DICE LESTER

Un intervento postumo di Lester Bangs sulla discussione in corso:

“A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così, anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: “Pensi che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una celebrità?” e lui ha risposto: “Non lo so”. Capisci, io me ne sto qui e mi chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio lasciar perdere tutta questa roba. Non mi metto certo a fare sviolinate strappalacrime, perché, come ho detto prima, so che mi è andata bene, non devo alzarmi la mattina e andare a lavorare in fabbrica dalle nove alle cinque o qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante altre cose, quindi non dovrei fare pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solo perché non gli viene offerto qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quando la gente comincerà a dire “No! Mi rifiuto, non ne voglio più!”
(Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980)

Qui l’introduzione di Wu Ming 1 a Guida ragionevole al frastuono piu’atroce (edizione italiana dell’antologia postuma Psychotic Reactions and Carburetor Dung, a cura di Greil Marcus, 1987) in uscita presso Minimum Fax.
Qui, la scheda del libro. Qui, un assaggio di lettura.

 

29 pensieri su “DICE LESTER

  1. prendere pari pari la frase “gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono alienati come lo è il pubblico” e riportarla alla tv di oggi in Italia.

  2. Il pubblico compra ciò che il mercato offre o il mercato offre ciò che il pubblico chiede?
    Non so quale delle due ipotesi sia più scoraggiante.
    Certo è che una crisi delle proposte editoriali abbassa il livello dei lettori innescando un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.

  3. Ed intanto si stampa pure questo, postumo in Italia chiaramente. Io glisso, passo, lascio perdere. Ma ringrazio per l’assaggio di lettura e l’introduzione. M’è sufficiente. Però non chiedetemi di più. Oppure potreste chiedermi perché l’editoria un Moloch di cui non ci si riesce proprio a liberare. No, non chiedetemelo: si è ancora troppo poco liberi perché si possa pensare di liberare l’editoria da sé stessa.
    Saludos.
    Iannox

  4. Lester Bangs… uno dei rari modelli. Però… però, visto che non tutti siamo destinati a morire giovani (almeno spero), con la realtà editoriale e mercantile dobbiamo confrontarci, e prendere atto che, in effetti, non essendo costretti ad andare in fabbrica, ma dovendo pur campare, bisogna riuscire a trovare il modo di vivere cercando una mediazione tra quello che vorremmo fare e quello che ci chiedono di fare. Siamo precari di lusso, quindi precari e quindi di lusso. Lester Bangs era uno scrittore che campava come giornalista. Date un’occhiata alle note biografiche della stragrande maggioranza degli autori contemporanei e poi riparliamone… Per quel che poi riguarda l’editoria, beh…

  5. Caro Lester, e famola finita con questi birignao radical chic. Oppure preferisci la critica evoluta ed adulta: “Gnao gnirignao gnao! Gnao gnignirigni!”

  6. E’ l’insoluto problema dell’informazione non desiderata, che noi ingegneri chiamiamo guarda caso “rumore”. Come in rete, lo scoraggiamento ha origine non nella scarsità di offerta “di qualità”, ma dalle difficoltà nel trovarla, in libreria come sul www.

  7. Lester Bangs – che fosse bravo o no, in questo momento interessa niente – in vita, quale attenzione? Ma postuma, accidenti!, l’attenzione sì. Prima diventa postumo, poi anche l’attenzione verrà. Che imperativo per l’editoria, non solo quella capricciosa italiana! Vien quasi voglia di prendere a piangere come in Via col Vento: una lagrima di coccodrillo tira l’altra.
    L’altro ieri una signora mi avvicina: si era in libreria, non importa quale. Insomma mi avvicina e mi chiede: “Ma quanto costano i libri!” La guardo, una bella signora tutto sommato; le rispondo con un ‘già!’ E lei: “Lei dice che vale?” Io: “Macché! Nessun libro vale il prezzo di copertina. Quello, quanto costerebbe? Diciamo 15 euro, come dire 30.000 lire… Provi un po’ a contare fino a 30.000”
    Lei non capisce, o fa finta. “No, niente.” Quella mi guarda strano, ma si capisce che ha capito. Posa il libro, lo rimetto nella pila, e s’avvicina ai Miti, ma s’allontana pure da quelli. Esce fuori. Io sospiro, e dico che sì, non poteva essere diversamente. Esco pure io, felice.
    Saludos.
    Iannox

