CHIACCHIERE

La vostra eccetera, ieri, ha fatto due cose (fra le altre). Ha risposto, dopo un ritardo riprovevole, alle domande di Franz Krauspenhaar. E si è immersa in una lunghissima chiacchierata con Rosa Matteucci,uscendone incantata quanto turbata. La chiacchiera, invero, era finalizzata ad un’intervista, per lo stesso magazine sul quale ho incontrato Francesco Piccolo e Sandro Veronesi. Di quest’ultima conversazione riporto ora il testo integrale.
(Cosa faccio oggi? Leggo cose, non vedo gente, accarezzo un’idea balzana)

C’erano una volta i bambini cattivi: ci sono
ancora, naturalmente, ma si annidano, secondo gli esperti, nei filmati di You
Tube, nei forum, su Msn, negli schermi dei videofonini.  Secondo l’immagine che ci viene proposta
insistentemente, il loro pane quotidiano è la violenza, i loro sogni si
identificano con piccole ambizioni televisive, le loro emozioni sono state
azzerate dalla tecnologia.
L’impressione è che le cose non stiano
così: e che l’antico fraintendimento di McLuhan affoghi il mezzo e il contenuto,
insieme, nelle medesime acque fredde
della paura. Ma anche se volessimo credere al ritratto apocalittico fornito in
questi mesi dai media a proposito dell’infanzia e della preadolescenza,
dovremmo comunque fare una considerazione: un tempo i bambini cattivi venivano
osservati, compresi e raccontati soprattutto dagli scrittori.

“Mark Twain – ricordava molti anni fa una
scrittrice per ragazzi, Francesca Lazzarato –  scrisse stupendi racconti per ridicolizzare i
libri della scuola domenicale, che dovevano avere la morale edificante. Nella
storia del bambino buono, il protagonista sa che la virtù verrà ricompensata e
interviene a redarguire un monello che ruba le mele, ma finirà male, morendo di
polmonite nel tentativo di salvare un bambino che non voleva essere aiutato.
Invece il bambino cattivo ne fa di tutti i colori, ma poi diventa un malfattore
stimato e ricchissimo”.

Un tempo, dunque, c’era Tom Saywer. C’erano
Pinocchio, Lucignolo, Giamburrasca. E quella meravigliosa anarchica che fu Pippi
Calzelunghe. Oggi, nonostante l’esperienza felicemente scorretta di Roald Dahl,
i protagonisti dei libri per ragazzi esibiscono virtù magiche più che istinti
ribelli. E nei romanzi destinati agli adulti i bambini sono troppo spesso un
pretesto per raccontare la crisi dei grandi. Con eccezioni.

Per esempio e fortunatamente, c’è uno
scrittore come Sandro Veronesi, premio Strega 2006 per Caos calmo, che torna ad osservare l’infanzia scomoda. Lo fa nel
suo ultimo libro, Brucia Troia,
(Bompiani, pagg. 224, euro 16,00, titolo tratto dalla celebre canzone di
Vinicio Capossela), dove racconta la storia di un brefotrofio di provincia e di
un dodicenne che fugge, negli anni Cinquanta, e si rifugia da Omero, un anziano
ricettatore ormai – non casualmente – cieco. Salvatore cresce e diventa un
giovane criminale incendiario, a sua volta maestro del piccolo Pampa.

Siamo ormai negli anni Settanta: è estate, e nella serata di Italia-Germania, quella
che entrerà  nella storia del costume,
oltre che di quella calcistica, la loro
sorte si compie. E, contemporaneamente, l’Italia comincia a diventare qualcosa
di diverso, dove i bambini sbagliati sono destinati a suscitare paura, più che
pietà. Argomento duro, difficile: e che Sandro Veronesi ha iniziato ad
affrontare in tempi lontani. La prima stesura di Brucia Troia, infatti, è degli anni Ottanta.

“Il primo
manoscritto – racconta Veronesi – , risalente appunto a vent’anni fa, pur con
parole d’incoraggiamento per il mio futuro letterario, mi fu bocciato. Da
allora, dopo aver finito un romanzo, mi rimettevo a lavorarci, pensando di
eliminare le debolezze che gli erano costate la bocciatura. Ma poi m’innamoravo
di una nuova idea, lo lasciavo lì e scrivevo un libro nuovo, da capo. Così, il manoscritto cambiava, via via, si
perfezionava, ma quella prima bocciatura
continuava a pesare, perché evidentemente mi aveva fatto soffrire: e continuavo
a lasciarlo incompiuto. Questa volta, però, ho deciso di andare in fondo, e mi sono preso un anno per finire
il lavoro e pubblicarlo. Anche perché, a questo punto, la diversità e la
lontananza da Caos calmo mi sono
parse veramente straordinarie. Un’occasione da non lasciarsi scappare.

