FANTASIE PUERILI

In effetti avrei non poche cose
da raccontare, specie sulla AQ, leggi Annosa Questione (tavola rotonda
su giallo e critica letteraria, la Critica che asserisce
“l’impossibilità del tragico” nella narrativa italiana –
hélas – , poi Giulio Ferroni che su l’Unità di
oggi recensisce Antonio Scurati riportando golosamente le parti in cui
il medesimo si scaglia contro coloro che “pretendono” di fare narrazione
collettiva e rimpiangendo i tempi dell’ordine e del rigore – doppio e triplo
hélas – poi il solito ministro Fioroni che persiste nel
voler fissare norme certe per il web –
hélas all’ennesima.

Però vi posto il pezzullo su
Bunker che ho scritto per il quotidiano di oggi: un po’ perché devo
decantare, un po’ perché il vecchio Eddie è comunque salutare.Per quelli che lo leggono, naturalmente.

Quello che esce ora, ad oltre un anno dalla morte, è in realtà il
primo romanzo di Edward Bunker, gran maestro dell’hard boiled e della
letteratura criminale (o, per meglio dire,dell’esperienza durissima del crimine
trasformata in letteratura).Stark (Einaudi Stile Libero, pagg. 176, euro
13,00) risale al 1963: Bunker era poco più che trentenne ed era già stato in
carcere quattro volte, senza considerare gli anni del riformatorio raccontati
nel suo terzo e straordinario romanzo, Little boy blue. Aveva ricevuto
la sua folgorazione letteraria proprio a San Quentin, dove entrò
diciassettenne, discutendo di narrativa con Caryl Chessman, ladro e
stupratore, attraverso i condotti di
ventilazione. E in carcere aveva cominciato a scrivere, su una Royal Aristocrat
di seconda mano inviatagli dalla sua benefattrice Louise Fazenda, ex diva del
muto sposata al produttore cinematografico Hal Wallis. A spingerlo verso quello
che sarebbe diventato il suo futuro fu un asciugamano che un detenuto gli aveva
passato fra le sbarre. Dentro l’asciugamano c’era una rivista, Argosy, e
dentro la rivista il primo capitolo del più famoso romanzo di Chessman, Cella
2455. Braccio della morte
.

Racconta la vedova di Bunker, Jennifer Steele, nell’epilogo a Stark:
“Non riusciva a crederci! Gli scrittori andavano a Harvard, Yale o Princeton.
Anche Chessman era stato cresciuto dallo Stato. Se Chessman poteva scrivere un
best seller, poteva farlo anche lui”. Lui che non aveva neppure la licenza
media, ma che da quando aveva compiuto sette anni (ed era stato messo sotto
tutela dal tribunale dei minori dopo il divorzio dei suoi) aveva letto tutto quello che gli capitava a
tiro. In carcere, la media era di cinque libri a settimana. “Non riuscivo a
credere che una persona potesse descrivere giocatori, reietti e criminali come
ha fatto Dostoevskij”, racconterà.

In quel 1963, dunque, Chessman era morto da tre anni nella
camera a gas e Louise Wallis da pochi mesi: Bunker, che si divideva fra il tentativo di lavori onesti e le rapine a
mano armata,. aveva studiato intanto The Elements of Style di E.B.White
e catalogato mentalmente, scrive la Steele, “tutti i racconti e le scene di
vita criminale che aveva visto dalla sua prospettiva unica. Le sue ricerche si
basarono su vicende vissute sulla propria pelle”. In particolare, all’epoca
della stesura di Stark, poteva contare anche sul doppio lavoro nel
carcere dove era nuovamente recluso, come segretario del tenente capo e come
bibliotecario: con la conseguente possibilità di poter battere a macchina
resoconti di risse e altri incidenti e di coltivare, sui testi disponibili, una
cultura giuridica. Non veniva retribuito, naturalmente: e per pagare i
francobolli necessari a spedire i manoscritti vendeva il proprio sangue. Fu
forse grazie a questo espediente che Stark
arrivò negli uffici di un editore inglese, dove è rimasto fin qui e dove lo ha
rintracciato Nat Sobel, che di Bunker fu l’agente letterario.