  8. Ma abbiamo più possibilità di trovarla oggi, rispetto anche a dieci anni fa.
    Poi. Non so se lo considerate un merito o un demerito, ma è comunque un fatto che dopo la famigerata antologia cannibale c’è stata maggiore attenzione anche alle scritture esordienti. Attenzione drogata, parziale, sbagliata, quel che volete. Ma, nei fatti, nelle stesse pagine culturali si guarda appena appena di più a quel che succede tra i flutti dei titoli pubblicati. Evidentemente si dovrebbe fare molto, molto di più, da parte di editori e di mediatori: ma, e sarà colpa di un mio disgraziato ottimismo, a me le cose sembrano andare vagamente meglio.
    Sempre in virtù delle mie pecche caratteriali, non riesco a condividere quel che scriveva Raul (Montanari) in un commento (non so più se qui o su Nazione Indiana, abbiate pazienza), e cioè che è un libro non è sempre una panacea, e alla lettura di un rosa è preferibile qualche altra attività. Io penso che la lettura sia un piacere, prima che un dovere. se poi dall’Harmony si passa capriolando a Virginia Woolf, meglio ancora. Ma anche quel piacere “basso” e concluso in sè, mi sembra cosa buona.

  9. Abbiamo _molte_ più possibilità, sono d’accordo. L’abbondanza di offerta però genera confusione e indecisione, e la necessità di strumenti e metodi nuovi. Chi si sente sopraffatto, invece, frigna lamentazioni complottistiche o nostalgiche.

  10. Non posso che essere d’accordo con quello che dite nella sostanza. Grazie a Loredana per il richiamo alla bella e istruttiva introduzione di Wu Ming1 e per l’assaggio di lettura di uno scrittore vero, incazzato nero come pochi. Un puro, secondo me.
    Vostro affezionatissimo,

  11. Franz, mio Caro, non dico che Lester non fosse incazzato nero, o che non fosse vero: giusto per mettere i puntini sulle “i” e non creare una possibile confusione. Dico invece che meno nobile e puro è “l’essere postumo”, e dico impura la mercificazione che si fa del pensiero umano. Se Lester oggi fosse vivo, sarebbe forse incazzato nero; purtroppo è vivo il suo agente (di allora?) e l’editoria. Quindi leggere Lester è “obbligatorio”, meno obbligatorio (se non superfluo) leggerlo in chiave “postuma”. Si stampano tanti libri di “ribelli”, ma è un gettar fumo negli occhi: i ribelli, quelli veri, si dovrebbe amarli quando in vita, non dopo. Sì, credo che Lester oggi sarebbe incazzato nero per come l’editoria continua ad essere.
    Saludos.
    Iannox

  12. Carissimo, sono d’accordo. Pubblicarlo anche oggi, altresì, non mi pare deprecabile operazione. Stop.
    Anzi. Stop.
    Tuo affezionatissimo,

  13. ho letto la citazione di lester bangs e i vostri post. Mi piacerebbe aggiungere qualcosa ma proprio non ci sto, dentro i 1000 caratteri riservati ai commenti. Non so come fare perché di blog non ci capisco un’acca e vi chiedo istruzioni. Sempre che a qualcuno interessi sapere cosa ho da dire. Se no, fa nulla.
    Un saluto

  14. ‘mi chiedo quando la gente comincerà a dire “No! Mi rifiuto, non ne voglio più!”
    (Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980)’
    In merito alle modalità di modulazione del ‘No!’ di cui sopra è vivamente consigliata la lettura de ‘Il lettore a(r)mato – vademecum di autodifesa’ di Luca Ferrieri, pubblicato nel 1993 da Stampa Alternativa

