binari civili).
Loredana hai ragione. Per quanto mi riguarda la chiudo qui – leggo e basta.
Grazie per l’ospitalità.
Barbara, non voglio che tu legga e basta. Ma i commenti si sono avvitati sul commento di Valter. Che è uno degli aspetti con cui si può ragionare sul materno. Ma non l’unico. Ora, mi sembra che questo aspetto sia stato sviscerato, anche in toni molto accesi. Riusciamo a individuarne altri? 🙂
Loredana non c’era niente di polemico o di vagamente ricattatorio nel “leggo e basta” -) In tutta evidenza mi sono avvitata anche io, ergo meglio andare in pausa e vedere se qualcuno/a ha argomenti per ripartire dal topic. Scusa ma il mio mac non inserisce gli emoticons -)
Bene, ne butto sul piatto uno. Le classi. Perchè, chissà come, se ne parla pochino. Studiando per il libro, e guardando numeri e cronache, ancora una volta emerge un paese diviso, che non comunica e ignora. Nord: madri che possono permettersi di discutere su quale sarà il marsupio equoesolidale. Sud: percentuale di mortalità materna e neonatale enormemente superiore al Nord. E più silenzio.
@ Loredana,
una domanda, visto che stai facendo ricerche per il tuo libro.
Oltre a Nord-Sud, nei dati che hai rintracciato si può delineare una differenza città-centri più piccoli nei modi di vivere la paternità/maternità?
Nata, cresciuta, e a lungo vissuta a Roma, vivo ora in “provincia” e osservo delle differenze nei modi di vivere la maternità. Dove abito ora, in genere, si fanno figli presto, le mamme non lavorano o, se lavorano, hanno zie, mamme, persino nonne, in grado di occuparsi dei loro bambini.
Sono essenzialmente le donne a occuparsi dei bambini, e gli orari sono ben scanditi: mattina a fare la spesa, con passeggino, quattro chiacchiere sul corso con le amiche, a mezzogiorno pranzo in tavola per il marito (solitamente operaio), pomeriggio riposo fino alle quattro, altra passeggiata (in estate: in inverno è già buio), passaggio al bar per “avvisare” il marito (che dopo la giornata in fabbrica si ritrova con gli amici), cena.
Questa è, per le donne del paese in cui vivo, la “normalità”, quello che si è sempre fatto, e che loro continuano a fare…
I bambini vengono tirati su in maniera abbastanza “spiccia”, e sono abituati a stare in strada (clima e luce permettendo), e a risolvere da sé liti e conflitti. Ci sono le scuole materne, elementari, medie, ma per le superiori i ragazzi devono andare a qualche chilometro, prendendo il pullman la mattina presto.
Non ricordo quando la parola “classe” è andata lentamente svanendo dal lessico comune, sospetto in concomitanza con il peggioramento delle condizioni economiche generali. La parola classe fa paura non perché si tema un assalto a un palazzo d’inverno ma perché significa collocarsi in un ambito preciso sociale, economico e forse anche culturale. Le donne si impoveriscono più degli uomini, le madri più delle donne senza figli, le donne del sud più di quelle del nord. Tuttavia l’impoverimento – o la povertà sic et simpliciter – è rimossa. I due universi non comunicano e le reti, non solo quelle virtuali, paiono non essere più atte a mettere in relazioni i due universi. Vi ricordate la polemica scatenata perché negli aiuti per le famiglie povere c’erano i bonus per il latte artificiale? Ci fu un’alzata di scudi in nome dell’allattamento al seno. Di fatto alle donne povere veniva negata una scelta. Una madre povera non può permettersi di non allattare perché non ha soldi per il latte artificiale e se le diamo qualche spiccio anche per questo ci si arrabbia in nome del latte di mamma. Al di là del sacrosanto diritto di procreare per chiunque, qualunque sia la condizione in cui si trova, il denaro è ancora la chiave d’accesso. Se dovessi sintetizzare direi che questo paese è impossibile perché ci si occupa troppo di ciò che accade poco prima di venire al mondo e poco prima di andarsene, tralasciando tutto quanto avviene in mezzo.
@Danae. Stessa situazione. Ho vissuto a Roma fino a quarant’anni, non poco :-)) e ora vivo in provincia, in campagna. Oggi sono passata dai due bar della mia frazione: tutti uomini over 60 in uno, tutti uomini sui 30 anni nell’altro. A decine. Ti assicuro che faceva impressione: due generazioni, uguali. I più giovani stanno insieme, con tante ragazze, ancora non pensano alla famiglia….