Dunque, cosa è Stark? In breve, ha ragione James Ellroy a
definirlo una profezia del Bunker che sarebbe venuto e che sarebbe stato
adorato da Quentin Tarantino e da milioni di lettori che si sarebbero stupiti e
appassionati per Animal factory, Educazione di una canaglia, Cane mangia
cane
. Nel primo romanzo ci sono già i suoi temi e il suo mondo, raccontato con quella particolare
forma di cinismo che era soprattutto ossessione della verità. Siamo a Oceanview, California del Sud.
Ernie Stark è un piccolo truffatore che un poco somiglia al suo creatore:
ventotto anni, di cui cinque passati in carcere, è bello, è gelido, è portatore
ignaro di quello che Bunker definirà “esistenzialismo criminale”, ama
vestire bene e vivere in una casa sulla spiaggia, munita di libri, dischi di
jazz e stampe di Renoir. Sa, inoltre, come viene rappresentato un duro: cammina come ha visto fare ad Humphrey
Bogart e paragona mentalmente a Veronica Lake la bella tossica Dorie, con cui
s’impiglierà in una vicenda prevedibilmente letale. Ma se la cornice omaggia il
pulp più semplice, la storia è tutt’altro che prevedibile. Anzitutto perché
Stark deve districarsi da un guaio a più strati: è obbligato a passare
informazioni ad un poliziotto che lo minaccia, ha sviluppato dipendenza da
eroina, deve conquistare la fiducia del suo spacciatore, scoprire chi è a capo
del traffico di droga e possibilmente soffiargli il mercato. In secondo luogo,
perché il mondo dei tossicodipendenti e degli ex detenuti con cui Ernie
intrattiene rapporti di apparente solidarietà, è ritratto con spietato,
granitico realismo. Ma c’è una differenza con il Bunker futuro: Ernie Stark non è il Max Dembo di Come una bestia feroce, manca della sua
consapevolezza del crimine, procede per istinto e fortuna, non esita mai
quando, per realizzare i suoi piani, deve tradire e sacrificare gli antichi
fratelli. In breve, non conosce dubbi e fugge i legami affettivi: eccezion
fatta per una possibilità che riguarda Dorie, peraltro sfumata nel finale, con
reciproco sollievo. Racconta Jennifer Steele che Bunker non stimava i
truffatori, “perché di norma sfruttavano le persone più deboli. Ma li capiva”.
Dunque, com’è sua consuetudine, non emette giudizi su Ernie: si limita a
descriverne l’ingegno con cui ordisce un inganno letteralmente dentro
l’altro. Una pura manifestazione di quanto fosse già potente quella che lo
psicologo di Bunker, in carcere, definiva “fantasia puerile”.

14 pensieri su “FANTASIE PUERILI

  1. La critica, certo, la critica…
    A suo tempo ricordo che tra Francia e Italia (Truffault, Antonioni, De Santis, ecc. ecc.) i critici cinematografici avevano l’abitudine, dopo aver criticato, di “passare all’azione”. E se la Critica Laureata e Letterata facesse lo stesso? Se i Critici ci facessero vedere come si scrive un Vero Buon Romanzo, una buona volta? Il fatto che Citati abbia fatto sbellicare mezza Italia (l’altra non se ne è accorta) costituisce un precedente?

  2. Pietro Citati, “Storia prima felice, poi dolentissima e funesta” (romanzo)
    quanto all’impossibilità del tragico nella narrativa italiana:
    Vasco Pratolini, “Un eroe del nostro tempo” (l’antesignano, nero come un film di Clouzot, quasi contemporaneo de “Il corvo”)
    Giancarlo De Cataldo, “Romanzo criminale” (i topoi della tragedia filtrati dal cinema di Kitano)
    Niccolò Ammanniti, “Come dio comanda” (inserzioni di tragedia assoluta in una trama scurissima come l’anima dei suoi personaggi)

  3. Invidio Scurati non tanto per il Campiello ma, come detto nella URL sopra allegata, per la cena nella “prestigiosa e famosa in tutto il mondo Locanda Ristorante ‘da Lino’, ai piedi delle colline, a Solighetto (Treviso)”.
    Son soddisfazioni, signora mia… E che magnata!!!

  4. @ Gianni Biondillo
    vuoi mettere quella che ti offrirò io, Gianni? ci sono cose che non hanno prezzo, per gli Scurati basta una mastercard 🙂

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