Un intervento nella (nelle) discussioni in corso di JPS in persona, via un’amica che lo conosce bene, a corollario di un commento ad un post precedente dove si citava Cos’è la letteratura:
“Noi non vogliamo aver vergogna di scrivere, e non abbiamo voglia di parlare senza dire niente. Del resto, anche se ce lo augurassimo non ci riusciremmo: nessuno può riuscirci. Ogni scritto possiede un senso, anche se assai diverso da quello che l’autore aveva creduto di infondergli. Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso, per timore che andasse a infoltire le truppe rivoluzionarie. […] Noi non vogliamo perdere niente del nostro tempo; forse ce n’è di meglio, ma è il nostro tempo; non abbiamo che questa vita da vivere, con questa guerra, questa rivoluzione, forse. Non se ne deduca, però, che vogliamo predicare una specie di populismo: al contrario. Il populismo è un figlio di vecchi, il triste rampollo degli ultimi realisti; è ancora un tentativo di cavarsela a buon mercato. Noi siamo convinti, invece, che non si può cavarsela a buon mercato. Fossimo anche muti e quieti come sassi, la nostra passività sarebbe ugualmente un’azione. Qualcuno potrebbe consacrare la vita a scrivere romanzi sugli Ittiti; ma la sua astensione sarebbe di per sé una presa di posizione. Lo scrittore è “in situazione” nella sua epoca: ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche. […] In conclusione, è nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella società che ci circonda. E con questo non intendiamo un mutamento di anime: lasciamo ben volentieri la direzione delle anime agli autori che hanno una clientela specializzata. Noi che, senza essere materialisti non abbiamo mai distinto l’anima dal corpo e non conosciamo che una sola, indecomponibile realtà, quella umana, noi ci schieriamo al fianco di chi vuole mutare insieme la condizione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso. […] Se potremo mantenere quanto ci siamo ripromessi, se potremo far condividere i nostri punti di vista a qualche lettore, non ne trarremo un orgoglio esagerato; ci feliciteremo semplicemente d’aver ritrovato una buona coscienza professionale, e del fatto che, almeno per noi, la letteratura sia tornata a essere quella che non avrebbe mai dovuto cessare d’essere: una funzione sociale.
Jean-Paul Sartre, presentazione di “Temps Modernes”, ottobre 1945
Ps. Intanto Stefano Massaron risponde ai commenti…
la letteratura è “musica per camaleonti”(non mi stancherò molto facilmente di citare Truman Capote:”viviamo nel buio,facciamo quello che possiamo.Il resto è la follia dell’arte”).
In due libri che ho letto ultimamente si affrontava il tema della definizione e della funzione della lettartura, e i due scrittori davano le loro risposte. Risposte che si rivelano essere stupefacentemente simili, quasi sovrapponibili nel legare intimamente letteratura e morte.
Umberto Eco: “La funzione dei racconti “immodificabili” è proprio questa: contro ogni nostro desiderio di cambiare il destino, ci fanno toccare con mano l’impossibilità di cambiarlo. E così facendo, qualsiasi vicenda raccontino, racontano anche la nostra, e per questo li leggiamo e li amiamo. Della loro severa lezione “repressiva” abbiamo bisogno. […] I racconti “già fatti” ci insegnano anche a morire.
Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente.
Thomas Pynchon: Quando parliamo di lettratura “seria”, in definitiva ci riferiamo a un certo atteggiamento verso la morte: a come i personaggi si comportano in sua presenza, o a come la trattano quando non giunge immediata. Questo lo sanno tutti, ma agli scrittori più giovani la faccenda non viene quasi mai spiegata.
riporto qui il commento in risposta ad Aleroots:
“Da “essere e tempo” in poi (di Martin Heidegger, spero che la precisazione sia inutile), gli scrittori giovani hanno tutta intera la responsabilità della propria insipienza. Su “l’essere per la morte”, sulla condizione di precarietà e più in generale sulla condizione umana, sulla responsabilità nei confronti della gestione del tempo, sull’analisi di situazione ed esistenza si fondava l’opera di Sartre a cui Lipperini fa riferimento nel post successivo. Non è un caso che le due definizioni che citi (che poi non sono esattamente definizioni) abbiano molto in comune. Tuttavia, Aleroots, bisogna sempre superare lo scoglio della pochezza intellettuale di chi ritiene che mezzo secolo fa vissero i dinosauri, e che l’essenziale l’abbia detto Carver, che prima non si pensasse, o che quel pensiero sia ormai stagionato. Balle a buon mercato per chi, con quel pensiero, non saprebbe confrontarsi e, di fronte a quel pensiero, dovrebbe negare la propria appartenenza alla tanto ambita “classe degli scrittori” (una classe meramente fittizia, una barzelletta costruita ad hoc e sigillata da strette di mano dei sedicenti scrittori).”
Aggiungo, e mi piacerebbe essere smentito, che io temo che gli abituali frequentatori di questo blog, lesti a sproloquiare qualunque sia l’argomento, non abbiano per lo più letto Sartre, e che si stiano documentando. Brutta faccenda, cercare il pensiero di Sartre transitando per google. Sempre sperando una rapidissima smentita, ripeto che è precisamente una colpa, e un preoccupante indizio di modestia intellettuale, scrivere pagine su pagine intorno all’argomento “letteratura” misconoscendo lo spessore di alcuni scrittori classici: non perché siano classici, come mi è capitato di far notare a Tiziano Scarpa, ma perché a volte hanno detto e scritto meglio di noi intorno agli stessi argomenti; e anche perché i “capolavoristi”, per adottare un neologismo che mette sotto accusa una patologia enormemente diffusa, sono come quei meccanici di formula uno che dimenticano di mettere le ruote alla macchina (meccanici molto ipotetici: solo la letteratura vive la perenne ambiguità di ospitare, in qualunque periodo storico, un certo numero di impostori)
…poi, posso essere d’accordo con te sul fatto che l’essenziale non l’abbia detto Carver (dicono i pettegoli che molto di Carver l’abbia detto il suo agente, perchè lui troppo preso dalla bottiglia) comunque, lui o l’agente, qualche racconto è stato “raccontato” bene.
