DUE CHIACCHIERE CON GIACOPINI

Era da un po’ che volevo postarvela. E’ l’intervista a Vittorio Giacopini per Re in fuga, così come è apparsa su Mente&Cervello. Tutta vostra.
Non è un caso che Re in fuga di Vittorio Giacopini (Mondadori, pagg. 275, euro 17,50) inizi con lo sguardo di chi narra: “Adesso me lo immagino che si alza in una di queste scialbe mattine irlandesi e si affaccia nella luce ramata che avvolge ramata”. Non è un caso che l’autore usi la prima persona e che apra così un varco verso il lettore per avvertirlo che quella che ha fra le mani non è, in alcun modo, una biografia.
Certo, di Bobby Fischer, eroe controvoglia degli scacchi, si raccontano vita e imprese: ma sempre in funzione di una narrazione più vasta dove Fischer è uno degli attori. Il più in vista, ma non l’unico. Non a caso, il romanzo d’esordio di Giacopini, giornalista e saggista, va a collocarsi nel filone di quegli affascinanti ibridi letterari che non trovano posto negli scaffali del romanzo canonico o della saggistica tradizionale: trascendono entrambi, e catturano lettori che di storie sono affamati.
E questa, infine, è soprattutto la storia di una fuga. Parola presente fin dal titolo del libro, che segue le tracce di Fischer dall’America all’Islanda. Da cosa fuggiva? E, soprattutto, è soltanto la storia di un singolo individuo, seppur geniale, o adombra anche un preciso momento storico?
“A parte che il titolo l’ha trovato mia figlia (grande cultrice di Galline in Fuga)- racconta Giacopini – nei fatti, non c’è un’unica fuga ma una sequenza di fughe, ritirate, abbandoni – strategici o autolesionistici, variamente- che finiscono per intrecciarsi o smentirsi a vicenda, e si confondono. Nella vicenda di Fischer, in questa sua parabola sbilenca, c’è una pluralità di falsi movimenti che mi affascinano. Biograficamente, ci sono almeno tre fasi. All’inizio, fuggi da quello che la sorte ti ha riservato: un’infanzia da orfano, la miseria, una vita ristretta, molto angusta. E gli scacchi sono questo primo approdo: un mondo tuo, che riesci a controllare, perfettamente. Ma la vicenda di Fischer diventa appassionante solo quando sembra arrivato sulla vetta. Il campionato del mondo, la gloria, il successo, l’essere un simbolo ‘americano’, un’icona. A quel punto – in questo somiglia molto a Bob Dylan – sente che deve smarcarsi, e si reinventa. Ma dal momento che è sotto gli occhi del mondo l’unica carta da giocare è tirarsi fuori dai giochi. Scomparire. La terza fase – e qui incrocia e collide ancora una volta con la Storia di tutti, la politica – è quella dello scontro senza mezze misure con gli States, in questi ultimi anni di rabbiosa e disperata latitanza. Quando parli di ‘momento storico’ hai ragione: Fischer è stato bloccato nella fase di simbolo della guerra fredda, ma la sua importanza, l’importanza di tutte queste fughe che si intrecciano, sta proprio nel fatto che la sua vicenda ci porta oltre quegli anni, sin dentro le ossessioni e gli orrori del presente.
L’ossessione di Fischer, racconti, è quella dello stare al mondo standone fuori, facendo della scacchiera stessa il proprio universo e, viceversa, applicando al mondo reale le “mosse” degli scacchi. Anche qui: cosa si legge nella filigrana storica di questa ossessione?
Nel suo modo radicale, estremo e disperato di affrontare gli scacchi c’è, credo, una metafora che riguarda qualsiasi forma di arte, di scienza, di creazione, qualsiasi tentativo radicale di libertà e di liberazione. Nella scacchiera – in quelle poche regole e poche mosse – Fischer si illudeva di trovare un mondo perfettamente razionale, controllabile, capace di proteggerti dagli altri, dalla storia, dalle incertezze del caso. E la sua singola storia diventa straordinaria e emblematica proprio quando si risolve in paradosso.Hai creato un mondo a parte, separato, e proprio per quello ti ritrovi sotto ai riflettori, in piena luce. È una bella beffa, non ti pare?
La stessa idea di successo che si formula nella mente di Fischer è alquanto diversa dall’idea canonica e gioiosa dello sconosciuto che si fa da solo e raggiunge le vette della popolarità e della ricchezza. Questo, anche, determina la spaccatura fra l’icona dell’eroe americano e il proprio personale desiderio? Contribuisce alla fuga, insomma?
Come dice Dylan, “non c’è successo che nel fallimento, ma il fallimento mica è un successo”. Il nodo sta tutto qui: la vittoria del campionato mondiale cambia tutto. Lui, prima, si crogiolava in un sogno di successo e di gloria perfettamente ordinario (e americano). Poi, vince e capisce che sono tutte boiate. Paccottiglia. Per me un momento decisivo è quando ritorna a New York, dopo il trionfo. Il sindaco gli offre le chiavi della città…. e lui lo manda all’inferno, all’improvviso. E che cavolo, pensa, vivo qui da una vita: cosa vuole? E’ la sua via di Damasco, quella vittoria. Di colpo, guarda il mondo con occhi diversi, e si spaventa.
Fischer, fra l’altro, ebbe rapporti con uno psicanalista: ma da quanto capisco fu lui a costringerlo a giocare la propria partita, e non viceversa…
Il guaio è che Reuben Fine, prima che psicanalista, era stato un grande maestro degli scacchi. Per domare Fischer lo porta proprio sul terreno più delicato: la scacchiera. Ovvio che andasse a finire male.
Eppure Fischer sembrava un caso da manuale: solitario, pochi amici, pronto a scoppiare in lacrime per un epiteto scherzoso …
Certo, ma probabilmente capita a molti. Siamo un po’ tutti casi da manuale, ma non basta. Lui – anche in questo – sa scompigliare le carte, e vola alto. E poi, fondamentalmente, il suo tratto ‘clinico’ è sempre stato considerato quello della paranoia, e proprio qui le cose mi sembrano molto meno lineari. Io cito quella frase di Delmore Scharwtz che dice: “anche i paranoici hanno nemici veri”. Questo diventa uno dei temi forti del libro, e in questo la vicenda di Fischer ha una valenza epocale. La sua paranoia è quella pynchoniana: è un metodo, una strategia mentale e operativa per decifrare la Storia ufficiale e smascherarla. Senza indulgere in alcuna teoria del complotto, è qualcosa che, ora, vediamo tutti: la nostra storia recente, dall’omicidio Kennedy fino alle due Torri e oltre, è fatta di verità monche e inaffidabili. E poi Fischer, in fondo, aveva le sue brave ragioni. Quando ancora non era venuto al mondo, sua madre veniva spiata dall’Fbi Lui sarà pedinato a lungo dai federali. Insomma, come caso clinico è anche un ottimo specchio della criticità della storia e della politica.
