DON'T TRUST ANYBODY OVER 30

Spoerri1   Giornata particolare, per la sottoscritta: capita a tutti.
Intanto, però, sono alle prese con il nuovo Douglas Coupland, Eleanor Rigby (in attesa di Jpod, naturalmente).

Nonché con una singolare creatura di cui altrove già si parla, Casa di foglie 

(libro furbetto o libro post-borgesian-wallaciano? Nel mezzo del cammino, non l’ho ancora capito: però è difficile lasciarlo e qualcosa vorrà pur dire).

Nonché con l’Almanacco curato da Ranieri Polese per Guanda, La musica che abbiamo attraversato (non menziono neanche gli arretrati, è un momento in cui avrei bisogno di altre tre vite).
Si va dunque un poco di fretta. Non so come, ma oggi cade a proposito la riflessione che mi manda or ora Fabrizio Tonello,  colui che è ormai il corsivista sui Paris Riots (avevate già visto Wikipedia?) in questo blog, Don’t trust anybody over 30.
(ah, sulle righe finali di Tonello, non si concorda: nè sugli esiti del ’77, nè sugli esiti possibili del 2005. Ma, come si sarà capito, non è necessario postare soltanto ciò con cui si è d’accordo in toto). Scrive dunque Tonello:

Si parla di politica, di 1968 e di 1977. Era molto tempo che non sentivo dire (un intervento della settimana scorsa) che i giovani delle periferie francesi hanno “fini che (…) sfuggono completamente a chi è sopra i 25 anni”. Purtroppo, ho un’età che mi permette di ricordare quando si diceva: “Don’t trust anybody over 30”, non fidatevi di chiunque abbia più di 30 anni. Sembra che ad inventare lo slogan fosse stato Jerry Rubin, che in realtà nel 1968 compiva 30 anni lui stesso e quindi era una trovata da non prendere troppo sul serio nemmeno allora. Adesso si vorrebbe abbassare il “limite d’età” a 25 anni? Difficile: la società dei consumi infantilizza gli adulti, fa vestire le madri con gli infradito e i jeans tagliati, ha cancellato tutti i riti di passaggio fra adolescenza ed età adulta (vedi Francesco M. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi).

Ma poiché stiamo parlando di Francia e di quartieri-ghetto, citerò di nuovo Jean-Claude Izzo che descrive i beur dei quartieri nord di Marsiglia: “Quegli sguardi li conoscevo bene. La maggior parte dei ragazzini che avevo incrociato nelle cités non sapevano cosa fosse un adulto. Uno vero.

I padri, a causa della crisi, della disoccupazione, del razzismo, erano ai loro occhi solo dei vinti. Senza più nessuna autorità. Uomini che abbassavano la testa, e le braccia. Anche solo per un biglietto da 50 franchi.

E quei ragazzini scendevano per la strada. Abbandonati a loro stessi. Lontano dai padri. Senza regole né ideali. Con un unico desiderio: essere diversi dal padre” (Chourmo-Il cuore di Marsiglia, ed. e/o, p. 157).

Le società non possono stare insieme senza trasmissione dei saperi tra padri e figli, e neppure le contro-società. Là dove non c’è memoria storica e reti di solidarietà, anche i sentimenti di rivolta finiscono nella spazzatura. Bruciata, ma spazzatura.

Non è un caso che l’unico movimento di massa che abbia raggiunto i propri obiettivi in un paese industrializzato, negli ultimi 50 anni, sia stato il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, fra il 1955 e il 1965. Martin Luther King guidava però dei cortei di gente vestita a festa, che si offriva come oggetto della violenza, mentre la “canaglia” erano i poliziotti bianchi e razzisti che infierivano su donne e bambini.

Era un movimento che si appoggiava su famiglie e chiese, sulla memoria della deportazione e sulla Bibbia. Gli ingredienti sembravano quanto di più conservatore si potesse immaginare , il risultato fu in realtà quanto di più rivoluzionario ed efficace si sia saputo fare nell’ultimo mezzo secolo. Lo aveva ben capito Christopher Lasch che nei suoi libri come Il paradiso in terra aveva analizzato crudelmente le ingenuità del ’68 negli Stati Uniti. Su questo, uno straordinario libro purtroppo non tradotto in italiano è The Sixties. Years of Hope, Days of Rage, di Todd Gitlin (lo trovate su Amazon).
Quanto al ’77, cosa ha lasciato dietro di sé? Un deserto politico nel quale è fiorito il craxismo prima e il berlusconismo poi. Il novembre 2005 parigino lascerà dietro di sé soltanto più disperazione, più repressione e meno libertà. Per gli under-25 e per gli over-25.