Roquentin, però te lo ricordi che Contini attribuiva a Moravia (quello del 35) il merito di una lingua così “accattivante” – per usare una parola che ti farà incazzare – da far diventare Sartre, un moraviano? Per dire che le cose si incrociano. Poi, io dei pezzi de La Nausea li so a memoria. Sono sartriana o no? Boh. Forse sono solo “ossessiva”, no? Mica sempre uno che sa tante cose è un bravo scrittore.
roquentin, forse non essendo io sartre, tu hai letto con poca attenzione. ho detto, che la mia identità preferisco riconoscerla in una forma di ossessività. preferisco, non perchè non conosca sartre, semplicemente perchè – direbbe Sartre – dall’ossessività posso passare a una qualche forma di identità attraverso il linguaggio. dalla sartria-nità non saprei dove andare. perchè amo tanto la Austen, Dickens, Verga, ma anche Petronio e Flaubert(!sai no, sartre e flaubert?) che vengono prima di Carver, ma anche di Sartre. e anzi mi “proteggono” come sacri lari. sartre quindi va bene, ma solo se sta al suo posto, non perchè “il posto” occupi o voglia occupare posto, ma perchè ci sono tanti che “ilposto” flaubertiabamente – e quindi come voleva sartre – ama. Spettatarix credo che bisognerebbe sguinzagliare periodicamente un centinaio di professori e professoresse come il tuoi…
roquentin, forse non essendo io sartre, tu hai letto con poca attenzione. ho detto, che la mia identità preferisco riconoscerla in una forma di ossessività. preferisco, non perchè non conosca sartre, semplicemente perchè – direbbe Sartre – dall’ossessività posso passare a una qualche forma di identità attraverso il linguaggio. dalla sartria-nità non saprei dove andare. perchè amo tanto la Austen, Dickens, Verga, ma anche Petronio e Flaubert(!sai no, sartre e flaubert?) che vengono prima di Carver, ma anche di Sartre. e anzi mi “proteggono” come sacri lari. sartre quindi va bene, ma solo se sta al suo posto, non perchè “il posto” occupi o voglia occupare posto, ma perchè ci sono tanti che “ilposto” flaubertiabamente – e quindi come voleva sartre – ama. Spettatarix credo che bisognerebbe sguinzagliare periodicamente un centinaio di professori e professoresse come il tuoi…
…scusami Spettatrix, la mia era una parziale risposta al post di roquentin.
Roquentin, con tutto il rispetto, ma non sono assolutamente d’accordo sul tuo modo di lanciare sfide del tipo: se non avete letto tutti i filosofi (e io so credo di sapere che non li avete letti) non potete discutere correttamente di un certo argomento. Forse, cambiando un po’ la forma che mi sembra un tantinello da sfida all’ok corral, potresti rivolgere queste osservazioni ad accademici, critici e persone che della letteratura hanno fatto mestiere, ma sui blog pascolano anche animali parzialmente istruiti come la sottoscritta. Ti diro’ che io in questi spazi sono ben contenta di apprendere cose, qualche volta commentare, qualche altra giocare. Tutto in tema per carita’, tutto in tema e con i limiti che l’esigua cultura mi consente. Cosa c’e’ di male? leggo per piacere, per pensare, per passare del tempo, per limitare i danni di una limitata istruzione: potro’ avere anch’io opinione sulla letteratura o devo prima attingere a tutti i sacri pozzi e solo in seguito pietire un po’ di spazio?
Scusa la prolissita’, ma le tue osservazioni mi hanno fatto ritornare in mente un saggio e sicuramente poco classista insegnante di storia dell’arte. Era una persona che adoravo per l’erudizione e la semplicita’ (non banalita’) di esposizione. Una volta mentre discutevamo di una mostra d’arte di quelle con file kilometriche e strapresente su tutti i media, arricciai il naso come a dire che quella massa informe poco o nulla avrebbe apprezzato delle ‘Opere’ (con la O maiuscola perche’ tali le pensavo). Il suo sguardo di risposta mi ridusse la statura di qualche centimetro e poi con calma, intelligenza e stile mi spiego’ che stavo destinando una parte di umanita’ al ruolo di imbecille e che si’, forse per molti si trattava solo di andare in giro a dire che erano stati li’, ma che avendo loro fatto la scelta di andare lì e non allo stadio mostravano di avere un minimo di interesse, se poi anche solo una minoranza fosse partita da quel momento banale per approdare ad altro…vabbe’ finisco qui’
Prima di chiudere voglio pero’ farti presente che la prima volta che ho sentito declamare pezzi dell’Orlando Furioso e della Divina Commedia non e’ stato a scuola, ma da contadine/i semianalfabeti che le imparavano a memoria semplicemente ascoltando una persona che leggeva. Ero una bambina, loro erano dei vecchi e non ho fatto in tempo a chiedere se si erano fatti un’idea riguardo alla definizione di letteratura. Forse se l’avessi chiesto avrebbero detto che la cosa non li interessava, forse avrebbero detto che anche alle loro vite magre non sfuggiva l’esigenza del narrare e dell’essere narrati. Di certo a nessuno di loro veniva in mente di pensare che erano superiori a chiunque per il solo fatto di sapere a memoria quello che molti liceali o laureati non sapevano.
Besos
Innanzitutto: “la nausea” è praticamente un libro d’esordio, non basta averlo letto per essere sartriana, non basta averlo “capito”, non basta essere d’accordo con le tesi che si possono indovinare (ammettendo l’intento didascalico, dando per scontato il romanzo a tesi, ma non è esattamente così).
Del resto, io conosco a memoria alcune frasi di Mussolini, basta aver letto i suoi diari, ma non per questo sono fascista (difatti, sono antifascista). E conoscere non è mai sottoscrivere, per così dire.
Trovo il parere di Contini irrilevante, perché mi basta, intorno a Sartre e Moravia, sapere ciò che Sartre stesso pensava di Moravia (e giacché ebbe modo di comunicarlo pubblicamente più di una volta, non vedo come non tenerne conto).
“Sartriano” è un termine piuttosto vago, bisognerebbe aggiungere qualcosa: sarebbe meglio parlare di esistenzialismo sartriano. Ma c’è tutto un percorso, che inizia letterariamente con “La Nausea” e termina filosoficamente con i “quaderni per una morale”. In mezzo c’è la trilogia, c’è il teatro, c’è “l’essere e il nulla”, c’è “la critica della ragion dialettica”. Quindi, se eri in cerca di un’identità, è molto probabile che tu non debba fare riferimento a Sartre.
(Consiglio la lettura del breve e illuminante “L’esistenzialismo è un umanesimo”, che credo risalga al 1946)
“Roquentin, con tutto il rispetto, ma non sono assolutamente d’accordo sul tuo modo di lanciare sfide del tipo: se non avete letto tutti i filosofi (e io so credo di sapere che non li avete letti) non potete discutere correttamente di un certo argomento.”
Questa è la tua premessa. Tu puoi non essere d’accordo con il mio modo di lanciare sfide, ma se io non lancio sfide la tua disapprovazione cade nel vuoto. E’ colpa mia, ammetto di non essere stato troppo chiaro, qui: non mi aspetto qualcosa da TUTTI gli abituali frequentatori di questo blog, ma di chi si atteggia da intellettuale (lo avevo scritto qui: http://www.roquentin.net/archivio/che_cose_letteratura_e_quel_dinosauro_di_sartre.php
nella fretta ho mancato di precisione).
Faccio un esempio: chi discute, da scrittore, della “responsabilità” dello scrittore senza aver letto Sartre, ignorando Sartre, ha due possibilità (di solito): dire qualcosa di interessante, ma compiendo lo sforzo di chi reinventa la ruota da capo;
dire corbellerie, ignorando che partendo da una “sorta di lavoro già iniziato*” si potrebbe benissimo arrivare a conclusioni molto più chiare e molto più utili (o fermarsi ancora a metà, non importa).
