Questa mattina, in metropolitana, c’erano tante donne. Come sempre, certo, ma questa volta le ho osservate attentamente. Erano tutte diverse. Giovani, vecchie, magre, grasse, molto magre, molto grasse, molto medie. Ancora. Alte, basse, con i capelli colorati (un rosa fucsia, due verdi, molti biondo chiaro, qualche nero corvino, alcune bianche). Con i leggins, con i jeans, con la gonna al ginocchio, con la gonna sopra al ginocchio, con il giubbotto l’impermeabile il blazer. Di umore radioso, apatico, pessimo. Allegre, tristi, preoccupate, assonnate. Con figli sul passeggino, per mano, senza figli. Con cagnolino. Con fidanzato. Con marito. Sole. Con un’amica. Con più amiche. Eccetera.
Questa è, direte, una banalità. Naturalmente lo è, perché la realtà è molto spesso banale. Ci si dovrebbe chiedere, dunque, perché di questa banale molteplicità di esistenze e di modi di essere chi diffonde i modelli femminili (e maschili, evidentemente, ma non si sa perché gli uomini parlano molto malvolentieri di questo) non prende atto.
Lo so, è una vecchia questione e se ne discute da anni, e in molti casi con esiti importanti, perché è capitato e capita che pubblicitari e direttori/trici di magazine accolgano quella che è, e dovrebbe rimanere, una riflessione culturale da fare insieme: è dunque accaduto che alcuni magazine abbiano scelto di ospitare sulle loro copertine donne di ogni conformazione fisica, che alcuni pubblicitari abbiano fatto altrettanto, e così via. Alcuni lo hanno fatto con convinzione, altri obtorto collo, ma è stato fatto.
Perché, dunque, tornare sulla vicenda? Perché negli ultimi tre giorni è avvenuto qualcosa che mi fa pensare: non per la polemica in sé, ma per la reazione collettiva molto forte. Significa che la faccenda è tutt’altro che superata.
Andando con ordine: venerdì scorso Michela Murgia posta sulla sua pagina Facebook la foto della copertina di Marie Claire che mostra una ragazza filiforme. Segue discussione. Segue un intervento su l’Unità on line di Alessandra Serra, docente di linguistica e traduzione inglese all’Università della Tuscia, studiosa di linguaggio della politica e dei nuovi media. L’intervento viene titolato Anoressica a tua sorella (laddove nello status di Michela Murgia di anoressia non si parlava affatto) e per una buona parte contiene frecciate a Michela Murgia e alla sua candidatura alle regionali sarde di due anni fa (questione vecchia: Serra è stata molto prodiga di attacchi a Murgia in tempi elettorali), alla sua attività di scrittrice, al femminismo d’antan che ha ancora un suo pubblico di attempatelle (sic), con la stoccata finale, miserabile, “tutta invidia”.
Ora, non ho intenzione di difendere Michela Murgia, che si difende benissimo da sola e che, a quanto so, è invidiosa soltanto di Stephen King e di Daenerys Targarien (per i draghi, precisiamo). Faccio solo qualche considerazione sul punto: che è punto culturale, e dunque riguarda tutte, donne e uomini, femministe e antifemministe, maschilisti e padri della Chiesa, volendo.
Il potere che si esercita attraverso i corpi, questo è il punto: vederlo ridotto a una guerra magre contro grasse, e grasse contro magre, è stato desolante, e ingiusto. Cercando tra le migliaia di commenti on line, i più frequenti erano quelli di donne magre che lamentavano il body shaming nei loro confronti e viceversa di donne grasse che lamentavano la stessa cosa. Entrambe con ragioni, certo.
Il problema è che mentre le donne magre dicevano “non siamo sacchetti d’ossa e l’anoressia non viene ispirata da un giornale” (vero) e le donne grasse dicevano “non si trova una taglia sopra la 42 a meno di andare nei negozi per oversize” (vero pure questo) quel potere piccolo, miserabile, banale si esprimeva attraverso un paio di clic in più. Alla rivista, per esempio. E siccome siamo in tempi gramissimi un paio di clic fanno la differenza, e portano pubblicità, mentre commentatori e commentatrici si godono lo spettacolo della lotta femminile nel fango, che è roba forte, eccita e porta pubblico.
Qual è dunque la questione?
Più di una. C’è un primo punto, culturale e antico, che accarezza una rappresentazione estetica del femminile esangue e morente. Questione vecchia, lo abbiamo anche scritto in “L’ho uccisa perché l’amavo”:
“l’immaginario delle morte ammazzate e dei candidi colli recisi, e dei gigli che trascolorano ci accompagna da secoli, e che dopo la funebre fioritura ottocentesca, ci si è avvinghiato alle caviglie come lo scheletro che ghermisce la vergine (…). Fu Mario Praz, in La carne, la morte e il diavolo, a scandagliare la “bellezza medusea” e “intorbidata dalla morte” che dal seicento ai romantici e fino a D’Annunzio domina in letteratura, sposandosi con l’altro durevole mito, quello della donna-vampiro e della belle dame sans merci”.
