Poco fa, arrivando in via Asiago, un trasportatore scaricava pacchi gridando all’altro: “Quando me moro nun me rimpiange nessuno”. Scherzava, certo. Eppure quel “non mi rimpiange nessuno”, unito alla fresca lettura dell’intervista di Ezio Mauro ad Adriana Faranda, mi ha fatto tornare in mente un ricordo seppellito nella memoria.
Era l’estate del 1992, mia figlia era nata da un mese e mezzo, uscita dall’ospedale da una quindicina di giorni. Una neonata prematura, sia pure sanissima, ti fa vivere in uno stato d’ansia perenne: non sai mai se fai la cosa giusta, non sai come interpretare un vagito, un movimento, un pianto. Non sai se sei in grado di prenderti cura di quella che ti appare come assoluta fragilità.
Così, in quel luglio caldissimo, mia figlia e io eravamo fuori dalla città, ritenendo che nelle campagne laziali l’aria sarebbe stata più pulita, e la vita di un piccolo paese più consona a una madre e una figlia che dovevano imparare a conoscersi. Finimmo a Torrita Tiberina, dove un amico aveva una casa che affacciava sul fiume, e che ci prestò. Non andò bene. Mio marito lavorava tutto il giorno, mia madre e mia suocera erano lontane, e io ero sola, e mi consumavo nell’impotenza e nella paura. Mia figlia piangeva sempre, di giorno e di notte, e io guardavo il fiume, coprendo la carrozzina con un tulle (le zanzare! gli insetti! le correnti d’aria!) cercando di ricordare chi ero stata, e come mai tutta la forza che ritenevo di avere, quella che mi aveva fatto affrontare una gravidanza ad alto rischio, quattro mesi di ospedale e un parto complicato, si fosse improvvisamente dissolta, trasformandomi in una cosa tremante, che sobbalzava a ogni spiffero e piangeva a ogni pianto.
C’era solo un rimedio per calmare mia figlia, ed erano le lunghe passeggiate con la carrozzina. Ma le signore del paese, le mamme sagge, quelle che c’erano già passate, le rendevano un tormento. Toccava fermarsi a ogni angolo, davanti a ogni negozio dove tentavo di comprare un po’ di frutta, un po’ di pane, per scostare la copertina e far vedere la neonata, e ascoltare, insofferente, quei com’è bella com’è piccola e quanto pesa e quanto mangia, che mi facevano sentire in colpa. Pesa poco, è prematura, mangia poco, non le piace il latte artificiale e io non ne ho, rispondevo, e loro annuivano con aria grave, come se se lo aspettassero. Poi c’erano gli altri bambini, già cresciuti e abbronzati e con le ginocchia sbucciate, che volevano anche loro toccare la neonata, e io ricordavo bene che il pediatra mi aveva raccomandato, con la faccia seria e inesorabile, di tenerla lontana dagli altri bambini, appunto, perché i prematuri sono delicati, e guai un raffreddore, e guai, dio ne scampi, la pertosse. Che sarebbe fa-ta-le, ribadiva il pediatra, perché allora il vaccino non era quello che c’è ora, e appunto per i prematuri non andava bene. Così io afferravo i fazzolettini detergenti e le pulivo le dita, che erano così piccole e rosee come l’interno delle conchiglie, ogni volta che incontravo un bambino. Un giorno, una delle madri sagge scovò un capello attorcigliato attorno alle dita: uno dei miei, ovviamente, perché Carlotta li afferrava quando la allattavo. “Streghe”, disse la madre saggia, e io mi sentii morire.
Finì che non volevo più uscire, perché le passeggiate che risultavano così benefiche per mia figlia erano una tortura per me, e non potevo certo tirare via davanti alle madri sagge, perché, anche se la mia permanenza nel paese era provvisoria, sapevo che avrebbero potuto rendermi la vita difficile. E quanto se la tira quella, e chi crede di essere. In effetti, avrei dovuto infischiarmene, e oggi so che me ne infischierei: ma era molto tempo fa, e io ero giovane e spaventata, e quasi quasi alle streghe credevo davvero.
Un giorno, però, imboccai una strada che sembrava portare fuori dal paese, un sentiero laterale, dove gli alberi facevano un’ombra gentile, e dove non incontravo nessuno. La strada portava al cimitero, e il cimitero aveva un viale che conduceva a una tomba chiusa da un cancello e da una vetrata, e dietro c’era il sarcofago di Aldo Moro. Non c’era mai nessuno, al cimitero, perché era luglio, e i mesi degli omaggi (marzo e maggio) erano già alle spalle, e c’era silenzio e si vedeva il panorama, proprio affacciandosi dalla tomba di Aldo Moro. Quella, infine, divenne la mia passeggiata quotidiana.
Ho richiamato alla mente, allora, il giorno in cui, seduta sulle scale del Comitato per i referendum del partito radicale, ho saputo che era stato rapito, e ho pensato “è finito tutto”? Sì, spesso. Mi sono chiesta cosa fosse quel tutto? Cullando mia figlia, molte volte. E mi sono risposta che quel “tutto” erano le illusioni di poter cambiare il mondo così come lo conoscevamo, perché dopo quel gesto nulla sarebbe stato più possibile. Non per i sognatori ventenni che eravamo, non, di contro, per gli altri che avevano ignorato le sue lettere e le sue richieste. Non sapevo, allora, che un giorno avrei scritto, in parte, di questa storia, che è e resta uno dei grovigli oscuri della nostra, e ignoravo anche che un filo di quel groviglio si era intrecciato con la storia della mia amica perduta, Graziella De Palo. Sapevo che davanti a quella tomba solitaria mia figlia riusciva a dormire e io a ritrovare, almeno un po’, il respiro di un tempo. Non ci ho mai più pensato. Né questa storia è rilevante per quella che viene rievocata in questi giorni. E’ affiorata dal passato, la racconto, fra poche ore sarà già perduta.
Grazie. Il ricordo della bimba, nata da poco, è dolce, anche se visse male i giorni di Torrita. Ma il mio grazie vale per le Sue parole sulla tomba di Moro. Il silenzio di allora e di oggi. E, per Lei, il silenzio della bimba. Questo davvero vicino.
Grazie di cuore.