* Non si può non riconoscere a Sartre questo merito, tra gli altri
Sul rapporto (per nulla sereno) fra Sartre e Moravia, lunghe e dettagliate pagine nei diari autobiografici di De Beauvoir. Su Flaubert Sartre scrisse un tomone (L’idiota di famiglia) al quale dedicò tutti gli ultimi anni della sua vita, e che in fondo parla soprattutto dell’idea di letteratura. Ma anche in “Cos’è la letteratura?” se ne parla, di Flaubert. Io credo che oggi il problema con Sartre sia semplice: lo si cita spesso (e spesso con sdegno o noia: “Ah! Ancora questo Sartre!”), ma non lo si legge. La risposta “narrativa” al quesito “cos’è la letteratura” è molto più nella trilogia della libertà (Età della ragione, Rinvio, Morte nell’anima) che ne La Nausea. E il principio sartriano è lineare, dopotutto: la letteratura è un gesto politico. La sensazione (mia, ma credo di condividerla con qualcuno, qui dentro) è che di questo gesto politico (se dico “responsabilità” sviene qualcuno?) non si parli quasi mai, preferendo le lusinghe del bello stile e varie amenità (classifiche, feedback, autolegittimazioni, esibizioni). Non sono di quelli che fanno proselitismo (“leggete Sartre! Tutti!”), ma mi domando: si può parlare di “cos’è la letteratura” nel 2005 saltando Sartre con disinvoltura? Io credo di no.
Giuste considerazioni, Babsi. E in larga parte condivisibili, a parer mio.
Però la proposizione di Ivan, sopra, che chi discute della responsabilità dello scrittore abbia “due possibilità (di solito): dire qualcosa di interessante, ma compiendo lo sforzo di chi reinventa la ruota da capo;
dire corbellerie..”, essendo un tertium non datur, assomiglia in maniera preoccupante alla sentenza del Califfo che conquistò Alessandria d’Egitto.
A chi gli domandava cosa fare dei libri della famosa biblioteca rispose “Bruciarli tutti: se dicono cose diverse dal Corano sono pericolosi, se dicono le stesse cose, inutili.”
lippa, dagli na ferma a sti capoccioni, che sennò così la cultura la rendiamo una pappa immangiabile. vero rochefort?… vai a farti una passeggiata, che ti fa bene.
lippa invece è una in gamba.
No, Fabrizio, il mio tertium non datur è di tipo aristotelico, ossia è puramente logico, mentre il tuo Califfo esprime un imperativo, e il suo tertium non datur non è di ordine logico ma prescrittivo (enuncia un ordine), in nome di un postulato che afferma qualcosa sulla pericolosità sociale di alcuni testi. La somiglianza è del tutto formale, ma si tratta di casi radicalmente differenti. Per spiegarmi meglio, io non dico che chi discute intorno alla responsabilità dello scrittore debba aderire al pensiero sartriano o altrimenti debba essere messo in manette, ma dico che gli convenga dal punto di vista della fatica da compiere (da qui la metafora: reinventare la ruota). In più, se vi è un postulato implicito anche nella mia affermazione, non mi resta che dichiararlo: dalla sua accettazione o meno dipende il sentirsi vincolati a quello che si presenta come un aut-aut, e alla filosofia di Sartre: “pare” che ogni scrittura sia gesto politico. Il postulato, in realtà, non è mio, ma di Sartre stesso. Se ti chiedi quale sia il valore di questa riflessione intorno a Sartre, faccio un passo indietro e torno alle parole riportate da Lipperini:
“Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi “.
Secondo me (ma è scontato, tutto questi “secondo me” mi logorano) viviamo in una di quelle epoche in cui le lettere sono in crisi (Italia, 2005), con tanto di gingilli d’inanità sonora. Chi è convinto che io attacchi qualcuno si sbaglia di grosso. Io “ho già perso”.
“E nel tempo stesso ho appreso che si perde sempre. Ci sono solo i porcaccioni che credono di vincere.”.
Posso, mi chiedo, provare a compilare un elenco dei sporcaccioni? Impresa vana, nel numero si assolvono.
Mi pare che sia chiaro che io e Babsi abbiamo sostenuto, in modi diversi, gli stessi concetti; chi sostiene che la scrittura sia un gesto politico li troverà ovvi, non per questo è inutile tornare a ripeterli.
E.C.: “sporcaccioni”, due commenti sopra, è un refuso che sta per “porcaccioni”
Babsi,messa cosi, pur nella mia ignoranza, condivido: di sartre conosco poco e credo di aver letto solo ‘la nausea’ e i ‘sequestrati di altona’.
Il post della lippa mi suona (piu’ o meno) in codesto modo: la letteratura e’ una funzione sociale che lo si voglia o meno, che si sia consapevoli o no. Vorrei tanto sentire cosa ne pensano quelli di NI. Dai loro post (ma confesso di non avere letto tutto) mi pareva di capire che gli scrittori sono una ‘funzione editoriale’. Vorrei avere torto e sarei contenta se qualcuno mi spiegasse perche’.
‘notte e besos
@ spettatrice: la scrittura è una funzione sociale, appunto, e si deve aggiungere che d’altra parte, essendo gesto politico, ogni parola scritta ha il valore di un impegno (direbbe Sartre: “è impegnata), è una “presa di responsabilità” dell’individuo. Tralascio il legame tra libertà e responsabilità per non appesantire la mia “nota a margine”; una possibile risposta ai tuoi dubbi intorno al dibattito di NI è che, solitamente, alla “parola impegnata” si contrappone la tentazione dell’irresponsabilità.
Ehi, quanti ricordi… “L’existentialisme est un humanisme”… ce l’ho in francese, ma dove diavolo l’ho messo? Grazie Roquentin, mi hai fatto venir voglia di riprenderlo in mano.
“la mia letteratura è emotiva,le mie storie sono emotive;l’unico spazio che ha il testo per durare è quello emozionale;se dopo due pagine il lettore non avverte il crescendo e si chiede:,quello che capisce niente mica è lui,cari miei,è lo scrittore.Dopo due righe,il lettore deve essere schiavizzato,incapace di liberarsi delle pagine;deve trovarsi coinvolto sino al parossismo,deve sudare e prendere cazzotti e ridere,e guaire,e provare estremo godimento.Questa è letteratura”
Colpo d’oppio – P.V. Tondelli(i cui ribaltamenti nella tomba,secondo logica,dovrebbero tenerci svegli per l’eternità,per intenderci.Lessi Sartre a sedici anni,il “mio” secondo libro dopo le memorie di Mister Samsa.Capii che quell’amena lettura non mi portava da nessuna parte,mentre io volevo visitare le bellezze del “non luogo”.Buona camicia a tutti)
Ogni scrittore ha partorito un “questa è letteratura”: da Kerouac alle patacche di Céline, dalla Duras a Scaccabarozzi, credo che uno Scaccabarozzi letterato esista. Sono tutti discorsi interessanti, e ognuno si rispecchia in quello che più gli è consono. Il problema è che Sartre va un bel po’ oltre il giochino dello specchio; non si parla di emozioni e percezioni, ma di libertà e responsabilità. Cito, che faccio prima:
“Venivano verso di lui, ne erano attratti: perchè poneva ad alta voce gli stessi interrogativi che loro si ponevano in silenzio. Ma poi, da lui fuggivano, perchè erano urtati dalle sue risposte. Le sue risposte non offrivano nessuna consolazione: offrivano solo una possibile libertà faticosa. Certamente li arricchiva, ma al tempo stesso li metteva a disagio. Era troppo esigente; la sua filosofia dell’esistenza ammetteva solo uomini responsabili, disposti alla volontà e alla prassi. Poichè diceva la verità, lo ascoltavano ammirati; poichè diceva la verità, finivano col detestarlo e sentirsene offesi. Era un uomo difficile”. E’ De Beauvoir, in uno dei diari.