Ora, è bene mettere in chiaro una cosa: conoscere i modelli non significa volerli eliminare. Perché quel che mi ha veramente stufata è la pessima fede di chi continua a parlare di femminismo prescrittivo che vuole togliere libertà alle singole. BALLE. Siate quello che volete, magre, grasse, vampiri, grandi madri, angeli, comari. Quello che volete: ma almeno sappiate a quello modello state aderendo. Conoscere quei modelli porta alla libertà (e santi numi quanto mi mancano Foucault e i discorsi su corpo e potere), forse. O comunque costituisce un primo passo. Accusare chi ne parla di volervi obbligare a essere come lei non serve che a effimere autoconsolazioni che non fanno fare un solo passo avanti a nessuna.
Secondo punto. Proprio ieri, mentre si discuteva sui propri ego, una giovane donna scriveva a Repubblica chiedendo se in Italia esistesse un movimento femminista in grado di lottare per i diritti delle donne sul lavoro. E sul corpo, visto i graziosi attacchi che vengono sul tema dell’interruzione di gravidanza da ultimo. Mi ha colpito, quella domanda. Perché le femministe in Italia ci sono, ma vengono continuamente accusate da altre donne di occuparsi di minuzie (e discutere sui modelli non è mai una minuzia, nè è meno importante rispetto ai discorsi sul lavoro: sempre di potere si tratta) e soprattutto di voler impedire alle altre di fare quel che vogliono.
Che siate in ottima o pessima fede, voi che sostenete questo, sappiate che non importa quale sia la vostra taglia: importa che occorra una misura per definire una donna, semmai. Siate magre. Siate grasse. Siate medie. Siate trasandate. Siate chic. Siate quel che volete. Ma non lasciate che qualcuno faccia soldi, o miserando curriculum di polemista, su di voi.
Siamo tutti mucchietti d’ossa, bag of bones, a prescindere da quanta carne c’è attorno quelle ossa. Cerchiamo di essere portatrici e portatori di discorsi comuni, e di comuni sentieri. Questo è quel che conta.
E’ nel corpo che risiede il potere, il titolo di questo post, è una frase tratta da Nel bosco di Aus di Chiara Palazzolo. Una volta riconosciuto quel potere, è possibile farsene beffe. Non prima.
Accidenti che post! Lo ricopio per regalarlo a tutte quelle donne che stanno da una parte che di solito è (la considerano) vincente. Ecco, che almeno sappiano da che parte stanno e se ne chiedano il perchè.
Grazie per queste parole!
questioni dibattute da anni è vero, e siamo sempre allo stesso punto.
quello che mi demoralizza veramente è vedere come le donne non hanno ancora imparato a fare squadra, il modello di donna che si porta sempre è quello che critica le altre sempre e comunque
quand’è che ci diamo una svegliata e cominciamo a ricostruire un movimento femminista e chiamatelo come caspita volete , un qualcosa che difenda i diritti delle donne, donne che difendono i diritti delle donne e non sprecano tempo a controllare quanta cellulite ha la collega?
No, essere quel che si è non vuol dire aderire a un modello. Confondere la realtà con la descrizione della realtà è l’errore di fondo che porta Murgia e te a sbagliare. Una donna in copertina è una donna in copertina, non la costruzione dell’idea di donna. Nessuno è così folle da avere in testa tale proposito. Qui non si imputa il voler togliere libertà agli altri, c’è obiezione nel merito, al netto delle cattiverie (es. “è tutta invidia”). La propria libertà può passare attraverso la conoscenza dei modelli, ma pure attraverso l’indifferenza ai modelli. O anche no, dipende. Gli uomini parlano poco di ciò e per fortuna, dato che non c’è nulla di cui parlare. Ogni rivista mette le immagini che vuole, e non c’è alcun motivo sensato per cui dovrebbe pensare al modello di donna o uomo che produce, sia perché sono infiniti, e sia perché non tutti meritano di finire in copertina, secondo la visione di chi fa una rivista. Sarebbe come chiedere a una casa editrice di pubblicare anche libri che ritiene scadenti per rispettare la varietà delle scritture. Ognuno diffonde il proprio punto di vista, non è tenuto a rappresentarli tutti, e non è un problema.
