Per esempio, quella che la vostra eccetera ha fatto con Andrea Bajani, per Mente&Cervello. Tutta vostra.
Indagati, analizzati, temuti. Da sempre. Una decina di anni fa, nella Storia dei giovani curata per Laterza, Giovanni Levi ricordava come fin dalle origini il mondo dei padri abbia esaltato e temuto i figli, affidando loro il duplice ruolo di portatori del nuovo e di censori della società adulta, “incoraggiandoli come speranza del futuro e reprimendoli come nemici. I Giovani erano come i Morti: rappresentavano un’ istituzione critica e morale al tempo stesso”.
Dunque, lo scrittore Andrea Bajani ha deciso di scendere nell’Ade: non nuovo alle inchieste narrative ((Mi spezzo ma non m’impiego, sul precariato), ha preso parte attiva a tre gite scolastiche, mischiandosi agli adolescenti e cercando di vivere da testimone partecipe il loro mondo. Il risultato è Domani niente scuola (Einaudi, pagg.142, euro 12,50), che sui giovanissimi racconta molto più di molti saggi pensosi firmati da espertissimi del settore.
“L’idea di partenza – spiega Bajani – era quella di provare a compromettermi, di mettermi a reagire (quasi come una soluzione chimica) con gli adolescenti italiani. A monte c’era la volontà di provare a fare un’ulteriore tappa di quel racconto sull’Italia che tra romanzi e reportage sto portando avanti da qualche anno a questa parte. Ecco, penso che la ricerca sul campo, come la chiamano gli antropologi, sia fondamentale, per restituire non soltanto dei fatti ma anche dei sentimenti, del proprio paese. Da questo punto di vista la gita scolastica mi sembrava avesse tutti gli ingredienti per questo tipo di lavoro. Tanto per cominciare la gita consente una condivisione prolungata, cinque o sei giorni (giorno e notte!) insieme. Poi la gita di classe contiene in un unico lungo spazio il tempo libero (la gita è una specie di collezione di sabati sera), il rapporto con gli altri, le dinamiche di gruppo, il rapporto con la scuola, lo smascheramento (di sé e dei professori, che hanno la possibilità di uscire dai propri ruoli). E poi perché c’è il viaggio, che sposta a ogni centimetro la percezione che le persone hanno di sé nello spazio e nel tempo. Poi in realtà il mio lavoro sul campo si è svolto molto anche in classe e, lungo tutto l’anno scolastico, chiacchierando con loro in chat tutte le sere fino a notte fonda. Utilizzando il loro linguaggio, attraverso le loro modalità relazionali. Così finalmente ho capito che a 33 anni non si può più dire di essere giovani…”
L’idea, dunque, è quella di scoprire cosa c’è dietro la demonizzazione degli adolescenti. Proviamo a rovesciare il punto di vista, però, e riflettere sugli adulti. Cosa l’ha provocata, a tuo parere?
Rovesciare il punto di vista mi sembra quanto mai fondamentale. Mentre ero in viaggio, in tutti e tre i viaggi che ho fatto con i ragazzi, la prima cosa che pensavo era che per molti aspetti l’adolescenza è rimasta la stessa. È sempre quell’età terremotata di transito, in cui è tutto molto potenziale. Si può diventare tutto, e si ha il terrore folle di non diventare niente. E’ l’età in cui la metamorfosi del corpo muta continuamente la prospettiva sulle cose, in cui ci si guarda e si è sempre di passaggio verso chissà che cosa. Ragazzi con la faccia da bambini e i polpacci muscolosi e pelosi dei grandi, ragazzine sottili che all’improvviso cominciano a crescere, e non sanno più come fare a fermarsi. Ecco, così è sempre stato e così sempre sarà. Da sempre gli anni più complicati in una famiglia sono quelli in cui i figli sono adolescenti. Sono anni che ci si ricorda come alterati, quando li si oltrepassa e ci si volta indietro. Eppure, e qui veniamo al punto, ad essere cambiati mi sembra siano gli adulti, più che i ragazzi. Mai come oggi mi sembra che i ragazzi siano lo specchio fedele degli adulti, di cui replicano tutto il disincanto, le paure, le incertezze. Mi sembra che gli adulti abbiano (abbiamo) perso la bussola e che fatichino (fatichiamo) molto a tenere la rotta. Molti mi hanno raccontato di rapporti per nulla conflittuali con i propri genitori, e questo mi è sembrato piuttosto sintomatico. È come se i genitori, in affanno ciascuno per se stesso e per le proprie derive personali, cercassero in realtà rassicurazione nei figli. Per far questo, però, è necessario eliminare il conflitto. La paura dei grandi cerca riparo nello sguardo dei ragazzi. Che però, ho idea, finiscono in questo modo per sentirsi un po’ soli. Con figure di riferimento fragili. C’è stato un momento in cui ho pensato di aver sbagliato tutto, e che per capire bene i ragazzi sarei dovuto andare in gita con i loro genitori.
