APOCALYPSE NOW

Ogni tanto – ma solo ogni tanto – la vostra eccetera fa la persona seria. Sul quotidiano di oggi, per esempio, intervista Massimo Cacciari che, il 19 giugno, aprirà il Ravenna Festival, tutto dedicato al tema dell’Apocalisse. Vi posto l’integrale della chiacchierata.

Cos’è, e soprattutto quando
è, dunque, l’Apocalisse?
Ritengo che l’Apocalisse di
Giovanni non riguardi un mitico tempo futuro, ma esprima quel che si chiama
“escatologia realizzata”. Il Cristo è venuto. Il tempo è pieno. E’ compiuto. Il
timbro fondamentale dell’opera è questo: la storia si dispiega tutta di fronte
a noi. La visione abbraccia il tempo e lo compie. Se io vedo la cosa, la cosa
stessa si presenta, compiuta, nel mio sguardo. Il vero significato
dell’Apocalisse non si identifica con la profezia su qualcosa che deve ancora
giungere, deve ancora essere, deve ancora compiersi. La venuta del Figlio
dell’Uomo è stata, è, continua ad essere. La presenza di Cristo è fino alla fine del mondo.

Quindi
non si può interpretare il testo di Giovanni come quelli che, in altre culture,
prospettavano  l’idea di una fine: peraltro
una fine auspicabile, affinché dalle ceneri del vecchio mondo ne nascesse uno
nuovo?

Noi tendiamo a congiungere il tema
dell’apocalisse con un’idea di futuro imprevedibile, e che dunque temiamo. Ma
il timbro dell’imprevedibilità non è il timbro dell’Apocalisse giovannea. Né
potrebbe esserlo. Sia Marco che Giovanni attribuiscono la stessa frase a
Cristo: Io sono. Non è possibile
conciliare queste parole con l’idea di una fine del mondo, temuta, prevista e
possibile.

Soffermiamoci
sul timore. Mi sembra che la cultura contemporanea, in particolare, tema
fortemente la fine. Mi sembra addirittura che la escluda, e che per questo
tenda a rimuovere anche l’idea di morte.

La nostra cultura teme costantemente l’apocalisse
così come teme la morte. E proprio questo timore la porta a non pensare affatto
la fine. A dire il vero, la nostra è una cultura che pensa poco: sarebbe meglio
dire che non presuppone la fine, in favore di un progresso-processo indefinito.
La filosofia implicita alla scienza è esattamente questa: un progresso
infinito. La fine del mondo e la fine del tempo non sono presupposte nelle
filosofie implicite alla contemporaneità.Le temiamo perché non possiamo pensarle.

Però la
nostra cultura non si preoccupa neanche delle proprie origini: insomma, è come
se il mondo contemporaneo facesse a meno dei grandi miti che hanno accompagnato
le civiltà. Com’è stato l’inizio. Come sarà la fine.

Infatti. Per parafrasare Dante, ci infuturiamo costantemente: siamo futuri.
Il nostro essere presente è il presupposto del futuro, il nostro essere passato
ci interessa solo come chiave museale, o come precedente-antecedente del nostro
essere presente.

Non
riusciamo a concepirla neanche come fine rimandata? Mi viene in mente quello
che scrisse Franz Kafka: il giorno del Giudizio tutti aspetteranno il Messia:
che però sarà in ritardo e arriverà probabilmente il giorno dopo…

Quella è una storiella yiddish che Kafka ha ripreso.
Tipica dell’ebraismo: l’ attesa del Messia che non viene. Il tempo ebraico è metafisicamente diverso dal tempo cristiano,
che presuppone il tempo compiuto. Fra le due concezioni c’è un abisso
incolmabile.

A proposito di
tempo. Ma se l’Apocalisse è presente,
significa che la storia finisce? Come molti pensatori, anche contemporanei,
hanno sostenuto?

La fine del senso della storia, se pensata con rigore,
significa non che la storia finisce nel senso del progresso-processo
indefinito. Vuol dire, semmai, che il senso della storia si riduce a quel progresso-processo indefinito. Anche Hegel parla
di fine della storia, intendendo che il processo continua sulla base di
principi e valori che ora possiamo definire in modo compiuto. Il
progresso-processo continuerà, dunque, sulla base di ciò che oggi vediamo
vigere e valere. Per esempio, se il  principio oggi dominante è quello della
razionalità tecnico-scientifica, significa che tutto quel che avverrà si
fonderà su questo principio. Possono esserci riservati tutti gli accadimenti
che vogliamo: ma si verificheranno su tutti sullo stesso valore che ha condotto
all’egemonia planetaria della nostra civiltà. Questa idea di fine storia non
comporta, però, la fine di conflitti e contraddizioni. Non comporta l’idea che,
con la  fine del tempo, raggiungeremo
quella che nel Medioevo veniva chiamata la  pax
profunda
. Tutti i conflitti e le contraddizioni resteranno: ma si
verificheranno sulla base dei principi fondamentali di razionalità tipici
dell’Occidente. Quanto a me, io vedo il significato della storia
compiuta nella discesa della Gerusalemme celeste, non nella creazione di una Gerusalemme
da parte dell’uomo, sulla terra. Questa, almeno, è la visione Apocalittica.

E cosa può dire, ad
un laico, la visione Apocalittica?

Che dobbiamo essere sempre preparati. In ogni istante è il
tempo ultimo, e la nostra vita deve essere costantemente di fronte ad esso. In
questo senso, il tempo è sempre compiuto, e in ogni momento dobbiamo
responsabilmente render conto di noi. Essere pronti, perché il Signore viene
come la morte, come un ladro di notte.

9 pensieri su “APOCALYPSE NOW

  1. Sul blog ho messo un po’ come la penso. Qui la metto in forma di domanda: primo rigo: Cristo è venuto. Ultimo rigo: il Signore viene. Come stanno insieme queste due cose?

  2. Ah, sì, nella grotta di Apocalisse a pochi Km da Chora, immagino, dove, secondo la tradizione, San Giovanni il Teologo avrebbe scritto i soggetti cinematografici per Bergman (‘Il settimo sigillo’ e via discorrendo)…

  3. “il vecchio l’afferrò per la pettorina della tuta e lo tirò contro il fianco della bara fissandolo astiosamente nel viso smunto.-il mondo è stato creato per i morti.Pensa a quanti morti ci sono,-disse;poi,come se avesse trovato una risposta a tutti gli insulti del mondo soggiunse:-ci sono un milione di volte più morti che vivi,e i morti restano morti milioni di anni più di quanto i vivi restino vivi-.E lo lasciò andare,con una risata.”
    Flannery O’connor – il cielo è dei violenti
    (ce facimmo dù spaghi?)

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