Poi, uno è libero di scegliersi tutti i “non luoghi” che gli pare, ma i “non luoghi” restano in tutto e per tutto nel mondo, ed è in relazione al mondo che ci si deve porre. Non c’è un altro mondo, e la scelta che facciamo (da lettori, da scrittori, da imbianchini: non importa) è nel mondo: questo. (Per altro, l’idea di un Sartre palloso e filosofico è solo di chi non lo ha letto: io, per citare Diamonds che cita Tondelli, ho sudato e preso cazzotti e riso e guaito leggendo “Il rinvio”. Provare per credere?)
Grazie a Stefano Massaron per le risposte puntali e produttive 🙂 Solo che per quanto mi riguarda mi sa che dovrò cambiare nome. Tutte quelle xxx! Ci penso.
“A parlare di ciò che non si conosce, si finisce con l’impararlo.” – Albert Camus
Sarà che oggi non ho molta voglia né di parlare né d’imparare. O forse è solo l’impressione che molto si è detto sprecandolo però. Sia come sia, in fondo si scrive da soli anche.
Buona domenica.
Iannox
@ LOREDANA
Cara Loredana,
solo era una provocazione in stile esistenzialista. Si scrive da soli e si legge da soli. ;-D
Saludos
Iannox
Beh, io non credo che le cose dette, qui e altrove, vengano mai sprecate…Altrimenti, cosa staremmo a fare da queste parti?
🙂
Alla “spettatrice” che, davvero troppo umilmente, confessava i confini della propria “competenza”, consiglierei la lettura – talvolta faticosa, ma in generale assai “premiante”, di: “Pierre Bourdieu – La distinzione: critica sociale del gusto” (ne ho appena sistemato un piccolo frammento sul mio blog, allo scopo di esemplificarne il “sapore”). Credo che, dopo tale lettura, sarebbe in grado di “situare” psico-sociologicamente con una certa precisione certe affettazioni – abbastanza tipiche – di “superiorità” culturale, e di non farsene condizionare.
Ciao
http://www.elio-c.splinder.com
Siamo d’accordo: Sartre è imprescindibile e la letteratura deve avere una funzione sociale.
Detto questo, cosa facciamo? Di che tipo deve essere questa funzione sociale? Su, ragazzi, datemi un aiuto. Denuncia delle brutture del mondo (ma sono sempre le stesse)? Denuncia dell’ipocrisia religiosa, apologia dell’ateismo (il che mi fa esultare, ma alla centesima analisi dell’inconsistenza delle prove sull’esistenza di Dio, l’audience calerebbe inesorabilmente e le vendite di santini con su Ratzinger aumenterebbero)? Profonda osservazione del lato oscuro del cuore umano (ma in ognuno dei 2680 noir pubblicati ogni anno c’e questa pretesa… Non basta vedersi Hannibal the Cannibal?)? Potremmo scrivere libelli contro Ratzinger, contro Berlusconi, contro Bush, contro le guerre mediorientali ecc, ecc,? Forza, ragazzi, dobbiamo a tutti i costi far capire che la società governata dalle lobby cattolicocapitaliste è malata. Penso che una cosa del genere non sia mai venuta in mente a nessuno! Sì, facciamolo! Anzi, gia che ci siamo, dichiariamo guerra totale alla borghesia! Quale borghesia? Tutte le borghesie! La borghesia editoriale, la borghesia artistica, la borghesia borghesia, il cui orribile avatar è questo governo da macchietta che imbratta le poltrone del parlamento di Italietta. Siamo pronti a dar la vita, a rischiare la galera, ad essere profondamente inattuali, nel senso nietsciano. Prima o poi ci sarà la meritata riscossa per noi intellettuali engagée… E se faremo successo, non useremo questo successo per incentivare la proprietà privata. No! Devolveremo tutti gli incassi alla causa delle donne moldave o per ripristinare le cave di Gela o ad Amnesty International o a Medici Senza Frontiere. Quando poi noi tutti avremo il potere, aboliremo Mediaset e ne faremo un unico palinsesto tipo Fuori Orario di Rai Tre. 24 h su 24 di cultura, cultura cultura! E se mai ci daranno il Nobel lo rifiuteremo. È vero che lo faremo, compagni? È vero? Ragazzi, dove siete? Ehi, ragazzi!… Non c’è nessuno… solo, come una particella di sodio…
Aveva proprio ragione Adorno: comunque agisca, l’intellettuale sbaglia.
Ma il mio Sartre è più Sartre del tuo!
Massimo, il fine politico della scrittura è qualcosa di più, che denunciare l’hic et nunc. Dipingere le dinamiche del potere – che sono adesso le stesse che erano cento, mille anni fa; che saranno tra cento, mille anni – per esempio. Fornire visioni alternative. Magari con l’ironia che padroneggi così bene:)
Massimo? Parole d’ordine per la rivoluzione? Ma non faremo di Sartre un vessillo, e della responsabilità un gioco di società! Il punto non è se essere impegnati oppure no, è se accettare o meno una logica che, portata alle sue estreme conseguenze, rifiuta tutte le forme di compromesso, che ti vincola alla buona fede e al disagio: l’intellettuale, per essere onesto, non ha altra scelta che quella di occupare una posizione scomoda e di vivere a disagio nel proprio tempo: egli farà il grillo parlante all’interno di un mondo che in buona sostanza lo disgusta; rinnegherà la pacata quiete borghese (è nella pacatazza che conduce all’indolenza che si conserva storicamente la borghesia, mutando i propri connotati di classe ma assolvendo ancora alla medesima funzione), fabbricherà da sé una moralità insicura e precaria; sbaglierà, perché deve sbagliare, un numero infinito di volte; nella maggior parte dei casi, parlerà al vento e morirà in solitudine. Solo per chi non ha letto Chomsky – tanto per dire – di tratta di anticaglie intellettuali; basta prendere in mano qualunque raccolta di saggi come “linguaggio e libertà” per scoprire che si parla ancora dell’obbligo morale che vincola gli uomini di cultura all’impegno politico. Sartre si è limitato ad anticipare i tempi, con grande lungimiranza, comprendendo che era in corso, filosoficamente e socialmente, un grande processo di deresponsabilizzazione collettiva, e che la parola scritta ne era sempre, in ogni modo, coinvolta.