Ma la responsabilità dei grandi non è solo nel trasmettere sfiducia: tu parli espressamente di scomparsa degli adulti quando racconti di genitori assenti per stress, per complicanze familiari, per semplice distrazione. Oppure, per cosa altro?
Quella della scomparsa degli adulti era un’impressione che avevo sovente, in quel periodo di immersione. Mi sembrava di vivere nelle pagine del Signore delle mosche, su un’isola in cui i ragazzi erano finiti per naufragio. L’impressione, ripeto, è che gli adulti stiano annaspando, e che dunque siano totalmente concentrati sui propri allarmi, sul mantenimento della posizione, sull’equilibrismo in una quotidianità precaria. Non è una condanna, la mia, ma è una constatazione che mi sono trovato a fare molto spesso. Sai, ogni tanto ho come l’impressione che gli adulti vivano come se fosse suonato l’allarme, con le sirene che urlano all’impazzata. I ragazzi stanno lì aspettando che finisca, che passi la buriana. E però è altrettanto evidente che tutte le volte che incontrano un adulto (genitore, insegnante o passante che sia) con una personalità, subito ne rimangono rapiti. Ricordo una ragazza che parlando di una professoressa particolarmente carismatica mi ha detto, con uno sguardo ammirato, “con lei non possiamo nemmeno tenere i cellulari accesi”. Era estasiata che qualcuno le imponesse delle regole. Precisiamo, però. Era estasiata perché le regole le venivano imposte non in maniera militaresca (obbedisci e non ti chiedere il perché) ma come parte di un progetto, di un’idea dello stare insieme. E’ la differenza che Gramsci stabiliva tra la disciplina meccanica e quella che comportava una crescita interiore, la condivisione di un progetto.
A proposito di condivisione, e del suo contrario…La diffidenza adulta per la tecnologia emerge con chiarezza anche nel tuo racconto. Tu hai provato, almeno, a usare l’iPod contemporaneamente al telefono. Altri, molti altri, ritengono invece che la pratica sia non solo condannabile a priori, ma che sia indizio di una decadenza e caduta della società. Perché?
È un discorso antico, questo della paura della novità. Tutto ciò che non si capisce, lo si demonizza, e così si può evitare di occuparsene. È il modo migliore per sentirsi al sicuro. Ovvio che gli adolescenti fanno parte di questo “nuovo”, e per questo vengono demonizzati. Loro sono così sconosciuti e così imprevedibili persino a se stessi che è più semplice relegarli in un contenitore patologico. La tecnologia è l’emblema di tutto ciò. Ovvero, è l’emblema della novità e però è anche l’emblema del fossato che si è aperto tra le generazioni. La tecnologia determina i comportamenti, e non soltanto nell’era dell’Ipod. L’invenzione del telefono ha portato le persone a scambiarsi informazioni stando dentro casa, la televisione ha inchiodato la gente sul divano, la radio in macchina fa pensare alle persone di essere costantemente dentro un film, e così via. Così oggi le chat, messenger, determinano un nuovo modo di comunicare tra i ragazzi. Che non è né meglio né peggio di quel che c’era prima. Ma è diverso, e proprio per questo determina un cambiamento nel modo di stare insieme delle persone. Rifiutarlo significa soltanto rifugiarsi in un’ostinata e anacronistuca ottusità. E più in generale significa non credere nel futuro. Dicendo questo ovviamente non voglio far la parte del fanatico dell’innovazione tecnologica. Credo che però non si possa prescindere dal conoscerla, se si vuole avere un sentimento del tempo in cui si vive.
