Proviamo a metter giù un tassello per un discorso scomodo. Ovvero, il passaggio che nei decenni ha portato dalla liberazione (della sessualità, dagli stereotipi, dai pregiudizi) alla protezione: occorre essere, ovvero, protetti da immagini e parole che possono ferirmi/influenzarmi/definirmi.
Ho la sensazione che in questo momento camminiamo con la necessità di schivare almeno tre pericoli che non sempre vediamo: il primo è ancora là, da anni e anni, e riguarda la disparità di sguardo (e da qui: di stipendio, di trattamento lavorativo, di riconoscimento di autorevolezza, e tutto quello che ci siam detti e ci diciamo da parecchio) sulle donne. Che c’è, sta là, cambia sì ma lentamente, nell’immaginario e non solo nell’immaginario. Il secondo è quasi invisibile: perché la differenza tra liberazione e protezione non è sempre chiara.
Molti anni fa, all’inizio degli Zero, Ariel Levy provò a porre la questione nel suo saggio sulla Raunch culture (Female Chauvinist Pigs: Woman and the Rise of Raunch Culture): che non era propriamente una faccenda liberatoria, perché l’adesione a un’estetica apparentemente iper-erotica non significava sciogliersi dai lacci e laccioli della brava ragazza ma aderire a un modello economico:
“E’ così che funziona il Sistema. Questi sono i nostri modelli di riferimento. E’ così che funzionano l’alta moda e la bassa cultura, l‘atletica e la politica, la televisione, la pubblicità, la musica pop e la medicina, e, tenetevi forte, entrarne a far parte ti rende una donna forte, ti dà potere. Siccome abbiamo stabilito che le donne emancipate devono proporsi pubblicamente e dichiaratamente come oggetto di desiderio, e siccome l’unico segno di desiderabilità che siamo in grado di riconoscere è un’esplicita allusione agli spettacoli a luci rosse, abbiamo convertito tutta la nostra cultura alla squallida estetica di un Penthouse, di uno strip-club”.
Allora, nel pendolo oscillante fra volgarità e neopuritanesimo, sembrava essersi persa ogni traccia del concetto di individuo giudicabile per la propria storia e non per la propria appartenenza sessuale. Scrisse il filosofo Mario Perniola sul numero 12 di Agalma:
“Con la Raunch Culture si assiste alla resa incondizionata del femminismo all’ideologia del consumismo neo-liberale e alla mercificazione completa dell’immagine del corpo, secondo i dettami di ciò che i francesi chiamano la pornoisation pubblicitaria. Ovviamente il contraltare di tutto ciò e la proposta di punire legalmente come sexual harassment ogni manifestazione di galanteria.”
Beh, a parte il fatto che Perniola non è più fra noi, aveva visto lontano. E non voglio in ogni caso aprire qui discorso alcuno su quella che Perniola chiamava galanteria. Voglio solo evidenziare la contraddizione, voglio solo, di nuovo e probabilmente inutilmente, insistere sul pericolo di una dicotomia che rischia di far perdere di vista la strada. E dove ci dovrebbe portare, questa benedetta strada?
Lontano dal terzo pericolo, più volte sottolineato: la dicotomia stessa, e dunque la semplificazione. E dunque l’autovittimizzazione, che continuo a ritenere un rischio (ancora una volta cito il fumetto di Zerocalcare sulla cancel culture: che no, non esiste, ma esiste il pericolo del paradigma vittimario: leggetelo, è perfetto).
E allora? E allora è necessario guardare, pensare, prendere appunti, dubitare delle verità facili e comode, dei pamphlet (quasi sempre, almeno), del femminismo che tira editorialmente (e poi, però?). I meccanismi in cui ci muoviamo sono molto più sofisticati e complessi e meno visibili rispetto a sedici anni fa, quando ho provato a raccontarli in Ancora dalla parte delle bambine. Soprattutto per quel che riguarda, scusate se insisto, il mercato. La re-genderization, il ritorno ai generi, in atto, dalla metà degli anni Novanta, nella produzione e diffusione di giocattoli, programmi televisivi, libri, film, cartoni. Laddove la parola ritorno non sancisce semplicemente una differenza, ma determina, ancora una volta e a dispetto delle apparenze, la premessa di una subordinazione. Stavolta con un rischio doppio: quello di credere che una battaglia è vinta nel momento in cui è molto vendibile.
Io ho sempre tenuta cara, dentro di me, la frase conclusiva de Il secondo sesso di Simone De Beauvoir: “La disputa continuerà finché gli uomini e le donne non si riconosceranno come simili”. La sensazione è che, ad oggi, la disputa continui, e si stia anzi nuovamente acutizzando, perché quel riconoscimento- di similitudine, non di identificazione- non è ancora avvenuto. Nonostante si sia convinte dell’esatto contrario.
Grazie per la chiarezza e il porre questioni aperte e non false alternative.
Su Seize The Time me la sono presa con il libro di Elisa Cuter Ripartire dal Desiderio anche per questo.
https://www.seizethetime.it/recensioni-oneste-perche-ripartire-dal-desiderio-non-dovrebbe-essere-un-libro/
La domanda è proprio “E poi però?”
Lo stesso Me-too è ambiguo. Porta con sè consistenti tracce di sessuofobia e di vittimizzazione, e rischia di portare verso richieste di controllo sessuale totalmente inaccettabili . L’oggettiva alleanza fra femminismo ptotettivo e istanze reazionarie di controllo e segregazione dovrebbe perlomeno aprirci gli occhi sui possibili esiti della vittimizzazione: autobus separati oggi, piscine e spiagge separate (al riparo da sguardi lubrichi) domani, e magari anche classi scolastiche (tutti quei maschi che sbirciano nele scollature), e perché no, cinema e teatri, e le strade, che fare delle strade, dove ci si mescol a spudoratamente e volano gli sguardi….La richiesta coerente andrà nella direzione di una maggiore modestia nel vestirsi (un bel velo ad esempio risolverebbe un sacco di situazioni, no?), e magari richiesta di spazi separati, per essere più a proprio agio. Praticamente, l’Arabia Saudita.. Femminismo significa autonomia e forza, e comporta anche libertà sessuale. Libertà e piacere di stare coi maschi su un piano di totale uguaglianza. Quando si va verso la richiesta di protezione e di separazione, si esce dalla libertà femminista e si entra nella segregazione da patriarcato.