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14 pensieri su “DON'T TRUST ANYBODY OVER 30

  1. Mi hai fraintesa loredana. Sono stata io a dire la frase che riporti (tra l’altro se dicevi chi l’aveva detta era megio 🙂 sarebbe sembrato meno un messaggio trasversale … ma lasciamo perdere).
    Ad ogni modo mi hai fraintesa alla grande , la frase che tu riporti di non fidarsi di chi avesse compiuto i trent’anni era un giovanilismo tipicamente americano, e poi, ma solo in minima parte, di certo 68 edonista italiano. Io detesto il giovanilismo (e non accuserei mai nessuno di passatismo come hai fatto tu) Il giovanilismo esasperato era stato anche fenomeno del primo fascismo. Per me è un sentimento di destra che nella vera sinistra non è mai esistito. Altra cosa è lo scontro generazionale che avviene sempre, per forze di cose. Il guaio è che oggi, lo scontro generazionale, non avviene, manca la valvola di scarico.
    Quello che volevo dire io riguardo ai fatti di Parigi (ma che poi non sono solo di Parigi) era quello che scrivi tu stessa: “Le società non possono stare insieme senza trasmissione dei saperi tra padri e figli, e neppure le contro-società. Là dove non c’è memoria storica e reti di solidarietà, anche i sentimenti di rivolta finiscono nella spazzatura. Bruciata, ma spazzatura”.
    Il capitalismo senza lacci e laccioli ha già rotto questa memoria storica (a destra e a sinistra).
    Questo è quello che è successo un po’ dovunque: è stata fatta terra bruciata culturale dietro a questi ragazzi neri o bianchi, italiani o francesi, ed ora è chiaro che, anche nella ribellione, ragionano in maniera diversa dai 77ini, dai 68ini, da quelli che avevano fatto la resistenza (generazioni che, bene o male, ragionavano ancora nella stessa maniera) mettici poi le nuove tecnologie come il computer (che una cosa è usarlo dopo i 20 30 anni e una cosa averlo da sempre in casa). Chi usa da sempre il computer ragiona diversamente. Non è possibile analizzare questi ragazzi come se fossero gli stessi del 68 e del 77: non vogliono le stesse cose, e non le chiedono nella stessa maniera. L’unica cosa che hanno in comune è che hanno un sacrosanto diritto di protestare e di essere ascoltati, ma chi li ascolta, li ascolti veramente, non li chiuda in formule che non li riguardano, se non marginalmente, come la ricerca di un leader o le dimissioni di un ministro dell’interno che non saprebbero proprio con quale sostituire. La stessa cosa succede spesso in Italia, in cui nessun ragazzo vorrebbe sostituire il ministro degli interni dei tempi di Genova con Bianco dei tempi di Napoli. Non ne avvertono la differenza (che pure esiste e che io avverto).
    La mia critica non voleva essere giovanilismo, anzi, solo che quel tipo di approccio alla realtà, sopra i 25 raramente esiste, e infatti oggi i ragazzi non si scontrano con la generazione precedente, non hanno bisogno di leader, chiedono cose molto diverse: non vogliono la guerra globale, non vogliono la loro polizia violenta, non vogliono l’esclusione, vogliono vivere ed essere rispettati (e non è cosa da poco) e forse tu non ti dovresti impennare così, riferendo addirittura la mia critica sotto anonimato 😉
    Ma che vi è preso a tutti quanti?
    geo

  2. Commenti sparsi:
    – stanotte ho finito Eleanor Rigby. Non e’ all’altezza di “Hey Nostradamus”, che non e’ ancora stato tradotto (chissa’ perche’?), pero’ e’ bello. non facile, anzi.
    – Per Tonello: mi sembra che il 68-69 in Europa abbia modificato un bel po’ di cose. Non tutte in positivo, ma ha lasciato sedimenti culturali da non sottovalutare. Nonche’ lo Statuto dei lavoratori. Il 77 forse di meno, anche se poi gli strumenti intellettuali più innovativi per comprendere il presente vengono da quel filone (oltre che da alcuni romanzi).
    – E poi sulla Francia delle auto bruciate, citare Izzo è un po’ a sproposito, mi sembra: Marsiglia è praticamente l’unica città dove i riots non ci sono stati. Le lenti dell’immigrazione a Marsiglia sono diverse da quelle delle banlieues parigine o di Lyon.

  3. beh allora scusami loredana :-)), in effetti non si capiva bene.
    Beh naturalmente allora il mio commento è diretto a tonello con cui,con il suo scritto precedente, non a caso, non mi ero trovata per niente d’accordo.
    D’accordo invece con ricambi originali, lo Statuto dei lavoratori, è stato proposto e formulato precedentemente (risale agli anni 50 con di vittorio) ma senza il 68 non sarebbe mai diventato legge di stato, e infatti ora fanno carte false per demolirlo. Al ’68 dobbiamo molte altre cose, gli dobbiamo l’Italia moderna altro che storie, se poi l’opposizione al ’68 è stata troppo violenta (da piazza fontana in poi), con tutte le conseguenze che ci sono state, questo non è certo colpa di chi dava vita al 68, ma di chi si opponeva perfino con le stragi.
    georgia