Da Brucia Troia ho ricavato un’idea di
infanzia come non ne leggevo più da tempo. Ovvero: in letteratura ci sono
sempre stati meravigliosi bambini "ai margini", che restituivano
un’idea di libertà, che erano stati
concepiti appositamente per trasgredire le regole. Ma erano
spariti, negli ultimi anni. Perché li hai recuperati?

Evidentemente quei bambini/ragazzini selvaggi (orfani, ribelli,
"liberi", appunto), letterari, sì, ma anche reali e visibili perfino
a scuola, in classe, devono essere stati il mio primo vero incontro con
l’alterità, con l’altro da me. Che ne
leggessi sui libri (Hukcleberry Finn, Oliver
Twist
e tanti altri), o che li
vedessi con i miei occhi durante la mia infanzia, ne ero allo stesso tempo
affascinato e terrorizzato. Con loro mi devo esser posto per la prima volta la
famosa domanda che apre uno spiraglio alla compassione: "Perché io sono io
e non sono loro?". E allora la prima stesura di questo romanzo, magari anche lacunosa e meritevole di bocciatura, è stata la
risposta giusta da dare a quella domanda: "Io sono loro".

Approfitto per chiederti
un paio di cose sull’infanzia. Il tuo Salvatore, il tuo Pampa, sono bambini
scorretti che assumono la forza e il valore di eroi epici. Quella che tu nel
romanzo chiami "la prassi" tende invece, ormai da diverso tempo, ad
inseguire l’immagine inesistente di un bambino perfetto, concepito e allevato
nel sogno di una felicità adulta. Come
te lo spieghi?

Credo che
la ricchezza, il denaro, siano la catena più vincolante che si possa stringere
addosso a un bambino. I bambini sono poveri, tutti, poiché non hanno
disponibilità di denaro, né autonomia di decisione, e sono sempre guardati a
vista, anche se appartengono a famiglie ricche. Però la ricchezza delle famiglie, e l’educazione che ne deriva,
fa credere ai bambini di non essere
nullatenenti, di avere qualcosa da perdere. Questo finisce per "normalizzare"
il loro comportamento: che però, concordo, è normale solo dal punto di vista
degli adulti, e in un certo senso, forza la loro natura di esseri selvaggi,
pericolosi, estranei alla sfera della civiltà.


Leggendo, mi sono chiesta come verrebbero descritti, in una
cronaca giornalistica di oggi, Salvatore e Pampa. Probabilmente sarebbero stati
inseriti- maldestramente – in qualche inchiesta sul bullismo. Mi sono chiesta anche,
pensando alla sacra follia di padre Spartaco, che gestisce il brefotrofio, quali
sarebbero state le reazioni dei molti
esperti televisivi in fatto di infanzia minacciata. Insomma: nel tuo romanzo
manca – per fortuna – un ingrediente fondamentale dei nostri anni: l’allarme
nei confronti dei bambini. E’ un caso?

Come dicevo prima, l’esser diventato, scrivendone, quei bambini, o quel prete,
ha liberato una forma di compassione molto profonda per loro, compassione
intesa in senso radicale, etimologico. Una volta nei loro panni, la
drammaticità del loro destino non risiedeva certo nell’allarme sociale (degrado, violenza, fanatismo ecc.), bensì nel fatto che si trovassero a viverlo
proprio sulla soglia di quel mutamento epocale che la ricchezza, anzi
l’arricchimento ha inflitto alla forma mentale di tutta la società occidentale. Pinocchio, per esempio, non
viveva quel dramma: il mondo non gli stava cambiando sotto i piedi, non lo stava trasformando in un "borderline",
o in un bambino violato, o in un bullo. Salvatore e il Pampa, invece, sì.

Divago appena un po’: come
padre di tre figli, riesci a non farti contagiare dalla paura?

E’ il mio
sforzo più grande. Ogni mattina mi alzo e comincio a lottare contro l’idea
stessa di avere paura. No. La paura ci paralizzerebbe. Io non la provo.