  15. Orwell fornisce un quadro assai crudo del funzionamento di certi meccanismi: Z scrive un libro che viene pubblicato da Y e recensito da X nel periodico “Weekly”. Se la recensione è negativa, Y ritira i suoi annunci da “Weekly”, per cui X è costretto a descrivere il libro come un “capolavoro indimenticabile” onde evitare il licenziamento. Essenzialmente la critica è caduta così in basso perché ogni critico ha un editore che gli pesta la coda per procura.
    Questa è, in linea di massima, la situazione della cosiddetta critica (letteraria o musicale, poco cambia) in tutto il mondo; soprattutto in quello ufficiale, quello cioè dei quotidiani e dei periodici a larga diffusione, per tacere di quella televisiva (ma esiste?). Qui la critica è di fatto una sorta di necessità commerciale, come lo è la fascetta sulla copertina del libro (o lo sticker sulla copertina del disco), del quale è un’appendice.
    (segue)

  16. I re-censori
    Una lucida riflessione utile al caso nostro è rintracciabile in un saggio del 1936 in cui George Orwell si occupa dello stato di salute del romanzo.
    Scrive così Orwell: Chiedete a qualsiasi persona ragionevole il perché non legge mai romanzi e scoprirete che, in fondo, non lo fa a causa delle disgustose idiozie scritte da recensori da strapazzo.
    Citando alcuni esempi, in sostanza lo scrittore sottolinea come la scarsa considerazione in cui è tenuta la critica letteraria si sia trasformata in disprezzo per il romanzo stesso: quando tutti i romanzi vengono esaltati come se fossero opere d’arte, è quasi automatico presumere che siano invece roba da poco.
    La parte più interessante del saggio analizza le difficoltà oggettive in cui si trova chi esercita l’attività di critico.
    (segue)

  17. E la critica militante? Ve la raccomando…
    Questa categoria trova ospitalità sulle pagine della cosiddetta stampa specializzata o di settore, prodotta da gruppi editoriali infinitamente più piccoli e modesti rispetto a quelli cui fanno capo i quotidiani e i settimanali patinati di grande diffusione.
    A dispetto di una posizione apparentemente indipendente, in realtà queste testate soffrono vincoli ancora più asfissianti, non potendo neppure farsi scudo dell’estrema arma di ogni buon giornale, la tiratura e la conseguente diffusione.
    Eppure, nonostante esse rappresentino una fetta di mercato sempre più ridotta (il bacino di utenza è quello dei veri appassionati, dei fans), il loro ruolo è attentamente controllato dall’industria. Per lo più in modo indiretto: qui è davvero raro il caso del recensore che stronca un disco e provoca ritorsioni (leggi tagli alla pubblicità) nei confronti della testata da parte della casa disografica colpita, se non altro perché il livello d’interesse e il conseguente danno all’immagine è quasi inconsistente (le riviste in oggetto si rivolgono a otomila, diecimila, massimo ventimila lettori, poca roba per le strategie marketing di una multinazionale).
    Avviene però un altro fenomeno singolare e dagli effetti devastanti: il critico si autocensura preventivamente.
    (segue)

  18. Si instaura in tal modo un rapporto diretto e personale fra il recensore e la casa discografica, nella fattispecie con la struttura addetta alla promozione e ai rapporti con la stampa. Tale contatto ha sicuramente i suoi vantaggi per il recensore (possibilità di ricevere privatamente i dischi, di scegliersi da sé cosa recensire, di attribuirsi un carico di lavoro pressoché discrezionale), ma diventa una pericolosa gabbia: col tempo, il recensore impara a conoscere a proprie spese le regole del gioco. Anzitutto impara cosa significa mediare, poi apprende la discutibile arte dell’ambiguità, del messaggio subliminale, della strizzatina d’occhio, del trasformismo.
    Nel recensire, due esigenze lo tormentano più di ogni altra cosa: da un lato non tradire le proprie idee e i propri canoni estetici (ammesso che ne possegga), dall’altro non pestare troppo i piedi a chi gli dà i dischi e (preferendolo a un collega che magari gli fa concorrenza sulla stessa testata) tutto sommato gli rende un favore.
    La soluzione l’ha già individuata Orwell: l’adozione di una bilancia utile a registrare il peso delle pulci e la propensione per uno stile neutro, innocuo, fatto di grandi circonlocuzioni, farcito di luoghi comuni e paragoni, magari virtuosistico ma in fondo vuoto, soprattutto attento a mettere in evidenza sempre il positivo (a costo di inventarlo di sana pianta) di un’opera e lasciar invece appena trasparire il negativo, magari fra le righe, magari in ultima battuta. E’ questo il giornalismo dei “se” e dei “ma”, dei maliziosi puntini sospensivi e dei paradossi, dei voli pindarici e delle false scelte controcorrente. Le voci fuori dal coro, le provocazioni. O le rivalutazioni, in nome di un’improbabile estetica radical-chic. Un’autentica fiera dell’ipocrisia.
    (segue)