Caro Massimo autocito quello che scrivevo il 14-4 in risposta a un altro intervento sempre da Lolip. Lo faccio per parziale narcisismo, ma anche per ribadire che non si tratta di desiderare ‘intellettuali organici (a che?), ma quantomeno di avere di fronte persone che non si immaginano sulla luna e disquisiscono sui problemi della luna editoriale come se neanche orbitassero da qualche parte.
14-4
Ho letto parte del dibattito di Nazione Indiana. Sono frastornata. Lo percepisco come un rimpallarsi considerazioni di carattere anche molto personale. Mi sembra che ci sia una certa difficolta’ a identificare i problemi e questo perchè non si considera l’idea di essere ……nei problemi e di agire come parte integrante di essi. Mi spiego. Che siamo in un’epoca di ‘restaurazione’ del peggio che l’umanita’ e’ in grado di produrre sembra assodato a molti, che il mondo editoriale e la vita di scrittori e artisti ne faccia parte a pieno titolo pure e che ognuno di noi sia immerso nella melma sino a diversa altezza e intensita’ non sembra contestabile. Nessuno e’ fuori da questo merdaio, neanche chi ne stigmatizza le dinamiche: in misura maggiore o minore siamo tutti attori sulla scena. Non ha senso rimpallarsi responsabilita’ o codardie di sorta e non ha senso neanche rassegnarsi allo stato di cose. Meglio analizzare, capire, creare, fare scelte anche importanti e difficili. Saro’ pure retorica, ma a uno che sta a menarla sugli aggettivi e le frasi usate nella discussione preferisco altri che (forse rozzamente) provano a trovare strade e alternative….
…..Chiaramente le mie sono opinioni personali e saro’ ben felice di scoprire che ho sbagliato tutto e che quello spreco di parole ha un senso che non ho afferrato…. pero, visto che non sono molto perspicace, spiegatemelo…..
L’ho incollato, ma prometto di non ripetermi.
Giusto per finire: dal mio punto di vista (oltremodo modesto) è la consapevolezza che conta, il sapere dove ci si trova e cosa si sta facendo (da qualsiasi punto di vista uno voglia valutare la cosa: marxista, di destra o altro), le opere poi prendono strada da sole e sono loro e l’autore a fare quella funzione sociale che puo’ beccarsi dagli applausi agli insulti e dare avvio alle rivoluzioni o ai forni crematori. In sintesi: che non se la raccontino e che non ce la raccontino.
Forse non e’ lo stesso concetto di Sarte, ma non ho ancora deciso cosa fare da grande e mi affido al salvifico Divenire incrociando le dita e sperando che gli ‘intellettuali’ imbrocchino la strada giusta.
Hanno deciso di portarci tutti a EuroDisney?…..o my god!
Besos
Elio-c grazie sia per le premure che per l’assaggio’ sul tuo blog.
Alcune delle tue immagini mi hanno fatto venire voglia di piantarla con la vita da blog per riprendere pennelli, argilla e altro: cosi’ discuto meno e realizzo qualcosa.
besos
p.s.: comunque lo sfoggio di ‘superiorita’ culturale non mi impressiona ne’ mi condiziona. Se non e’ eccessiva puo’ anche farmi venire voglia di imparare, mentre se supera i limiti di solito cedo il passo e lascio andare (tanto prima o poi uno piu’ stronzo di loro lo trovano di sicuro :-).
Per roquentin
Credo che il processo di deresponsabilizzazione collettiva abbia origine addirittura nella preistoria.
Eccetto che nella lotta quotidiana per il cibo, che nessuno poteva delegare a qualcun altro, l’uomo lasciava volentieri che qualcuno più potente si prendesse la briga di pensare e decidere per lui.
Condivido istintivamente la tua immagine dell’intellettuale, anche se richiede molto molto coraggio. Un coraggio che non vedo da nessuna parte, peraltro. Da Nietzsche in poi l’intellettuale (ma direi l’essere umano), onesto in primo luogo con se stesso, vive nell’inattualità.
Il punto è che se mentre un tempo i grilli parlanti si cercava di eliminarli o di ridicolizzarli, adesso sono parte integrante del sistema. Il sistema ingloba chi è a favore e chi è contrario. Il mercato nutre allo stesso modo il borghese filofascista e la rockstar miliardaria che indossa la maglietta con su Che Guevara. Il peone non vuole più la terra, vuole la tv e il cellulare, la bamba buona e la bella macchina. La rivoluzione è fatta in nome della playstation. Ci sono addirittura dei giochi (non scherzo) in cui si possono simulare dittature su isole che il giocatore deve sgominare allestendo una rivoluzione.
E in questo bordello ci si può scandalizzare della bonaria industria letteraria di Italietta?
Mi chiedo chi, senza pensare a un paragone con Sartre (figura semplicemente gigantesca), può essere un vero grillo parlante dei nostri tempi?
Chi, nel paese dei balocchi, è disposto a morire in solitudine?
Concordo pienamente con spettatrice sul fatto che le opere, una volta “partorite”, trovano da sole la loro strada per il mondo. E poi lei ha sintetizzato in una riga il senso del mio post: che non se la raccontino e non ce la raccontino. È bello giocare con la letteratura, ma chi è in grado o è disposto a creare qualcosa di veramente alternativo, ed è pronto a viverne fino in fondo le conseguenze?
In questo senso Sartre rappresenta l’intellettuale che vive fino in fondo le sue scelte.
Chi oggi avrebbe i coglioni di rifiutare il Nobel? Chi? E non mi si risponda che non ce ne sarebbe bisogno, che i tempi sono cambiati. I tempi sono cambiati solo fino a un certo punto.
I giochetti di potere hanno solo cambiato i partecipanti, le dinamiche sono le stesse.
Ma non vorrei bloccare il discorso su Nobel sì, Nobel no. Chissenefrega del Nobel. Dubito che nel panorama attuale italiano si annidi un possibile futuro candidato che si possa porre il problema.
Chi è dunque in grado di sfuggire all’industria culturale? Chi lo desidera veramente? Ha senso desiderarlo? È un circolo vizioso da cui non si esce? Chi è che non vuole il suo momento di gloria? Anche Sartre lo voleva… E adesso la gloria può venire solo dall’industria culturale. Ribelli o conservatori, nuovi quasi-Proust del parioli o vecchi e nuovi cannibali, sinistre e destre, sopra e sotto, si muovono tutti dentro il cerchio dell’industria culturale. E nell’industria culturale si può trovare la gloria (effimera quantro si vuole, ma pur sempre titillante il nostro vibrante ego) ma difficilmente si possono trovare le leve per un reale cambiamento del mondo. Può anche darsi che sia bello anche solo discutere e accapigliarsi. Può anche darsi che chissenefrega di cambiare il mondo. Dopotutto siamo tutti plurimaggiorenni. Le illusioni sono svanite.
Sartre potrebbe rimanere un amico dell’adolescenza che si ricorda con tenerezza, come si ricordano le smemorande e il Male con i fumetti di Andrea Pazienza.