In un certo senso, Brucia Troia è un romanzo anti-moderno:
non solo perché si svolge trent’anni fa, ma perché si svolge in un tempo che sembra
ormai arcaico. Cosa abbiamo perso, di quel tempo, che valeva la pena
conservare?

Io non
credo che si potesse scegliere, nell’atto del cambiamento, cosa conservare e cosa buttare. Credo che si
potesse solo lottare per il cambiamento o contro il cambiamento. Pasolini, Don
Milani, i grandi moralisti, hanno
lottato contro, tout court. Questo aveva un senso. Ma non si poteva
"sfilettare" quella rivoluzione. Ora, magari, si potrebbe, con un po’ di buon senso, recuperare ciò che allora
è bruciato insieme a Troia, e ci farebbe un gran comodo: l’attenzione a evitare
gli sprechi, certe differenze d’identità
cancellate dall’omologazione e, appunto, il coraggio di vivere il proprio
destino senza doversi necessariamente sentire salvaguardati da qualche norma di legge – che poi, come ben sappiamo, il
più delle volte rimane lettera morta.

Quando l’incendio di Troia
è finito, coloro che l’avevano appiccato hanno cominciato il loro viaggio di
ritorno verso casa. I nostòi erano i
poemi del ritorno, scritti in maggioranza da anonimi poeti. Se qualcuno dei
tuoi personaggi dovesse compierlo, questo viaggio, dove andrebbe? E come
sarebbe la sua storia?

Più che
dei possibili "poemi di ritorno", io mi sono chiesto chi potrebbe essere
l’Enea di questo romanzo: quello che fugge dalla propria città in fiamme,
portando suo padre sulle spalle, per andare a fondare una nuova civiltà. E il
dramma è che non c’è.
Potrebbe essere Gaetano, il bambino "subnormale", come viene chiamato
nella lingua pre-politically correct usata nel libro: ma come si fa a
trattenere un’utopia del genere? Di una nuova forma di civiltà fondata da un
bambino Down? Pur con tutta la visionarietà di questo mondo, io non credo sia possibile sostenere questo.
Oltretutto, Gaetano un padre non ce l’ha, e senza un padre sulle spalle non si
può fondare un bel niente. Sebbene, un nuovo mondo fondato da un Down sarebbe proprio
quello che ci vuole: un nuovo modello basato sui limiti, e nuovi limiti ben più
severi di prima, e recupero anziché progresso, e riduzione anziché sviluppo.
Teoricamente è la nostra sola possibilità, ma solo gli esseri più deboli
sarebbero in grado di concepire un cambiamento simile – e gli esseri più deboli
non si affermano nemmeno nelle utopie: soccombono sempre.

 

 

17 pensieri su “CHIACCHIERE

  1. Trascrivo il mio commento sotto l’articolo di FK in lpels: “Ehi, avete ricambiato lo scherzo? [= il 20 giugno scorso postai nel mio blog “La poesia e lo spirito (di p.bianchi)” e adesso mi sento dare del linotoffolo]. Che ve possino… :-/

  2. CONSIGLIO DI LEGGERE I PRIMI DUE TITOLI DELLA SAGA THRILLER-NOIR DI FELICE MUOLO, COMPLANARE PUTTA e CRISTO NON SI CORICA.

  3. Di mestiere faccio l’insegnante di sostegno. Mi occupo prevalentemente di bambini “difficili”, “caratteriali”, boh, ogni definizione mi sembra ingiusta (la seconda è proprio strana, perché un carattere lo abbiamo tutti, giusto?). In questi anni ho avuto a che fare con decine di alunni che passeggiavano SUI banchi, sputavano in faccia ai compagni e agli insegnanti, chiedevano il pizzo nei bagni, rientravano al pomeriggio, di nascosto, per defecare al centro dell’aula come ritorsione a un rimprovero dell’insegnante, che rigavano le auto degli insegnanti, che staccavano i capezzoli delle mie colleghe a morsi (giuro, un insegnante è stata ricoverata senza capezzoli), ecc. ecc.
    Io stesso sono nato in un quartiere molto difficile. Ricordo che a scuola uno degli sport preferiti era quello di prendere di mira il compagno più gracile e massacrarlo di botte, oppure strappare dal pube l’assorbente alla compagna più brava e lanciarglielo in faccia, mettersi alle spalle del compagno bravo a pallavolo e insultarlo con tanti “babbulongu”, “curnutu comu nesci ti manciu lu cori”, eiaculare sulla cartella sempre del compagno più gracile e poi ordinargli di portarla a casa, lanciare pietre sui tetti delle case di certi genitori, ecc. ecc.. Ecco, io non provo nessuna simpatia per questo genere di cose. Né per i miei alunni, quando arrivano a tali efferatezze, né per i miei vecchi “amici” di infanzia. Non propongo la paternale. Ma non mi faccio neanche trip mentali, del tipo ah, la teoria della complessità. Cerco di dare delle occasioni, in fondo questo dovrebbe dare la scuola: occasioni. Non basta la pietà o la comprensione.

