BROLLI: "L'INDUSTRIA DEGLI AMICI"

D’accordo, ce l’ho fatta! Ad arrivare ai/dai rispetti
aeroporti di Roma e di Torino senza taxi, intendo: nella fedele mansardina del
fedele alberghetto sabaudo trovo in posta elettronica la fedele rubrica di Daniele
Brolli
per Pulp (I ritratti dell’editoria, naturalmente). Come non
postarvi il secondo dei tre capitoletti? Continuate a stare bene.

Il “Giornale” del 19 maggio ha ripreso e dato ampio spazio
ai commenti a una polemica lanciata da Ermanno Paccagnini su “Vita e Pensiero”
(rivista dell’Università Cattolica di Milano). Paccagnini, che collabora come
critico letterario al “Corriere della sera”, si chiedeva “se mai c’è stato un
tempo in cui la cultura albergasse nei quotidiani”.

Nel suo articolo “Noi condannati a leggere Il Codice da Vinci” Caterina Soffici
cerca di rispondere all’invocazione di Paccagnini: “Dal suo punto di vista, di
professore universitario di letteratura e critico, Paccagnini ha perfettamente
ragione. Ma vediamo la questione da un ‘altro’ punto di vista, quello di chi
esercita un ‘altro’ mestiere, e per l’appunto il giornalista. Il giornalista
culturale si occupa di argomenti non transeunti come l’arte e la letteratura,
la filosofia, la poesia, la storia del pensiero e delle religioni, ma lo fa in
maniera transeunte. Se pur non è vincolato dall’impellenza della cronaca, anche
il giornalista culturale, come tutti i giornalisti, ha un padrone assoluto che
è ‘la notizia’. E per notizia non si intende soltanto la morte del tale
scrittore o la proclamazione del vincitore del premio Nobel della Letteratura o
il presunto scoop. Anche l’uscita di un libro, il vernissage di una mostra, un
importante convegno, quella che in sostanza è l’attualità culturale, sono
notizie. Da non confondere con quelle che Beppe Benvenuto definisce
‘notiziabili’, cioè quelli creati ad arte dagli uffici stampa, le ‘notizie’
inventate a tavolino, i falsi ‘casi letterari’ e via dicendo”.

Vista così l’analisi ha presupposti Ma questi discorsi
diventano un’astrazione quando, come nel caso di Caterina Soffici, si citano
una serie di editori “minori” definendoli “bravi, che fanno un ottimo lavoro
nella proposta di voci interessanti e promettenti. I giornalisti culturali più
attenti lo sanno e li seguono con attenzione”.

Be’, i giornalisti più attenti sanno anche che alcuni
degli editori citati (vi risparmio l’elenco) si fanno pagare dagli autori per
essere pubblicati, stampano dei romanzi che ambirebbero a essere best-seller
come Dan Brown ma che sono degli autentici libri di merda, stampano traduzioni
in cui l’italiano è una lingua ipotetica, succhiano via agli autori i diritti
per rivenderseli per proprio conto… Credo che un giornalista culturale debba
sapere anche tutte queste cose, che non debba bastare la simpatia di un ufficio
stampa o dell’editore in proprio a non fargliele riconoscere.

Altrimenti bisogna sospettare che questo mondo viva
sostanzialmente sulla malafede, anche se su diversi tipi di malafede…

interessanti. E sarebbe anche complementare a quanto
scritto nella prima parte di questa rubrica. Paccagnini propone di lasciar
perdere i best-seller che, sembra di capire, considera scritti male e poco
interessanti per definizione, scegliendo accuratamente di cosa parlare. Ma
giustamente, come fa notare Caterina Soffici, è il modo in cui si parla delle
cose a essere determinante in sede di lettura. E lo fa in conclusione facendo
il bell’esempio della poetessa premio Nobel per la letteratura Wislawa
Szymborska: “la quale incuriosita dal divario tra l’attenzione dedicata ai
libri ‘nobili’ destinati però a rimanere sugli scaffali delle librerie e il
successo di vendite di manuali per la cura dei cani, dispense di giardinaggio,
resoconti di viaggi, biografie, sunti storici, atlanti geografici e via
dicendo, decise di parlare proprio di questi, confezionando per anni articoli
bellissimi, raccolti da Adelphi in un volume, Letture facoltative”.

Ma questi discorsi diventano un’astrazione quando, come
nel caso di Caterina Soffici, si citano una serie di editori “minori”
definendoli “bravi, che fanno un ottimo lavoro nella proposta di voci
interessanti e promettenti. I giornalisti culturali più attenti lo sanno e li
seguono con attenzione”.

Be’, i giornalisti più attenti sanno anche che alcuni
degli editori citati (vi risparmio l’elenco) si fanno pagare dagli autori per
essere pubblicati, stampano dei romanzi che ambirebbero a essere best-seller
come Dan Brown ma che sono degli autentici libri di merda, stampano traduzioni
in cui l’italiano è una lingua ipotetica, succhiano via agli autori i diritti
per rivenderseli per proprio conto… Credo che un giornalista culturale debba
sapere anche tutte queste cose, che non debba bastare la simpatia di un ufficio
stampa o dell’editore in proprio a non fargliele riconoscere.

Altrimenti bisogna sospettare che questo mondo viva
sostanzialmente sulla malafede, anche se su diversi tipi di malafede…

5 pensieri su “BROLLI: "L'INDUSTRIA DEGLI AMICI"

  1. Più facile che incontri per strada un dinosauro fuggito da Jurassic Park che non un giornalista per giunta con su scritto in fronte “culturale”.

  2. Quando ha risposto la Soffici a Paccagnini?
    … gli uffici stampa non devono essere simpatici. Non è quello il loro ruolo. O almeno non solo. Sono il braccio che allunga il cammino di un libro. I giornalisti, che sono lettori come tanti altri, esercitano il proprio diritto soggettivo alla lettura. Solo così rimangono eticamente integri.
    Per chi non lo fa… pazienza. Non ho mai pensato che questo fosse un mondo giusto…

  3. Ehi Loredana,
    grazie per l’interessante post. Come sempre Brolli è senza peli sulla lingua e stigmatizza un problema piuttosto annoso: quello appunto delle pubblicazioni a pagamento (o con contributo) a carico dell’editore. Io ho sempre pensato che un editore che chiede soldi all’autore non sia un editore vero (tale, a mio avviso, è colui che si carica sulle spalle il cosiddetto “rischio d’impresa”), così come l’autore che è disposto a pagare – e paga – un editore per farsi pubblicare, in un certo, senso si “marchia” negativamente. Per quanto concerne la questione degli autentici libri di merda c’è da dire, però, che essi provengono anche dagli editori grossi e medi (e non mi riferisco ai libri di Dan Brown). E ritengo pure che, in riferimento alla valutazione di un libro, difficilmente possa predisporsi un indice di merdosità assolutamente oggettivo. E comunque… viva la sana schiettezza di Brolli!
    Tu che ne dici, Loredana?

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