A meno che… non ci sia da qualche parte un futuro candidato a rifiutare il Nobel 🙂
“È bello giocare con la letteratura, ma chi è in grado o è disposto a creare qualcosa di veramente alternativo, ed è pronto a viverne fino in fondo le conseguenze?
Chi oggi avrebbe i coglioni di rifiutare il Nobel? Chi? […] Chi è che non vuole il suo momento di gloria? Chi, nel paese dei balocchi, è disposto a morire in solitudine?”
Massimo, posto che non so cosa tu intenda per “alternativo”, a tutte le altre domande che ho copincollato posso risponderti serenamente: io. E non intendo dire che ho la preparazione culturale e l’immaginazione di Sartre, ché non ce le ho, ma l’integrità sì. E mi auguro che ci siano altri disposti a rispondere “io”. Perché se davvero tutto questo bordello (cosa-sarà-mai-la-letteratura?) si riduce a un escamotage per ritagliarsi una fettina di “paese dei balocchi”, se davvero si scrive (ma più in generale, si “sta nel mondo”) senza “essere pronti a viverne fino in fondo le conseguenze”, beh, siamo ridotti a ben poca cosa. E lo vedo, che in questa pochezza ci affondiamo: Sartre lo si liquida come anticaglia (o utopia, nel migliore dei casi). Ma allora, perché porsi così di frequente le stesse domande: “Cos’è la letteratura, che senso ha, quali scopi”? Se davvero è un gioco, un trastullo, una gara per ratti, un trucchetto per guadagnarsi 15 minuti di gloria, perché menarsela tanto? E’ questa, la domanda che pare tormentarli*, lo vediamo. La mia impressione è che di Sartre ci sia “bisogno”, ma che di Sartre si abbia “paura”, perché domanda un gran salto nel vuoto, una responsabilità durissima. Poi, per carità, magari sbaglio tutto io, e Sartre è un eroe solitario della mia infanzia, un sogno, un Don Chisciotte coglione. Nel caso, continuerei a preferirlo a tutto il resto – che mi sembra un gran niente, e anche male organizzato:)
*Tormenta altri, non me. Io non mi chiedo cos’è la letteratura, visto che m’ha già risposto Sartre e m’è parso assolutamente convincente. Come direbbe Roquentin, non ho bisogno di reinventare la ruota ogni mattina, svegliandomi.
Per Massimo:
Ammettiamo che qualcuno abbia bisogno del maggiordomo per pensare e di un pastore per agire, una via di mezzo tra la servitù intellettuale e la servitù del bastone. Stiamo descrivengo la condizione di parte dell’umanità: è necessaria la libertà, è necessario agire e pensare in proprio, rispondere in prima persona? Non si può decidere. Io dico che, nel dubbio, si debbano eliminare maggiordomi e pastori: l’offerta della libertà insieme al peso della responsabilità. Chi allungherà le mani verso questo piatto? Io, per primo, l’ho fatto ogni volta che ho potuto: ho provato a farlo ogni volta che mi è stato impedito. Questa è la mia vita, non ho fatto altro che rincorrere la responsabilità e la libertà, per lo più senza raggiungerle. Ho ancora fiato, sono ancora vivo. La corsa continua, ma non c’è nessun tipo di gara e nessun genere di premio, perché arriva comunque un giorno in cui non è più possibile correre. La morte è il limite di ogni impresa, già folle senza di essa. Scelgo la follia, e quanto alla morte non sono costretto a scegliere. Il coraggio è quasi una necessità logica, e per chi viva così, in ogni caso, non è neppure un valore: è l’unica possibilità, e non c’è altro da fare.
Il sistema digerisce sia i contestatori che i suoi indolenti complici? Certo, dal punto di vista della storia. Ma io non sono l’umanità, sono un individuo, e la storia è il punto di vista dei vivi di domani riguardo i morti di ieri; e sono chiamato a ragionare e agire adesso, senza tener conto di ciò che sarà delle mie ossa: in ogni caso, solo ai vivi è concessa la libertà, ma a caro prezzo: che si illudano sui tempi e sui modi, che la sfiorino appena, che la perdano di continuo come accade con gli occhiali agli uomini distratti. E come gli occhiali, tuttavia, la libertà sta davanti al loro (nostro) naso. La libertà è dell’uomo e non può essere di nessun altro, è quasi una tautologia. Servirà coraggio, e il coraggio fa tremare le gambe. Se necessario, inventeremo un altro nome, in fondo al coraggio c’è troppa confusione.
Ci si può scandalizzare dell’industria letteraria? Sarebbe come scandalizzarsi di tutti quegli uomini di cui l’industria culturale incontra, in una corrispondenza consapevole e furfantesca, il gusto ammaestrato al silenzio, addestrato a non chiedere nulla di più di ciò che otterrebbe comunque: patacche a buon mercato, rumorosi prodotti d’inerzia intellettuale; i capolavori fasulli per cui si grida ogni giorno. Chi, nel mondo degli uomini, potrebbe davvero sperare di non morire in solitudine? Il punto non è questo, secondo me: chi, piuttosto, rischierà di sopportare l’esilio in vita, le contumelie degli impostori, il riso degli imbecilli? Se la metti così, non avrai difficoltà a indovinare la mia risposta alla tua domanda.
L’intensità drammatica di Roquentin è molto attraente, e su diversi punti sono anche d’accordo con lui, però certi suoi “disdegni” sinceramente mi infastidiscono, mi appaiono più “reattivi” e viscerali che non ragionati. Certo, il disprezzo del mondo è una posizione filosoficamente ineccepibile, però un conto è prendersela con un demiurgo incapace, un conto “infilzare” coloro che evidentemente non hanno avuto in sorte delle condizioni adatte a sviluppare una coscienza critica, un’intellettualità ed una sensibilità elevate come quelle di Roquentin, il quale sembra del tutto avvinto in un “essenzialismo” romantico non certo all’altezza di certe sue altre, sopraffine, differenziazioni. Si potrebbe allora chiedere, per capire meglio, a Roquentin di descrivere una “genealogia” – anche inventata (qui non possiamo comunque occuparci di “persone reali” – sarebbe ingenuo pretenderlo – ma soltanto di figure astratte, “letterarie”) della propria superiorità. Come abbia ricavato IL TEMPO necessario ad avvicinarsi a Sartre con tale aristocratica intimità? Come si procuri i mezzi materiali per vivere così “libero”, seppure, immagino, molto austeramente? Avrà idea di quanto egli dipenda dal “sistema”, tanto per gli atomi materiali (in perpetuo rinnovamento) di cui è fatto, quanto per i “memi”, selezionatissimi, che popolano il suo cervello?
urgono valanghe del coraggio della nonna di Switters( Tom Robbins -fierce invalids home from hot climates),una che non lascia che le proprie scelte e i propri gusti siano condizionati dalla paura della solitudine,che è dovizia interiore(entro i limiti)
Dannazione, quando si riedita dalle finestrelle di input, si introducono più nuovi errori di quanti non si eliminino. Vabbé.
