“Forse tutta quest’igiene di non sperare è un po’ ridicola. Non sperare dalla vita, per non rischiarla; considerarsi morto, per non morire. A un tratto tutto questo mi è sembrato un letargo spaventoso, allarmante”.
Adolfo Bioy Casares pubblica L’invenzione di Morel nel 1940, e il “romanzo perfetto”, come lo definì Borges, anticipa molto di quel che siamo: ma non solo perché la macchina misteriosa di Morel sembra presagire l’intelligenza artificiale, ma per come il Fuggitivo, o Naufrago che dir si voglia, osserva nell’isola in cui è rifugiato la ripetizione delle azioni dei turisti che spia, perché le loro anime sono prigioniere. E altro non dico, se non questa seconda frase del romanzo:
“Le immagini mi spaventano, ma mi proteggono […] A chi servirà? A noi stessi, forse torneremo a vedere gli anni felici. Credevamo che la felicità di quegli anni potesse durare per sempre, invece tutto sta per finire. Tutto quello che è intorno è cambiato”.
Quando non si è analisti politici, sociologi, osservatori professionisti, ci si rivolge alla letteratura, ovvero a quel che si sa e si conosce: cercando conforto e a volte precognizioni che ci aiutino a leggere il presente. Un presente che appare piuttosto spaventoso: non solo nei fatti, ma nell’attenzione sviata sui fatti stessi. Si paragonino le reazioni social (perché qui ormai ci esprimiamo) ai primi terrificanti decreti di Donald Trump con la valanga di elzeviri, commenti, meme sul gesto di Elon Musk e se ne avrà contezza.
La letteratura del secolo scorso ha spesso presagito, o immaginato, o colto, l’immobilità. Lo fa Casares, lo ha fatto Bradbury in Fahrenheit 451:
“Loro crederanno di pensare, avranno l’impressione del movimento anche se non si muovono affatto. E tutti saranno felici perché i fatti di quel genere non cambiano. Non dargli armi sdrucciolevoli come filosofia, sociologia o altri strumenti per collegare le cose, perché è là che si annida la malinconia. Chiunque sappia smontare una parete TV e ricostruirla, cosa che oggi la maggior parte degli uomini sa fare, è più felice di chi cerca di calcolare e risolvere l’universo, che naturalmente rifiuta di farsi calcolare e risolvere senza aver prima trasformato l’uomo in una belva disadattata”.
A parte la felicità, è esattamente quello che sta avvenendo. Crederanno di muoversi, staranno fermi. Le immagini spaventano e proteggono. Pur non essendo una persona particolarmente altruista (mi considero nella media, almeno), continuo a pensare a questa riduzione all’io che ha contagiato ogni aspetto delle nostre vite: la politica, la letteratura, persino la maternità.
Mi fanno sorridere coloro che oggi pontificano sulla mancanza di narrazione convincente da parte della sinistra, pur essendo state o stati esponenti istituzionali di quella sinistra prima che venisse comodo spostarsi a destra: sorrido perché è vero che la narrazione manca, perché è stato detto e ridetto da anni, perché quando si è provato a parlare di reincanto nella maggior parte dei casi si è incontrata indifferenza. La quale non è frutto di malvagità, intendiamoci: ma del contrario dell’incantamento, la disillusione. Se non si crede nel futuro comune, ci si concentra su se stessi, e vada come vada, e cosa importa se Trump prova a riportare il mondo all’indietro in ogni settore, e cosa importa quel che avverrà alle donne, alle persone trans, ai migranti, purché non tocchi la singola vita di chi, in fondo, in un mondo complicato stava benissimo e poteva anche tirare una pacca sul sedere a una donna senza terrore (punto di vista, questo, molto più diffuso di quanto si creda).
Nei lontanissimi anni Ottanta tutto questo si definiva NIMBY, Not In My Back Yard, “Non nel mio cortile”: anche se un’opera è di interesse pubblico fatela, ma lontano da casa mia. Oggi ci vediamo sfilare davanti le ingiustizie peggiori, ma finché non ci toccano non fa niente, andiamo avanti, un bel respiro.
Vale per la letteratura, ma certo: e non solo per il noto incremento delle opere non necessariamente autobiografiche, ma centrate sulla storia di famiglia, sugli avi, su se stessi infine. Ma anche per il disinteresse nei confronti dei meccanismi editoriali che si stanno facendo sempre più soffocanti. Cosa importa se si rischia di crollare ma il mio libro è salvo? Che poi, salvo è una parola grossa, come si sa.
Vale, dicevo, per la maternità. Giulia Blasi ha scritto un testo accorato e interessante sulla sua newsletter, che vi consiglio di leggere, e riguarda la fascinazione che molte femministe passate alla destra (o comunque molto affezionate al potere) esercitano sulle madri e sull’idea della maternità come esperienza mistica che sta di nuovo emergendo. Non c’è giudizio, intendiamoci: è un fatto su cui pensare, perché quando ci si sente soli si ha bisogno di immaginarsi parte di un gruppo. Ma quel gruppo, quella comunità, nei fatti non c’è. E’ un’illusione, come accade sull’isola di Morel. Che può piacere, ci può persino dare felicità: ma non salva nessuno, purtroppo.