  19. ELOGIO DELLA RECENSIONE
    Lo storico e sociologo dell’arte Arnold Hauser spiega molto bene come funzionano le culture di massa: Nessun modo di esprimersi, per quanto personale e vitale, mantiene il suo carattere spontaneo oltre un certo periodo di tempo; nessuna forma d’altra parte, per quanto rigida, comincia la sua evoluzione come convenzione. Questo processo è senza dubbio esposto a pericoli, tuttavia una forma artistica, convenzionalizzandosi, non perde necessariamente il suo valore artistico: nel corso del processo essa può perfino acquistare in forza espressiva e in ampiezza di possibilità.
    Il fatto che da più parti si continui a sostenere la modesta qualità intrinseca della musica rock d’oggi se paragonata a quella del passato, dipende verosimilmente da due motivi principali: la visione acritica e idilliaca che sempre si tende ad avere del passato, e la sempre più debordante produzione musicale dei giorni nostri, tale da frastornare il fruitore potenziale e rendere ardua l’operazione di scelta e valutazione persino ai più avveduti addetti ai lavori. Sostenere semplicemente che la odierna musica rock è una forma d’arte disprezzabile, per cui la sua sorte non interessa, è fin troppo facile. Ed è una tesi che non vale neppure la pena di confutare. Piuttosto, può essere utile indagare sui motivi della perdita di credibilità che questa musica sta progressivamente conoscendo.
    (segue)

  20. Ok, grazie per il consiglio.
    Leggendo il pezzettino di Bangs e i post che ha ispirato, stamane mi sono tornate in mente alcune riflessioni che scrissi anni fa per una rivista letta (probabilmente a ragione) da quattro gatti. All’epoca mi davo da fare come recensore/giornalista specializzato in musica rock e l’argomento – il (mal)funzionamento dell’industria dell’informazione culturale – mi stava molto a cuore.
    Pur essendo allergico alle auto-citazioni, faccio un’eccezione e vi trasmetto il testo (con qualche taglio), perché la sede mi pare quella giusta e il tema ancora attuale. E poi chi se ne fotte.
    Qualcosa, nei dettagli, risulterà inevitabilmente datato. Però nel complesso vi ritrovo ancora molti spunti buoni per una discussione.
    Un’ultima cosa: Lester Bangs era un grande, ma Dio ci guardi dai suoi imitatori italiani.
    (segue)

  21. Opinioni in saldo
    Questo fenomeno va spiegato con due semplici osservazioni.
    Anzitutto, occorre dire che nelle testate di cui parliamo il reclutamento di collaboratori avviene con modalità assai disinvolte (non è raro il caso di lettori diventati di colpo giornalisti, e così via); intuibilmente, anche l’età media di questi giornalisti/fans è notevolmente bassa, di conseguenza il corrispettivo economico offerto è proporzionato al livello generale di professionalità ed esperienza (il che, naturalmente, non esclude l’esistenza di dilettanti di gran lunga più capaci e professionali di professionisti doc).
    Di qui la necessità di scrivere il più possibile. Ecco venir meno la prima condizione indicata da Orwell: recensire solo ciò che merita di essere recensito.
    Il secondo punto (quello che incide sull’autocensura di cui sopra) è il più delicato: nella cosiddetta stampa specializzata il recensore è per lo più abbandonato a se stesso. Il caporedattore, se esiste, si limita a coordinare e concordare i vari contributi, ma è poi il giornalista a farsi carico, nella maggioranza dei casi, della ricerca/reperimento del materiale di lavoro. Nessuna testata, che ci risulti, riesce a fornire ai propri collaboratori i dischi (o i libri) da recensire, almeno non in maniera continua e organica. Per motivi di bilancio, sicuramente, ma pure per una certa diffusa grettezza imprenditoriale.
    (segue)