Mi sembra che dal Fischer che racconti emerga un doppio culto a cui tendeva: quello, comprensibile, per la tecnica. E quello, apparentemente contraddittorio, per l’autenticità.
Non c’è contraddizione. Sul fronte della tecnica tieni presente l’atteggiamento che ha sempre avuto nei confronti dell’intelligenza artificiale e dei programmi al computer per giocare a scacchi. A differenza di Glenn Gould – uno suo strano gemello, in qualche modo – quando Fischer lascia le scene non è perché pensi di poter sostituire con la tecnica il calore delle sale e le esecuzioni dal vivo. Gli scacchi, ai suoi occhi, sono una frontiera per affermare una forma di umanità e di inventiva che vede neutralizzata dalla tecnica: allora fa una mossa estrema, oltranzista. Chiude i ponti sul serio, decide che gli scacchi ‘sono morti’; prova a reinventarli e infine li abbandona. E questo proprio per continuare a essere se stesso, cioè autentico. Del resto è lo stesso tema attraverso il quale si spiega il suo antisemitismo. Si, Fischer faceva letture cretine, citava pure e semplici idiozie: ma la partita vera è più sottile. A modo suo, rifiutava in modo personale, e delirante, l’identità imposta che gli veniva dalla storia e dalla natura, quel suo essere ebreo e americano. E quando diventa l’arci- antiamericano, l’arci-antisemita, lo fa per dire “non credete a quel che si dice in giro: io sono sempre anche un’altra cosa, una cosa che ho deciso io, che creo io”. E’ un sogno di autonomia che, ovvio, costeggia drammaticamente l’autismo, se non la follia.
Nel libro tu racconti anche i decenni in cui Fischer ha vissuto. Gli anni Cinquanta, gli “anni del Fato” e dei desideri modesti, scendendo fino ad oggi. Ma proprio il periodo più vicino sembra quello che ti interessa maggiormente…
Lo dicevo prima. Fischer andava liberato dallo schema che lo vede solo e soltanto come l’emblema di un’epoca delimitata, la guerra fredda. A me la sua vicenda appassiona soprattutto nella fase successiva, perché credo che davvero sia una delle poche esistenze singolari che ci consente di fare attraversare gli anni Settanta e gli Ottanta e di arrivare ad oggi. Attraverso lo sport, perché nel Novecento, e in parte anche ora, due sono le zone mitiche produttive, mitopoietiche, insomma: lo sport e la musica.
E qui veniamo, fatalmente, al neo-epico o New Italian epic. Le narrazioni epiche, secondo Wu Ming che all’argomento ha dedicato un recente saggio,, sono quelle che “riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura l’intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso”. Quelle neoepiche, scegliendo strade diverse – ma non troppo -, arrivano allo stesso obiettivo. Specie grazie ad un numero crescente di testi italiani. Ti ci riconosci?
Si, mi ci riconosco. Il tratto epico sta in questo misurarsi – oggettivo, magari del tutto involontario, sofferto, casuale – con la corrente della storia, con le sue trame, i suoi percorsi. Francamente, a me interessa questo tipo di vicende, queste storie. Non ho una particolare pazienza con i romanzi intimisti, le storie di adolescenti più o meno incasinati, le vicende sentimentali o le pene d’amor perduto o ritrovato. Un grande romanziere, è chiaro, può fare e dire e scrivere quel che vuole e ha sempre ragione. Ma noi, per lo più, siamo un po’ tutti ‘scriventi’ – non veri scrittori – come diceva Elsa Morante, e allora la cosa essenziale è saper evocare vicende capaci di raccontare, oltre l’esistenza individuale, i pensieri, le biografie, mondi e storie più larghe, e più drammatiche. In molta letteratura “del terzo mondo” questo è più immediato, più spontaneo. La cosa miracolosa è che anche in questa specie di comoda protetta fogna che sta diventando il nostro Occidente si stanno creando miti e icone capaci di stare all’altezza di questa sfida. Io la vedo così: la cultura di massa, suo malgrado, innesca a volte processi molto interessanti e molto strani, che riescono a produrre miti veri, più simili a quelli greci, per dire, che non alle ‘mitologie’ alla Roland Barthes. Forse Wu Ming 1 pensa anche a qualcosa del genere. Del resto, non ci conosciamo, ma abbiamo almeno un punto in comune, visto che tutti e due – molto diversamente – abbiamo scritto un libro che ruota attorno all’icona di John Coltrane (New thing di Wu Ming 1, il mio Al posto della libertà) Ma alla fine, l’epica forse è una strada tutta in salita. Dal presente bisogna infine riuscire a smarcarsi, superarlo con la passione, la ragione, la fantasia.
E,similmente ad altri, il tuo libro non è definibile come biografia né completamente come romanzo classico né come reportage, esce dalle categorie date. Come interpreti questo?
Come un banale tentativo di sopravvivere e continuare a scrivere nonostante l’aria che si respira. Personalmente non credo che dalle nostre medie vite borghesi possa uscire chissà quale romanzo (ma neppure chissà quale teoria, in fin dei conti) e allora bisogna mischiare i generi, intrecciarli. Questo libro non è certamente né un saggio né una biografia, ma forse non è neppure un romanzo e non mi importa. Walter Benjamin, in un passo citato molto spesso e capito molto meno, ha distinto tra ‘narratori’ e ‘romanzieri’. In questa fase, io credo moltissimo nelle buone narrazioni, nei racconti. E poi, alla fine, ingabbiare le scritture nei ‘generi’ mi sembra un esercizio che ha fatto abbastanza il suo tempo. Non mi appassiona. Quel che volevo era scrivere una buona storia. Intelligente, magari, ma che si facesse leggere senza troppi impacci e troppe fisime.