  4. POUR EN FINIR AVEC LE ’68.
    Questi attuali di Parigi e dintorni sono soltanto fuoki fatui, fuoki di paglia destinati a spegnersi presto, perkè nn hanno progettualità, ideali da sbandierare, e alcunkè di romantico.
    nikilismo fine a se stesso!
    come i nostrani disordini da ultrà stadaioli e stradaioli.
    vuoti a perdere…ceneri del tempo.
    film da consultare…in leggero anticipo sui tempi: L’ODIO DI KASSOWITZ

  5. Rubo a Gianpaolo Serino una recensione apparsa su Rolling Stone su Di contrabbando di Daniel Daeninckx, uscito per Donzelli. mi pare utile.
    La complessità del cognome, Daeninckx, non è secondaria: sembra quasi la metafora anagrafica di uno scrittore che più volte è stato male interpretato. Prima che Michel Houllebecq calcasse le scene, e l’acceleratore, della nuova letteratura francese, era proprio Daeninckx ad attirare, come un parafulmine, tutte le ire dei più conservatori. Le sue prese di posizione, provocatorie ed estreme, l’hanno spesso portato ad essere un autore off limits, inviso alla cultura ufficiale e poco amato (o meglio: ignorato) dalla critica. Malgrado ciò è considerato tra gli scrittori che hanno dato nuova linfa al polar francese: i suoi romanzi polizieschi, con protagonista il cinico ispettore Cadin, sono stati tra i primi a descrivere, dietro il serrato ritmo della narrativa gialla, il degrado delle periferie metropolitane, la disperazione di chi ha come orizzonte soltanto la parabola di un cielo catodico. Ma è proprio nei racconti, come questi “di contrabbando”, che Daeninckx esprime al meglio la propria rabbia d’inchiostro. E’ nelle prose brevi che riesce a radiografare limiti e contraddizioni di una società al limite del collasso. Si prenda, ad esempio, Il pericolo sono gli altri, racconto centrale di questa raccolta e che da solo varrebbe il prezzo di copertina. In poche righe Daeninckx imprime sulla carta lo zapping emotivo al quale quotidianamente siamo sottoposti: leggere un giornale o guardare un tg non è uno “studio aperto”, ma cinica ginnastica esistenziale. “In tv”, confessa il protagonista del racconto, “ attraverso le storie degli altri, non manca un secondo che mi manchino di rispetto, mi insultino, strattonino, diffamino, colpiscano, umilino, senza che mi rubino l’autoradio, o alleggeriscano del portafogli, senza che sputino su mia moglie, che violentino mia figlia, che scippino la pensione di mia madre, senza che mi sputino in faccia boccate di canne di hashish, che facciano graffiti nel mio ascensore, che cachino sul mio zerbino, che mi rubino i nani da giardino. E anche se non sono sposato, non ho una macchina né un fazzoletto di verde, lo fanno a me”. Le conseguenze sociali? Facili da immaginare, difficili da sintetizzare. Daeninckx ci riesce: “Mi sfogo, una volta ogni cinque anni, facendo scivolare nell’urna, come si tira una bomba, come si rifila l’Aids, la scheda che condanna tutti alla massima pena. Non c’è bisogno di firmare con il mio nome, è liberatorio come scrivere una lettera anonima, o fare una telefonata da una cabina pubblica per denunciare un Nero che sgobba da abusivo. La cabina elettorale è un peep-show, ci si eccita, ci si gode, c’è persino la pattumiera per sbarazzarsi della carta macchiata. Quando il tipo dell’urna mi dice “ho votato”, io intendo “si è vendicato”.

  6. Mah…nn credo che adesso dobbiamo fare a gara sul trovare ad ogni costo ki è stato più profetico ad intuire i riots di parigi…
    è uno sport molto borghese, quasi da bar
    uhm…se parliamo di polizieski nella loro specificità, dimentichiamo izzo, francesi, italiani, il poliziesco mediterraneo fa ridere…(james ellroy)

  7. approfitto dell’onda di sicerità che sto, forse in maniera avventata, cavalcando da un paio di giorni, e vi dirò…a me dei casseur parigini non frega quasi un cazzo. ma ciò che trovo davvero sorprendente è l’ancor minore interesse che provo per le parole di coloro che si impegnano (poco approfonditamente, peraltro) a trovare profeti e cantori di ciò che sta avvenendo. è banale, sia ciò che avviene sia il gioco del ‘te lo avevo detto’ perchè è già scritto, ma è scritto male, è scontato, è solo questione del dove e quando, che, francamente, sono solo dei diversivi. il perchè è chiaro, così chiaro che mi pare inutile tentare un’analisi (non a caso di queste cose si occupa la sociologia, scienza minore, per quanto mi riguarda).
    succede…succede che chi è povero, chi sente di essere discriminato, che dove non esiste una identità nè individuale nè collettiva, si incazza e appiccia le macchine di quelli che invece stanno meglio. ma sono cose che succedono e basta, perchè non c’è coscienza (che brutta parola), non c’è futuro.
    segue la repressione, c’è stata la polizia, c’è stata l’eroina, adesso c’è l’espulsione, più conveniente (nessun ragazzo bene finirà espulso).
    ma non succede nulla, assolutamente nulla.

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