  22. Disarmare per primi?
    E’ possibile porre un rimedio a queste mistificazioni? E’ possibile immaginare una critica più genuina, meno nevrotizzata dal contatto con l’industria, soprattutto più utile agli acquirenti di dischi e di libri?
    Resterà questa solo l’utopia di chi ha a cuore la musica buona (e la buona letteratura) e l’attendibilità dell’informazione critica giornalistica?
    Certo, in un momento in cui l’importante è sempre più vendere, l’analisi critica si riduce a una velleità ostruzionista, e un tal modo di intendere il mestiere di giornalista trova pochi sostenitori convinti. Tuttavia varrebbe la pena di tentare, fatta almeno una elementare considerazione: la vita, la giornata, il tempo libero di ciascuno di noi sono sempre troppo scarsi, insufficienti, e che ascoltare un disco mediocre o leggere un brutto libro o guardare una trasmissione televisiva idiota o un film noioso è probabilmente l’attività più improduttiva e sciocca che possa immaginarsi. Inoltre, seguitando ad assecondare (per interesse, ma ancor più colpevolmente per pigrizia mentale) il tran-tran della produzione/consumo fini a se stessi, non si produce altro effetto che dar ragione a chi osteggia la musica rock (o la letteratura) di oggi. Il rock e la letteratura (come ogni altra dforma d’arte, s’intende) non sono affatto morti. Occorre pero’ permettergli di giungere alle nostre orecchie e ai nostri cuori tra tanto vuoto baccano promozionale.
    (segue)

  23. Di nuovo ci chiediamo: è possibile?
    Perché nessuno prova a pubblicare un giornale musicale o letterario veramente diverso?
    Forse perché, come suggerisce Orwell, nessuno vuole essere il primo, lo stesso motivo per cui le Nazioni non osano disarmarsi?
    Basterebbe che saltasse fuori qualcuno con uno stile critico equilibrato, utile a far da nuovo metro di paragone. Una critica che facesse (son parole di Orwell) della recensione una prelibatezza e non tenesse in alcun conto la produzione di bassa lega.
    Una rivista (o un programma tv) dunque che molli l’ormeggio dai luoghi comuni e dagli asservimenti culturali, ma che al contempo resti coi piedi per terra, vicina e attenta (per quanto ciò sia fattibile) ai gusti e ai bisogni della gente comune. Che utilizzi una lingua e dei codici ad essa comprensibili. Che non commetta il solito tragico errore, quello delle scelte elitarie e snobistiche.
    Basterebbe, all’inizio, un solo tentativo. E vedreste che mano a mano la tendenza acquisterebbe credito e consensi.
    Bravo. Ma come evitare di cadere nelle trappole finora illustrate?
    Gli antidoti sono essenzialmente due:
    a) cancellare il rapporto diretto fra giornalista e produttore. Meglio ancora, far sì che l’industria non metta neppure il piede nel processo di costruzione del giornale (o del programma). Come? Acquistandosi da sé i materiali da recensire.
    b) Cercare i propri interlocutori pubblicitari fuori dal mondo interessato della musica e dell’editoria. Esistono della moda, l’elettronica, l’informatica, l’automobile. Levi’s Jeans non può ricattarti, Mondadori sì.
    Questo, va da sé, non potrà essere la panacea di ogni male. I cattivi e i buoni giornalisti (o operatori culturali, se preferite) si guarderanno sempre in cagnesco. Così come sempre esisteranno recensioni faziose, o prevenute, o malate di egocentrismo, o semplicemente brutte, mal scritte e sbagliate.
    Però, forse, finalmente in questo Paese la cosiddetta cultura (ma perché non le cambiamo nome?) tornerà ad essere un riferimento centrale e solido per tutti. Non solo per gli intellettuali.
    Con buona pace di chi oggi batte felice la grancassa dello stupidario televisivo convinto d’aver definitivamente vinto ogni resistenza e piegato ogni facoltà critica.
    – Lo so che vi ho sfiancato. Me ne scuso, ma questa cosa mi stava sullo stomaco da dodici anni.

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