Oggi è domenica. Qui lavorano parecchio le donne, fanno tanti lavori o lavoretti e parecchie hanno il ‘posto’, e poi si occupano di tutto il resto. Sono a casa quindi con figli, nipoti, anziani allettati, pranzi, lavatrici, ecc. L’unica arma nuova che adoperano le mogli e compagne dei trentenni è l’indifferenza: ‘curano’ meno, per mancanza di tempo. Se ne riparlerà spero.
Quoto Barbara, a proposito della classe. Non si vuole neanche sentire la parola, e quando si fa notare il privilegio di chi può permettersi di discettare sul naturale e artificiale la reazione è quasi di stupore.
Danae e Paola: anche io conosco bene la realtà dei piccoli paesi, che è estremamente diversa da quella metropolitana. Nelle statistiche, però, non vi si fa cenno. Peraltro, da una prima osservazione spuria, notavo che le madri blogger o coloro che partecipano molto attivamente alle discussioni in rete sul materno, moltissime sono del Nord-Nord Est. Nessun valore scientifico, solo osservazione, ma mi fa riflettere.
Più ti sposti verso la periferia del censo, più purtroppo ti confronti con problemi a fronte dei quali, le risorse sono assolutamente insufficienti. Il modello della mamma caruccia e messimpiegata che lei si compra kinder fetta al latte, che è responsabboli, con il ceto medio fa attrito, subito fuori dal ceto medio fa modello – ma fuori ancora, fa ride. Il grosso della messaggistica pubblicitaria spicciola inventa un modello per i palati della piccola borghesia, una specie di borghesia media immaginaria, a cui le mamme sono chiamate ad aderire ricattandole sui complessi di ceto. Io ho un’esperienza di vita simile a danae (che forse avevamo già scoperto in precedenza) e danae dimmi se dalle parti daa provincia tua non è come dalle parti della mia, dove il mulino bianco FA MAN BASSA, e si corre il rischio pure di vedere perduti certi saperi culinari gastronomici che secondo me sono fondamentali. Le mamme fanno le mamme con le torte cameo, e i surgelati e cavoli vari, mentre quelle medio alto borghesi comprano la verdura biologica e capace che sono campionesse mondiali di manicaretto.
Poi chi invece lavora nelle onlus o nelle cooperative sociali come molti psicoterapeuti giovani oggi fanno, si scontra con un mondo dove la maternità assume le tinte di problematicità delirante: i pannolini pampers??? La messa in piega? Le seghe su “cosa è meglio per il tuo bambino??” la fuori nelle case pagate dai servizi sociali, c’è un mondo senza rete, dove ci sono madri a cui si è cronicizzata l’incapacità di essere genitrici, che lanciano forbici a bimbi di due anni, che provocano mariti alcolisti facendosi picchiare davanti ai figli, onde poi poter far pace con loro, a cui ogni tanto, i figli glieli tolgono e insomma una ragione c’è. Almeno si evita che diventino malati gravi. E per quanto le cooperative e le onlus svolgano un lavoro titanico, l’intervento – mandare uno nella casa una volta a settimana per dire, o due – contiene un po’ ma non è che ribalti le situazioni. (Pure qui Loredana, pensando al libro tuo insomma ci sarebbe un mondo, ma probabilmente ci hai bello che già pensato).
Ci ho pensato, ma devo chiederti una mano, Zaub, per non rischiare di essere superficiale. E’ esattamente quello che emerge dagli studi che sto facendo ma anche dalla banale osservazione del mondo reale. Io vivo in periferia, e l’idea delle bambine mi è venuta quando i miei figli hanno cominciato a frequentare la materna, pubblica e non multilingue bla bla. E’ qui che impatti con una realtà molto diversa dal manicaretto, il mattoncino di legno, il giocattolo intelligente e le mamme dello stesso censo che possono permettersi di discutere sul modo migliore di.
la provincia è tutto un mondo da esplorare… devo dire che sto lì (sì, zauberei, è la tua stessa provincia “cimina” o giù di lì) da qualche anno e ancora mi rendo conto di non aver finito di osservare tutto. Da quello che vedo (e dalle offerte del supermercato del paese: altra ottima cartina di tornasole), mulino bianco fa man bassa, insieme a gran sleppe di pizza e/o kinder in tutte le salse, per un certo gruppo di mamme (in generale sono quelle del posto), mentre c’è tutta un’altra categoria, quelle che stanno lì per necessità/fuga-dalla-città, che fa yoga, mangia biologico (ma, per assurdo, al mercato la verdura che si vende arriva da Fondi), forse si è portata dalla città il marsupio equoesolidale.