E nel nostro tempo emerge nitidamente la crisi della politica. Ed emerge soprattutto un’amarezza che stupisce. Cambiare non è possibile, afferma uno dei ragazzi. Eppure, come diceva Benjamin, la giovinezza è il centro dove nasce il nuovo. Significa che nuovo e politica si stanno drammaticamente allontanando?
Quello della politica è un discorso molto interessante. Per farlo dobbiamo ritornare a parlare anche un po’ degli adulti. Ricordo una chiacchierata lunga e anche un po’ commovente che ho avuto con i ragazzi su quest’argomento. Ne ho parlato con tutte e tre le scolaresche, ma ricordo molto bene la discussione che ho avuto con gli studenti di Torino, seduti in terra di fronte al Beaubourg. Così pieni di energie e di voglia di fare in tutte le situazioni, quando abbiamo cominciato a discutere di politica si sono scuriti in volto. Gli è venuta in faccia l’espressione disincantata dei grandi, e hanno preso a dire “E’ tutta una casta”, “E’ tutto marcio”. Hanno cominciato a snocciolarmi il cahier de doléance degli adulti, che passano quotidianamente ai ragazzi la sfiducia nei confronti dell’agire collettivo. Soprattutto, passano (passiamo, dovrei dire) l’idea che si è tutti soli di fronte a qualcosa che è molto più grande di noi, e di cui noi ignoriamo le regole e le dinamiche. Per cui tanto vale occuparsi dei fatti propri, far manutenzione. E speriamo di non avere troppe grane. Più in generale non so se significhi che nuovo e politica si stanno allontanando. Di sicuro significa che il termine politica si sta allontanando (nella percezione collettiva) dal suo stesso significato. Da possibilità per il cittadino di dare il proprio contributo alla collettività, ormai viene letto soltanto come gioco di pochi per finalità personali. Un inganno di pochi ai danni dei tanti.
Ecco il punto. C’è sicuramente un patto fra adulti che si è spezzato: ed è quello fra genitori e insegnanti. Anche dal tuo racconto emerge la sensazione di aver a che fare con due fronti contrapposti, carichi di sfiducia e di rancore. Quali, a tuo parere, i motivi?
È vero, è proprio un patto che si è rotto. Un tempo genitori e insegnanti facevano parte dello stesso “schieramento”. Al di là delle logiche di schieramento, comunque, l’insegnante aveva una specie di delega, da parte del genitore. Di norma, rimproverato dal professore, rimproverato due volte. Oggi non è più così. Questo va inquadrato in una complessiva delegittimazione dell’insegnante. In un’epoca come questa di trionfo della logica del professionismo, l’insegnante, nella percezione collettiva, è un po’ un professionista mancato. È un insegnante di matematica soltanto perché non è riuscito a fare l’ingegnere. È un insegnante di italiano soltanto perché non è stato in grado di fare il giornalista. È un insegnante di ragioneria perché non è stato in grado di fare il commercialista. Negli ultimi anni parecchi professori mi hanno raccontato, preda dello sconforto, di truppe di genitori che vanno a contestare la professionalità degli insegnanti, la giustizia dei voti, persino l’opportunità di affrontare determinati argomenti in classe. La scuola, ahinoi, viene percepita e vissuta sempre di più come un’azienda come un’altra, soddisfatti o rimborsati. Sullo smantellamento dell’istruzione pubblica, sull’abbandono di un’idea di scuola a cui chiedere la formazione di individui e di cittadini, ci sarebbe da parlare a lungo. Ma insomma, volenti o nolenti questa scarsa considerazione della classe insegnante e della scuola arriva fino ai ragazzi. A quegli stessi ragazzi che poi si siedono tra i banchi, di fronte a un professore.
A proposito. Un’altra delle molte cose che colpisce, nel libro, sono le confessioni delle ragazze durante la visita al cimitero, quando affermano di non volere bambini. No future era uno slogan di trent’anni fa, quando al futuro, invece, si credeva. Adesso non ci sono slogan, ma la negazione ha messo radici…Non ti ha turbato?