  4. Mah, poi pensavo. Non è che si stia cavalcando un certo determinismo povertà=mascalzoni? Non vorrei cadere nel luogo comune opposto, però a me è successo spesso di ritrovarmi con alunni educatissimi nei quartieri più poveri e con alunni molto aggressivi nei quartieri più ricchi.

  5. Ricordo che quando ero piccolo avevo un compagno che veniva da Salaparuta. Poverissimo. Sto bimbo si alzava presto e arrivava a scuola con l’autobus (anzi, con la corriera). Studiava come un pazzo. In una classe di alunni monotonamente feroci, era un’eccezione.
    Ecco, quel compagno così buono mi affascinava.

  6. Quanto al determinismo, che io nego: ovvio che chi si sente di non avere chanches adotta (beh, può adottare) comportamenti (auto)distruttivi.
    Ma la cosa vale anche per i figli dei ricchi, secondo altre piste.

  7. La scuola dovrebbe solo insegnare un mestiere. E l’università una professione. Affidare alla scuola compiti sociali più alati è investirla di un ruolo che non potrà mai reggere. E’ eversivo. Sarebbe già tanto se imparassero qualcosa che serva per lavorare. I problemi psichici dovrebbe essere affrontati altrove, da persone e strutture competenti. Questo naturalmente non esclude che ci siano insegnanti capaci di andare oltre. Ma non è una cosa che può funzionare sulla base di una pianificazione. Faccio cordi di aggiornamento per gli insegnanti di sostegno (e non solo) e la situazione e preparazione generale è desolante.

  8. a luminamenti
    Scherzi?
    Se non ricordo male gli insegnanti in Italia sono un esercito pari a circa il 50% dei 3 milioni di statali che mi pare siano.
    Secondo te questo popolo fondamentale deve crecere con obiettivi minimi, diciamo al ribasso?
    Direi che su quantità simili uno 0,1% di ottimi risultati sarebbe un importante segnale di cambiamento di tendenza.

  9. Renato Barilli, nato a Bologna nel 1935, docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna. È autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Corso di estetica (il Mulino 1989, 1995) e Corso di retorica (Mondadori 1995); di critica letteraria, fra cui studi su Pascoli, Pirandello, Svevo, D’Annunzio, la neoavanguardia; e di critica d’arte, oggi su la Stampa di V.M. 18 dice: “V.M.18, la sfida al senso comune del pudore onorando Sade”. “V.M.18 ad opera di Isabella Santacroce, un capolavoro, un volume su cui versare fiumi di riflessioni….”.

  10. Insegnare um mestiere non mi sembra un obiettivo minimo, piuttosto necessario. Quest’obiettivo è mancato dalla scuola. Non devi contare gli insegnanti, ma gli studenti. La scuola è fatta per gli studenti. Loro sono il fine della scuola, il mezzo sono gli insegnanti.

  11. Queste sventole di bott’e risposte che sono le code di commenti ad altrettanti articoli assumono spesso, e anche in questi casi, andamenti prismatici che danno il capogiro, e un po’ di voltastomaco. Torniamo alla sorgente? BRUCIA TROIA, grande libro. E illuminante questa conversazione sul libro e sul suo tema della nostra con SV. Mi piacerebbe solo dire che nel romanzo c’è una messe di archetipi e simboli che (a prescindere da una secondaria, e facoltativa, “lettura” psicoanalitica) sono i perni della tipica ellisse letteraria. Cioè questa è letteratura, cioè POESIA, inclinazione della luce e capacità di guardarci sopra, anzi dentro, che è della grande scrittura letteraria (senza pesantezze, peraltro, com’è congruo – anzi con la leggerezza che Calvino americanamente prescriveva). Due sono le spie, e archetipi, e simboli di questo mirabile romanzo: la filiazione e il fuoco. Volevo dire solo questo.

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