COME LI CAPITE, LORO?

Mi ripeto, mi ripeto. Continuo a pensare a tutti coloro che si pongono come odiatori (degli altri, del presunto successo degli altri, di chiunque non sia il soggetto odiante) senza altro motivo che non l’essere al centro dell’attenzione altrui. Solitudine, va bene. Infelicità, va bene. Ma non basta. Così torno a pensare a Rage, Ossessione. E’ un romanzo che Stephen King scrive negli anni Sessanta, prima di Carrie, e pubblica con lo pseudonimo di Richard Bachman nel 1977. E’ stato ritirato, per suo volere, dopo la strage della Columbine High School e dopo che una copia del romanzo era stata trovata nelle case o armadietti di altri due studenti che, come il protagonista Charlie, hanno sparato nelle loro scuole.
E’ comprensibile, ma Rage, che è bellissimo e terribile, aiuta a capire. Dunque, finisco questa settimana con un brano che dal libro è tratto. Proprio per provare a capire.

Sanità mentale.
Puoi farti tutto il tragitto dalla culla alla tomba convincendoti che la vita è logica, la vita è prosaica, la vita è normale. Soprattutto normale. E io credo che lo sia. Ho avuto parecchio tempo per pensarci. E ogni volta torno immancabilmente alla dichiarazione resa in punto di morte da Mrs. Underwood:
dunque capite che, aumentando il numero delle variabili, gli assiomi per definizione non cambiano mai.
Io ci credo davvero.
Penso, dunque sono. Ho dei peli sulla faccia; perciò mi rado. Mia moglie e mio figlio sono rimasti gravemente feriti in un incidente d’automobile; perciò prego. È tutto logico, tutto normale. Viviamo nel migliore di tutti i mondi possibili, perciò datemi una Kent per la sinistra e una Bud per la destra, accendetemi Starsky e Hutch e fatemi ascoltare quella nota delicata e armoniosa che fa l’universo ruotando dolcemente sulle sue orbite celestiali.
Logica e normale. Come la Coca Cola, è il massimo.
Ma come sanno bene la Warner Brothers, John D. MacDonald e pochi altri, c’è un Mr. Hyde per ogni simpatica faccia di Jekyll, un volto scuro dall’altra parte dello specchio. Il cervello dietro quel volto non ha mai sentito parlare di rasoi, di preghiere o della logica dell’universo. Metti lo specchio di traverso e vedi la tua faccia riflessa in una distorsione sinistra e sinistrorsa, per metà matta e per metà sana. Gli astronomi chiamano terminatore quella linea di demarcazione fra la luce e le tenebre. L’altro lato dice che l’universo ha tutta la logica di un bambino mascherato da cowboy per Halloween con le viscere e il suo sacchetto di caramelle spiaccicati per più di un miglio di Intarsiatale 95. Questa è la logica del napalm, della paranoia, da valigie-bomba portate in giro da allegri arabi, di un carcinoma sviluppatosi a casaccio. È una logica che divora se stessa.
Dice che la vita è un gioco ai quattro cantoni, dice che la vita rotola con la stessa isterica casualità della monetina che si lancia per vedere chi deve offrire da bere.
Nessuno va a guardare quell’altro lato se proprio non c’è costretto e lo posso ben capire. Ci dai un’occhiata quando ti offre un passaggio un ubriaco su una GTO che picchia a duecento all’ora e si mette a raccontarti del come e del perché sua moglie l’ha sbattuto fuori; ci dai un’occhiata se a qualcuno salta in mente di attraversare l’Indiana ammazzando a fucilate ragazzini in bicicletta; ci dai un’occhiata se tua sorella ti dice: “Scendo un attimo in farmacia” e viene accoppata in una rapina. Ci dai un’occhiata quando senti tuo padre che parla di squartare il naso di tua madre.
È una roulette, ma non è dignitoso mettersi a frignare che la ruota è truccata.
Puoi immaginartela con tutti i numeri che ti pare, che tanto il principio di quella pallina bianca non cambia mai. E non mettiamoci a dire che è una follia, perché è tutto perfettamente normale e sano.
E tutto quello che esula dalla norma non accade solo fuori. È anche dentro di voi, in questo preciso istante, a crescere al buio come funghi magici.
Chiamiamolo la Cosa in Cantina. Chiamiamolo il Fattore Ciccia e Cilecca.
Chiamiamolo il Looney Tunes File. Io lo vedo come il mio dinosauro privato, enorme, viscido e senza cervello, che se ne gironzola traballante nelle paludi puzzolenti del mio inconscio senza mai trovare un giacimento di idrocarburi grande abbastanza per contenerlo.
Ma questo sono io, mentre avevo cominciato a raccontarvi di loro, di quei dotati studenti destinati all’università che, metaforicamente parlando, scesero a comprare il latte e finirono in mezzo a una rapina a mano armata.
Io sono un caso documentato, materia grezza di routine per l’industria dell’informazione. Mille strilloni mi hanno smerciato su altrettanti angoli di strada. Ho avuto cinquanta secondi alla televisione e una colonna e mezzo sul Time. E mi alzo in piedi qui davanti a voi (di nuovo metaforicamente parlando) e vi dico che sono perfettamente normale. Ho, sì, una rotellina appena appena storta al piano di sopra, ma per tutto il resto funziono meglio di un cronometro, grazie mille.
Dunque, loro. Come li capite, loro? È di questo che dobbiamo discutere, non è vero?

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