Non vorrei ripetermi, ma è il mondo degli adulti, quello che ha smesso di (o ha paura di) credere al futuro. Il mondo degli adulti cammina guardandosi i piedi. Su questo fronte ho un ricordo in particolare. Eravamo in treno, in viaggio verso Parigi, e una ragazza mi parlava proprio della sua percezione del futuro. Due genitori poco più che quarantenni, entrambi precari, mi sembra addirittura precari nel pubblico. Ecco, raccontandomi delle traversie di sua mamma e di suo papà, della loro vita incerta, mi ha detto “Ma come faccio a non aver paura del futuro se in casa non si parla di altro?”. Uno dei tanti giochi che facevamo in gita era quello di associare istintivamente una parola a un’altra parola che io gli proponevo. Alla parola “futuro” ho ricevuto una valanga di “niente” e “nessuno”, cosa che sì in effetti mi ha turbato, e intristito, molto. In tanti poi però dicevano anche “domani”, “Parigi”, “libertà”, che sono risposte più comuni, che in tanto avremmo dato ai tempi della nostra adolescenza. Perché, ed è bene ripeterlo, per fortuna l’adolescenza non è un’unica massa indistinta di persone, ma sono tante facce diverse, tante storie personali. Mi sono messo in viaggio proprio per vedere e raccontare questa complessità, che è fatta sì di aspetti chiamiamoli critici, ma per fortuna anche di moltissima energia, voglia di fare, e percorsi individuali. Ogni ragazzo cerca la sua strada, si inerpica, scantona, a volte anche “nonostante” il mondo che gli sta intorno.
Alla fine del viaggio, e della storia, scrivi la parola chiave, anche se non la scrivi davvero. Paura. Paura dell’acqua, paura di bagnarsi. Chi è adolescente non teme la pioggia. E viviamo, da anni, nella paura. Come si fa a tornare a desiderare di camminare sotto l’acquazzone?
Non lo so, non ho ricette. Credo però che la risposta, o almeno la mia, abbia a che fare con la fiducia. Che non vuol dire né buonismo né assenza di conflitto. Fiducia vuol dire provare a capire, pensare che ne valga ancora la pena. Se non suonasse anacronistico, fiducia per me vuol dire confronto dialettico con la realtà in cui viviamo, con le contraddizioni del nostro paese. Che fa arrabbiare, incarognire, ma ci viviamo dentro. La via che cerco di seguire, come scrittore, è quella di alzare la testa, di provare, come dicevo all’inizio a compromettersi. Perché compromessi lo siamo comunque, siamo dentro un tessuto sociale che alimentiamo quotidianamente con i nostri comportamenti. Per cui vale la pena prenderne consapevolezza. Tenere bassa la testa, pensare che non ci sia più nulla da fare, pensare che sia tutto ormai da buttare, è un atteggiamento che ha a che fare con l’omertà. Che come sappiamo è frutto della paura, ma perfettamente funzionale all’immobilismo sociale.
Ieri sera ho sentitouna donna, Rita Levi Montalcini, quasi centenaria parlare di sè, rispondendo alle domande – direi scontate -dell’intervistatore.
Cosa mi ha colpito nelle sue risposte? Soprattutto che parlasse di futuro,
di progetti, e della possibilità di vivere ogni giorno ampliando lo spiraglio dischiuso sul mondo. La vita intesa come processo di conoscenza e approfondimento quotidiano. La curiosità che morde l’esistenza e non demorde. Mi ha fatto pensare ai giovani nei quali troppo spesso la paura di capire e di fare supera la curiosità di misurarsi e cimentarsi nel nuovo.
Negli adulti, a fronte di una realtà sempre più difficile, è scattato il senso della protezione a oltranza che, però, priva il giovane di tutta una serie di esperienze che non soltanto non lo rendono adulto, ma uccidono in lui la curiosità. L’esperienza dei genitori diventa un ‘dejà vu’ che non si passa ai figli cme racconto o incitamento ma come incertezza, esperienza da evitare, rifugio nel quale adagiarsi.
Per fortuna la giovinezza è incoscienza e forza, nonostante tutto, e i ragazzi, anche se con insegnanti demotivati – spesso e giustamente –
genitori stressati – anche questo comprensibilmente – si muovono, vanno all’estero, si sottraggono al peso delle nostre incertezze e paure, rivendicando il diritto a averne di proprie. Pesantissima è la responsabilità della politica, predatoria, cinica e chiusa a ogni confronto.