Ma sono come due mondi impenetrabili, che invece dovrebbero parlarsi e conoscersi di più…
Danae, è che conoscersi significa mettere in crisi due modelli di maternità diversi (e se poi questi modelli riuscissimo una buona volta a farli esplodere, sarebbe almeno un punto di partenza).
@Loredana,
certamente, tanto più che i due modelli (che poi alla fine sono ben più di due) non riguardano solo la maternità, ma l’essere donna. Personalmente, mi rendo conto di mettere in crisi molte delle donne con cui parlo (che sognano di vivere in città e non capiscono come io possa desiderare di vivere in campagna) e me ne rendo conto perché io per prima sono continuamente messa in crisi dalle loro parole, dalle loro priorità, dai loro desideri.
Sarà una deformazione personale, ma ho l’impressione che si debba ripartire dall’alfabeto, dalle parole-base, per cominciare a intendersi sul serio: a volte, si usano le stesse parole, ma i significati sono completamente diversi
Sulla provincia posso aggiungere l’esperienza del piccolissimo paese della toscana dove vive mio nonno. Anche lì indigeni -) a colpi di torte cammeo e mulino bianco e quattro salti in padella (con enorme perdita di saperi manuali) ed endogeni – gran parte stranieri o gente in fuga dalla città che mangia biologico, segue corsi di yoga. Va detto, però, che essendo davvero un piccolissimo posto le due realtà sono costrette a incontrarsi, se non altro davanti alla scuola dei figli e in qualche modo, pur non interagendo molto, impattano.
Ho una questione per la Zauberei, se ha voglia: il mondo che descrivi e io in parte, parzialmente, conosco è definibile sottoproletariato urbano?
Posso rispondere per la parte che conosco? Non del tutto. Ho conosciuto situazioni simili, e non necessariamente erano sottoproletariato. In molti casi erano persone senza reti familiari, che provenivano da altre città, per esempio, e che avevano incontrato molta resistenza da parte di altri genitori a inserirsi nel gruppo scuola.
Danae, sì! Il problema è non far creare fazioni e branchi: sul materno è facilissimo che avvenga, purtroppo. Anzi, E’ il terreno su cui il branco femminile si forma. Ahinoi.
Grazie Loredana… noi storici corriamo grandi rischi di fraintendimento del mondo presente essendo molto allenati al mondo passato -) Perché, per me, classe e censo non sempre sono stati perfettamente sovrapponibili, ma ho la netta sensazione che questo sia cambiato e che il cambiamento sia irreversibile.
C’è un bel romanzo di Walter Siti, Il contagio, dove il mescolamento delle definizioni e dei comportamenti viene raccontato in modo impressionante…
Loredana un aiuto? Figurete sarei una pasqua. La questione in effetti è un complicato intreccio di concause. Quando vuoi ne parliamo approfonditamente.
Per la questione posta da Barbara. La situazione è composita. Molti sono problemi di una immigrazione mal gestita, e lasciata alla deriva, altri sono i problemi di minoranze come quella Rom molto problematica e che non riesce a inserirsi nel connettivo sociale. Poi c’è il crocevia del sottoproletariato urbano certo, quando la situazione di marginalità sociale e precarietà economica si incrocia con psicopatologie franche. Poi ci sono le tantissime situazioni di cui parla Loredana, la zona tipica credo di questo momento sociale, non proprio la catastrofe economica, ma sopravvivenza precaria, uno stipendio certo e l’altro no, rete zero, problemi pregressi irrisolti e amplificati e poi il botto.
Su quello che dice Danae concordo abbastanza. Io ho avuto la fortuna però, di inserirmi in un gruppo relativamente alternativo della macchia cimina, relativamente più aperto insomma, dimostrato ipso facto dal fatto che non hanno fatto molta fatica a prendermi per come sono, anche perchè il loro amico ora esistenzialmente fa la spola esistenziale tra quel mondo e quello. Delle aree intermedie ci sono, delle isole diciamo. Perchè il trend è quello.
Io sono d’accordo con Loredana, e a questo proposito vi suggerisco di leggervi “Nell’intimo delle madri” di Sophie Marinopoulus edizioni Feltrinelli.
In Italia che una donna scelga di essere madre e poi si trovi spesso”da sola ” a gestire tante cose che pesano e che possa per questo essere insofferente non è poi così raro. Non sempre per tutti la maternità (o paternità) è una scelta così chiara e sulle donne ricadono cliché del 2000 ancora quasi medioevali…..
per inciso, di sfuggita: ho visto il film di Comencini con delle amiche molto inclini alla risata, e non siamo riuscite a capire cosa avesse potuto far ridere i critici di Venezia.