Per Elio.
Evitare i malintesi non è, evidentemente, la cosa che mi riesce meglio. Quale mondo disprezzo? Certo, alla maniera di Camus griderei volentieri contro il dio inoperoso e distratto, ma mi mancano le forze, e in ogni caso sarebbe un “dovere da personaggio”, perché un ateo sano di mente non ha nulla da dire a chi non si preoccupa nemmeno di esistere. Io amo gli uomini, non ho amato altro che uomini (non in senso di genere, ma di specie): non tutti, ma alcuni. Non posso amare l’umanità, perché il mio irreligioso amore non prevede altra possibilità che d’essere intimo. Disprezzo il mondo solo in quanto lo giudico “fatto male”, come disprezzerei l’opera di un demiurgo, se tale demiurgo fosse mai esistito: perciò giudico e disprezzo l’opera degli uomini che si chiama mondo, è vero: ma da un punto di vista storico, perché ciò che non mi piace è fissato in modi, legislazioni e costumi che non sono nati dalla barbarie delle bestie e che si possono cambiare. Il mio disprezzo ha un valore politico, serve a dire: non sono soddisfatto, non lo sarò mai, non dovete essere soddisfatti, non dovete esserlo mai. Giacché non sono un profeta, né aspiro ad esserlo, tutta questa è una prolissa spiegazione per metafore e paradossi. E’ la società che non mi piace, ma fai attenzione: questo pensiero contiene un ottimismo della volontà praticamente illimitato, ed una illimitata fiducia nella capacità degli uomini di cambiare e migliorare. Quante persone potevano leggere e studiare nel medioevo? Quante possono leggere e studiare oggi? Quanti morivano per malattie che si pensava fossero incurabili?
Si migliora, ma non basta.
Quanti, oggi, muoiono prima ancora di poter pensare, di fame e di stenti? Di chi dovrebbe essere la responsabilità, in un mondo in cui le bestie non amministrano nulla, e l’organizzazione è nelle mani di una sola specie? (più, certamente, di quella pseudo organizzazione che è l’ecosistema).
Brevemente, sui memi. Non ci sono memi nella mia testa: i memi sono un’ipotesi scientifica, o a carattere scientifico, da Dawkins a Dennett, che serve a spiegare un gruppo di fenomeni che si può spiegare benissimo senza di essi. In più, tendono a spiegare fenomeni di cui è già complicato constatare la veridicità, fenomeni di tipo sociale, oserei dire. Ho certamente dei geni: ma che io abbia dei memi, dipende soltanto dalla mia accettazione o meno di una certa spiegazione pseudoscientifica (alla fine, lo dico: riduzionista).
per spettatrice, quandi dici:
“Giusto per finire: dal mio punto di vista (oltremodo modesto) è la consapevolezza che conta, il sapere dove ci si trova e cosa si sta facendo (da qualsiasi punto di vista uno voglia valutare la cosa: marxista, di destra o altro), le opere poi prendono strada da sole e sono loro e l’autore a fare quella funzione sociale che puo’ beccarsi dagli applausi agli insulti e dare avvio alle rivoluzioni o ai forni crematori. In sintesi: che non se la raccontino e che non ce la raccontino.”
Ma la consapevolezza non è tutto se con quel “conta” vuoi esprimere un giudizio morale. Pare che Adolf Hitler fosse un uomo perfettamente consapevole dei propri atti, lucidamente progettati e terribilmente portati a compimento (o quasi). La consapevolezza ha bisogno ancora di qualcosa, ed è per la ricerca di questo “supplemento” che si può tirare ancora in ballo Sartre (che non risolse certo il problema, perché “morì domandando”). Prendi per un istante Sartre come un simbolo (lo è di certo, simbolo di qualcosa: ma prendilo come un simbolo attenuato): onestà, responsabilità, libertà: giustizia. La consapevolezza è compresa nel prezzo, ma come si arriva alla giustizia, su che muro bisogna sbattere la testa dal momento che dio è morto e sepolto? La vecchia questione “se dio è morto tutto è concesso” deve trovare una soluzione adatta. La risposta: tocca a noi stabilire la direzione, quando non sia vincolante per tutti, diviene fallimentare. E non è vincolante per tutti, in nessun modo…chiunque la può rifiutare, e di fatto così accade. Io dico che “scelgo di scegliere”, (io, non Sartre, adesso): non ogni atto è equivalente ad ogni altro atto, non mi piace il nichilismo, voglio la mia volontà: i suoi atti, cioè la sua deriva, fabbricano uno spazio che non è, per costituzione, una gabbia. Compio atti nel mondo, e non li compio da istruttore di menti, né vado ammaestrando alcuno alle mie briciole di filosofia (come direbbe Adorno): la mia scelta e miei atti si sottopongono all’altrui giudizio. Perdo oggi e perderò domani, ma non sono in cerca della vittoria. Voglio una vita, e che sia autentica.
Una nota a margine: la funzione sociale si sottrae, purtroppo, al limitato potere dell’autore, e spesso a quello del lettore. Prima ancora di essere letteratura i libri sono merci, prodotti che entrano in un mercato, con le inevitabili e convenienti etichette (le etichette non badano mai alle intenzioni dell’autore).
sbaglierò,ma a me pare che le vostre visioni siano infettate(nel senso più notturno del termine) più che dal Sartre-pensiero dai batteri del Fumo di Turgenev
Ringrazio Roquentin per la cortese risposta, i cui contenuti mi trovano in sostanziale sintonia. Concordo anche sui “memi”, il cui concetto adoperavo soltanto per l’opportunità di “dirla in breve”. Ciao
Roquentin, dannazione 🙂 mi costringi a pensare e spiegare anche se l’unica cosa che voglio e’ bere un te e mettermi a letto per smaltire questo penoso raffreddore. Vabbe’ ti dovrai accontentare dei miei limiti e della mia ovattata sensibilità (mi sembra infatti di avere il cervello pieno di cotone idrofilo, altro che memi, mementi o memoria)
Nella mia ovatta la ‘consapevolezza’ e’ una base di partenza in cui, a seconda delle persone, possono rientrare visioni del mondo molto differenti ed e’ quel sentire, teorizzare, agire che ci permette di non raccontarcela e di non raccontarla, ma di vivere con una basilare onesta’ intellettuale e di azione sia nei nostri confronti che nei confronti del mondo. Ritornando al tuo esempio di Hitler e alla mia descrizione di consapevolezza posso dire che sì Lui era sicuramente consapevole e agiva in funzione del mondo che voleva creare. Altrettanto consapevoli erano i partigiani che si opponevano alle sue truppe.
Quindi con ‘conta’ non esprimevo un giudizio morale.
Se adesso ti stai chiedendo perchè reputo la ‘consapevolezza’ tanto importante anche se comprende Hitler e il partigiano e’ presto detto: perchè penso che sia la base di una vera dialettica tra umani. Non c’e’ dialogo ne’ crescita quando si ha la pretesa di essere e agire facendo finta che tutto sia accozzaglia indistinta e informe. Molti se lo raccontano e ce lo raccontano, ma c’è una sostanziale malafede di fondo. Per questo credo che ci faccia stare così male il fatto di assimilare ex salo’ a ex partigiani. Ci stanno defraudando non solo della memoria storica, ma anche della possibilita’ di definire noi stessi.