Imputabile a tutti noi(?) un’attenuazione di rigorosità morale, una stanchezza di fronte alla fatica del quotidiano che ci vede lasciar perdere, rinunciare, adattarci a una realtà che risulterebbe troppo faticoso tentare di modificare …Loro, i giovani, guardano e ascoltano
la televisione, che fa da baby-sitter gratuita, perdendosi nell’ascolto dei cd di cui li sommergiamo e ingoiando le nostre frustazioni (che non sempre ci teniamo dentro). Essere genitori è un mestiere durissimo che non tollera confusione di ruoli e lassismo. Mai dimenticare che gli occhi dei ragazzi sono su di noi e che nulla attenua la fiducia nel genitore come sentirlo parlare in un modo e agire in un altro.
Il dolce sapore del cielo
Il superamento di ogni bisogno, la conquista del cielo, sogno di ogni epoca umana era realtà.
Coloro che avevano visto il passato ricordavano con terrore quell’epoca e la cancellavano subito dalla mente.Tanto era forte il crampo che prendeva lo stomaco!
I nati nella nuova epoca, quando leggevano certi libri o vedevano certi film erano restii a credere che il mondo avesse visto realtà di quel tipo.
Non osavano immaginare che esseri umani potessero utilizzare, come schiavi o finti liberi, altri esseri umani per avere dei miseri pezzi di carta o dei pezzi di materiale ferroso.
Non osavano immaginare che tanta gente non avesse un lavoro, una casa;
che tante persone non mangiassero abbastanza e altre morissero addirittura di fame ;
che i bambini morissero per mancanza di cibo.
Non osavano immaginare che esseri umani uccidessero altri esseri umani per motivi futili e banali; che ci fossero le guerre;
che si distruggessero con le bombe tesori millenari, testimoni della storia dell’umanità;
che un liquido brutto e nero fosse così importante.
Non osavano immaginare che donne e uomini vendessero il loro corpo e, a volte, anche la loro anima per apparire in televisione, sui giornali;
che le persone non esprimessero quello che sentivano nei cuori, ma solo quello che conveniva ai loro interessi;
che un organo, chiamato Stato, imponesse tasse e decidesse sulle scelte delle persone in tema di rapporti d’amore e di vita, decidesse il giusto e l’ingiusto;
che si nascondesse la conoscenza e si diffondesse l’ignoranza;
che un malato dovesse pagare per essere curato;
che la scuola non insegnasse sapere, ma ideologie;
che un laureato non trovasse occupazione;
che non si lavorasse o si lavorasse a segmenti;
che l’informazione fosse solo al servizio di chi godeva del guadagno e nascondesse la verità;
che chi produceva era povero e chi non produceva era ricco;
che si andasse in pensione, orma,i vecchi e , dopo una vita di lavoro, fosse dura tirare avanti;
che non tutti avessero una casa e che le case fossero diverse da persona a persona;
che chi praticasse lo sport non lo facesse per passione e piacere, ma per denaro;
che la donna non fosse ritenuta pari all’uomo e vivesse una condizione, spesso, negativa;
che si dovessero pagare i trasporti e che i mezzi fossero così carenti;
che gli anziani fossero abbandonati al loro destino, perché, ormai, improduttivi.
Non riuscivano ad immaginare che ci fossero le armi;
che ci fossero gli eserciti, la polizia, le guardie varie;
che ci fossero le banche, le assicurazioni.
Non riuscivano ad immaginare una politica, fatta non per le esigenze comuni, ma per gl’interessi di comitati d’affare e, anche, di bande di criminali.
Non riuscivano ad immaginare che la stragrande maggioranza della popolazione, che viveva in condizioni precarie, non si ribellasse e, anzi, prendesse a modello proprio coloro, che avevano interesse a tenerli in quella situazione di sottomissione.
I figli della nuova epoca non osavano credere, studiando la storia dell’umanità, che potessero essere esistiti periodi così bui e tristi per l’umanità! “
Da “Il dolce sapore del cielo”
di Giuseppe Calocero