5 pensieri su “DUE CHIACCHIERE CON GIACOPINI

  1. Per chi è appassionato di scacchi, l’unica partita di Fischer contro Botvinnik giocata nel ’62 a Varna e citata a pag.116 del libro, è riportata, e rigiocabile per intero qui: http://www.winner.com.py/feparaj/PaginaNueva/Zenon/2008/20080407%20Articulo%20211/botvinnik_fischer.htm
    L’anticonformismo incallito dalle venature ingenue del campione americano è felicemente descritto da Giacopini – complimenti alla figlia per l’intuizione del titolo – nella pagina appresso: “Stare al posto proprio, darsi una regolata, limitarsi. Non faceva per lui, semplicemente. Ordine e disciplina, regolamenti. Facevano al caso suo solo quelli che si dava da sé, liberamente. Anche quando farfugliava le sue preghierine da convertito restava fuori dai ranghi, irregolare.”
    Bel libro.
    Anche se comprendo poco i tratti epici in esso presenti. Magari mi sbaglio, ma trovo Bobby di un individualismo cristallino, ed avulso dalle epoche che attraversa. In fuga dai suoi tempi.

  2. Sto leggendo il libro di Giacopini comprato per la verita piu per caso che per altro ed è stata una sorpresa: oltre ad essere scritto in maniera fantastica, sembra quasi che si legga da solo, mi sta appassionando per la storia che racconta. Ha ragione l’autore: è qualcosa di diverso da una biografia,o un libro sugli scacchi. Io lo considero un romanzo appassionante su un periodo, della guerra fredda e non solo, che abbiamo tutti, magari indirettamente vissuto. Insomma, come dire, un grande romanzo che sto leggendo tutto d’un fiato dove storia, musica, ossessioni di unperiodo, sogni eccc…ci sono tutti
    Paolo

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