Allo stesso modo io mi sento defraudata della mia capacita’ di dare senso a discussioni come quelle su NI quando non mi e’ per niente chiaro che cosa stanno cercando di evidenziare gli interlocutori oltre a luoghi comuni e generiche affermazioni sul mondo editoriale. In poche parole non riesco a distinguere le loro differenze e complessita’ neanche quando sembra si stiano scannando per qualcosa: mi sembrano indistinti e intercambiabili e …vabbe’
Certo si tratta di miei limiti di comprensione e, visto che il filosofare non mi appartiene, anche di limiti come strumenti di analisi, per questo sono contenta (nonostante la febbre) di dovermi sforzare a dar risposta. Sia mai che finisco col partorire qualcosa.
In attesa che tu faccia le pulci alle mie elucubrazioni.
Besos
Piccola parentesi
Vero poi che i libri sono merci e che la funzione sociale si sottrae a autori e lettori. Volendo essere pessimisti, si potrebbe dire che si sottrae e basta, poi che si e’ atrofizzata e morta. A quel punto potremo anche chiederci se noi siamo vivi e lo siamo mai stati. Non dico di avere ottimismo, ma almeno che so, facciamoci un sorriso, continuiamo a scriverci e facciamo pure qualcosa di pratico che altrimenti al raffreddore si aggiunge la depressione.
In riferimerimento a uno dei post di cui sopra, trovare un pò dell’energia della nonna di Switters non puo’ che farci bene.
Insomma Roquentin, per concludere con uno dei detti WM (e non solo loro): si puo’ quel che si fa.
….che ci permette di non raccontarcela e di non raccontarla, ma di vivere con una basilare onesta’ …….
al posto di onesta’ meglio sarebbe dire coerenza…sorry
Spettatrix, però forse tu hai ragione e sono tonta io. O ho ragione io, e…no, tu non saresti tonta, solamente saresti più attrezzata alla vita. Oppure, 3. bisogna vivere come se: come se gli altri fossero in buona fede: Come se gli altri quando ti dicono, “Ma io non volevo dire quello!”, davvero non avessero voluto dire, quello. Se no, io (mi sto riferendo a NI) perchè prendo per buone certe forme di aggressività (dico, sono determinate da fondamentale onestà di fondo? Siccome è di senso di responsabilità, onestà intellettuale, che si sta parlando, perchè non mi spieghi bene quel punto, visto che tu sei raffredata e io sto nella solita lavanderia notturna ad aspettare che il tempo passi?
Spettatrice, tutto ciò che hai scritto era una premessa indispensabile, non mi sembra per nulla obnubilata. Sono d’accordo punto per punto, sarebbe stato d’accordo pure Sartre (mi prendo questa innocua responsabilità, nessuno avrà il coraggio di negarlo sulla base delle sue parole). Senza la coerenza non si va da nessuna parte; l’avevo già “presa per buona”, ma ti ringrazio della lucidissima spiegazione. Al fondamento stesso della filosofia dell’esistenza c’è il problema dell’onestà, o la sua versione (lievemente declinata) della “autenticità”. Mi sento un po’ come un aguzzino, ma insisto: già prima di Sartre, il problema del poter-essere-se-stessi, per utilizzare la formula filosofica più di moda, si poneva di fronte ai limiti del mondo e dell’individuo: da una parte i fatti e la reazione ai fatti, dall’altra la progettualità di un uomo, all’interno di un pensiero che lo PRETENDE consapevole, e spesso coerente fino alle estreme conseguenze. E’ un pensiero rischioso, è questo il punto. La coerenza non è tutto, ma io (impersonale) la voglio. Senza di essa, ogni altro genere di pretesa viene a mancare persino di fondamento logico. In nome di cosa potrei mai pretendere alcunché se non di un coraggio che deriva dalla coerenza dei miei atti e dei miei pensieri? E in più, in nome di quale logica, se quella per cui dall’idea si passa all’azione, senza fare dell’idea un trastullo e dell’azione un caso fortunato? Noi vogliamo agire in piena consapevolezza!
(ovviamente, tutto ciò è semplificato e sembra macchietta: ma l’apparenza, in questo caso, fa torto alla sostanza, perché siamo “seri” fino in fondo).
Allo stesso modo io mi sento defraudata della mia capacita’ di dare senso a discussioni come quelle su NI quando non mi e’ per niente chiaro che cosa stanno cercando di evidenziare gli interlocutori oltre a luoghi comuni e generiche affermazioni sul mondo editoriale. In poche parole non riesco a distinguere le loro differenze e complessita’ neanche quando sembra si stiano scannando per qualcosa: mi sembrano indistinti e intercambiabili e …vabbe’
hai scritto:
“Allo stesso modo io mi sento defraudata della mia capacita’ di dare senso a discussioni come quelle su NI quando non mi e’ per niente chiaro che cosa stanno cercando di evidenziare gli interlocutori oltre a luoghi comuni e generiche affermazioni sul mondo editoriale. In poche parole non riesco a distinguere le loro differenze e complessita’ neanche quando sembra si stiano scannando per qualcosa: mi sembrano indistinti e intercambiabili e …vabbe’
Certo si tratta di miei limiti di comprensione e, visto che il filosofare non mi appartiene, anche di limiti come strumenti di analisi, per questo sono contenta (nonostante la febbre) di dovermi sforzare a dar risposta. Sia mai che finisco col partorire qualcosa.
In attesa che tu faccia le pulci alle mie elucubrazioni. ”
Io sono molto più presuntuoso di te, e sostengo che siano in questione i limiti dei ragazzi di Nazione Indiana, e non i tuoi. Innanzitutto, la maggior parte dei loro dibattiti mi sembra mimata. In secondo luogo, sembra che abbiano difficoltà a concentrarsi attorno ad un concetto chiaro, ed a farlo in modo comprensibile. Si resta sempre nel vago, dove è persino difficile sbagliare…quale che sia l’idea di errore. Ora, a parte il fatto che non sono uno sprovveduto, a parte il fatto che, con una luminosa eccezione, su Nazione Indiana non si vedono studiosi di letteratura (e perciò mi chiedo cosa discutano a fare); tutto quel rumore, per come la vedo io, hai connotati dell’impostura (utilizzo il termine nell’accezione sartriana, ma in qualunque altra non sarebbe fuori luogo). Una specie di autorappresentazione di se stessi “come”: e tu devi riempire il “come” di prevedibili inchini, segni di riverenza, attributi della letteratura malamente intesa e pateticamente recitata. Per come la vedo io, mancano di vere e proprie idee, è molto semplice.
Il mio ultimo post è pieno di refusi, me ne scuso (tra cui un “non” perso per strada).
Segnalo anche di aver riportato l’intero discussione sul mio blog, dietro suggerimento, e ovviamente aprendo i commenti.