Della serie, come nell’indimenticato finto-spot della Casa delle libertà di Corrado Guzzanti, “facciamo un po’ come cazzo ci pare”. 😀
della serie prendi le obiezioni per quello che sono (con tutti i difetti del caso) e non per quello che pensi che siano, se ti interessa. Se no, fai come vuoi, e ci ritroviamo tra un po’ di tempo con il preambolo “è una vecchia questione, se ne discute da anni”. Anche perché se fai la caricatura delle opinioni altrui poi non puoi lamentarti se fanno la caricatura delle tue opinioni.
Faccina, Stefano, fatti chiamare come vuoi. A volte quando si è sciocchi – perdonami, nei commenti, non nella persona – ci si attira risposte sciocche. Ciao 🙂
sono infiniti i modelli che le riviste mettono in copertina, stefano?
mi risulta nuovo. Se contro qualcosa c’è stata una lotta negli ultimi anni è proprio contro un modello UNICO (sì, come quello della dichiarazione dei redditi) propagandato dai fashion mags, che da poco hanno iniziato a differenziarsi (e non tutte) proprio grazie alla proteste.
sono infiniti i modelli possibili, laura. Ovviamente non possono essere infiniti quelli proposti da una rivista, anche volendo. Essendo infiniti i modelli possibili è irrealistico pensare di rappresentarli tutti. In ogni caso non c’è alcun motivo per cui l’obiettivo di una rivista, o delle riviste, dovrebbe essere la rappresentazione di quanti più modelli possibili. Il che non significa che sia un desiderio sbagliato. è una possibilità fra le altre. Tra cui quella di farsela da sole la rivista che si vuole, senza pretendere nulla da altri.
quello è già ciò che sta accadendo grazie alla rete, che grazie alle voci dal basso moltiplica all’infinito le rappresentazioni. Ciò non toglie che, proprio per questo, si possa constatare la limitatezza di una coazione a ripetere editoriale.
certo laura, ma infatti nessuno avrebbe nulla da dire di fronte alle proposte varie. Si ha da ridire quando si leggono certi post, quando si propongono sollevazioni popolari ingiustificate e si esprimono giudizi che parlano di disgusto per quella che è una persona in copertina. Tanto più che seguendo il tuo ragionamento che propone più modelli possibili, ci rientrerebbe anche quella modella, dato che esiste e che va rappresentata.
Si vabbe’, ciao 😀
Penso che l’errore di Alessandra Serra, a parte l’acrimonia verso la Murgia (che ormai bisogna mettercela sennò sei poco fescion), stia fondamentalmente in questo: la mancata contestualizzazione del suo discorso.
Michela Murgia non ha preso una foto di una tipa su facebook e l’ha demonizzata con un “Dagli all’untore!”. Michela Murgia ha preso una copertina di una rivista, che presumo di moda o affini, e l’ha letta in maniera critica, e con – per me giustificata – rabbia. Io sarei andato oltre: esteticamente quella fotografia fa venire i brividi per quanto male è stata presa la modella, e per quanto male deve stare la modella. Magari a qualcun* farà anche sesso, su questo “de gustibus”. Resta il fatto che se quel maglione a giro collo l’avessero messo direttamente su uno scheletro alla Tim Burton facevano più figura.
Non c’entra nulla l’esistenzialismo rock star, se proprio voleva citare un modello quello è Audrey Hepburn in “Funny Face” che, per quanto fosse anche lei magrissima, non pareva certo cadaverica.
“Resta il fatto che se quel maglione a giro collo l’avessero messo direttamente su uno scheletro alla Tim Burton facevano più figura.”
Ma che bella battuta. Meravigliosa. Ha ha ha. Fa veramente ridere. Fa ridere come le battute che facevano alle medie sulle ossa e gli stecchetti e le anoressiche.
No, non si riescono a fare questi discorsi senza trasudare disgusto per quelle ragazze. Inevitabile.
Cip. Io non provo disgusto per nessuna e nessuno. O per meglio dire. Sì, provo disgusto. Per le persone in malafede.
E’ proprio perché vengo qui in buona fede che resto ferita quando leggo certe espressioni. Il mio è stato un commento de panza delle 2.23 di notte, ma continuo a non perdonare quel tipo di espressioni usate da Ekerot. Che si riferissero alla foto, al fotografo, all’industria culturale e NON alla persona della modella, fa male lo stesso leggerle.
Cip, dal mio punto di vista fa proprio tutta la differenza del mondo il target di un certo discorso. Che poi a te faccia a prescindere male leggere certe cose, è un’altra faccenda. Non c’è bisogno di una lettura attenta per comprendere il senso del mio riferimento a Burton; e se leggi con attenzione il pezzo di Serra è stata proprio lei a voler banalizzare la scelta della foto e della modella suggerendo un legame con le rock star “enfaticaliste”.
Quella scelta, invece, è per me talmente assurda che non può essere giustificata con nulla di realistico. Solo il grottesco. Sul quale, ti assicuro, non ho nulla da ridere, né da far ridere.