FEAR YOURSELF

Vedi alla voce paura. A leggere i giornali e guardare la televisione, non sembra sia possibile trovare altri denominatori al nostro stare al mondo, almeno in questo momento.
I vecchi lettori di horror, come la vostra eccetera, trovano conforto nei loro classici di ieri e di oggi. Ah: a proposito del passato. Vi avevo detto che stavo scrivendo, al volo, un articolo su Poe, peraltro uscito diversi giorni fa. Ma dal momento che la rilettura dello
Scarabeo d’oro mi ha fatto bene, vi propongo qui quel che ne è uscito fuori.
State bene, se potete.

Il cuore de Lo scarabeo d’oro, famosissimo racconto che Edgar Allan Poe scrisse nel 1843, è in due righe fitte di cifre e simboli. Niente cuori che palpitano, qui: niente gatti demoniaci, nessuna adorabile morta che si appropria di un cadavere femminile per tornare alla vita, nessun corvo che gela la speranza con un Nevermore. Niente visioni. Niente paura. Lo scarabeo d’oro risiede saldamente nel lato in apparenza luminoso della produzione di Poe: quello che invece di far irrompere la tenebra e l’insondabile in una vita razionale, sopraffacendola,  si appropria del mistero, lo esamina, lo scioglie.

   Pur cedendo, almeno all’inizio, alla possibilità di una resa: come afferma uno dei protagonisti, l’entomologo William Legrand, quando esamina il disegno che riproduce il meraviglioso scarabeo in suo possesso, davanti a qualcosa di singolare e non prevedibile “la mente si sforza di trovare una connessione, un legame di causa ed effetto, e quando non ci riesce subisce una specie di paralisi temporanea”. In quella pausa del raziocinio, Poe si insinua per tutta la sua produzione: ma sceglie, a seconda dei casi, due strade diverse. Riallacciare quel legame che allontana causa ed effetto. O mandarlo definitivamente all’aria.

   Lo scarabeo d’oro si pone nel primo filone, lo stesso dei Delitti della Rue Morgue. Eppure, allo stesso tempo, ne prende ironicamente le distanze: perché non tutto, alla fine, torna. E’ probabilmente proprio a questo racconto che si ispirò, qualche anno fa, Stephen King, quando pubblicò quell’enigma per lettori che si chiama The Colorado Kid. Per molti uno shock, per gli appassionati una felicità senza pari: il racconto di King era apparentemente un giallo, ma, a sorpresa, non aveva risoluzione finale, non aveva catarsi, non aveva spiegazione. La celebrazione di un mistero che rimane inviolato: un lusso che in pochi possono permettersi.

   Ecco, Poe è stato forse il primo a concedersi un simile privilegio, e a poter giocare, in questo racconto, addirittura su un binario triplo, che all’inizio sembra promettere mistero per poi cambiare decisamente rotta, dissolvere ogni dubbio, e chiudere con un’ombra di sospetto. Perché l’apertura ci fa presupporre terrori esoterici fin dall’ambientazione, nella strana isola fatta di sabbia marina, di canne, di mirto, di alberi nani. Qui vive Legrand, stravagante come si conviene: discendente di una famiglia ricchissima, è caduto in miseria e vive di entusiasmo e di ossessioni in una capanna, insieme al servo Jupiter. Quando il narratore si reca a visitarlo, lo trova eccitatissimo per la cattura di un singolare scarabeo color oro: al momento la creatura è stata prestata ad un conoscente affinché la esaminasse, e Legrand ne disegna l’immagine su un vecchio pezzo di carta dimenticato nelle sue tasche. Ma a ben guardarlo, il disegno è quello di un teschio. Fin qui, la storia potrebbe prendere la direzione dell’insondabile. Ma non è così. Passano le settimane, e il narratore viene invitato ad una spedizione da Legrand: raggiungono uno dei pochi alberi di ragguardevole altezza e, fatto arrampicare Jupiter, trovano un ramo con un teschio. Nell’orbita sinistra viene fatto calare lo scarabeo, legato ad una cordicella. Basandosi sul corpo penzolante dell’animale, Legrand individua il punto esatto in cui è nascosto il più classico dei tesori: oro e pietre preziose.

   Dov è dunque il mistero? In un messaggio criptato scritto con inchiostro invisibile sul pezzo di carta usato per disegnare lo schizzo dello scarabeo, e venuto alla luce perché avvicinato alla fiamma durante la lettura. Un gioco, dunque. E assai caro allo stesso Poe, come raccontò, tempo fa, Simon Singh nel libro Codici e segreti: sull’ Alexander Weekly Messenger di Philadelphia, Poe aveva  infatti intrapreso con i suoi lettori una sfida molto simile a quelle di Stefano Bartezzaghi, invitandoli a sottoporgli i loro crittogrammi affinché li decifrasse. Attività in cui, sembra, eccelleva. Da quell’esperienza nasce il desiderio di scrivere una storia sui codici segreti: non casualmente, scrive Singh, adorata dai crittografi professionisti.

   In apparenza, un racconto per iniziati: naturalmente non è così, e altrettanto naturalmente Lo scarabeo d’oro non è un whodonit, un giallo deduttivo, come tempo fa veniva ancora definito: non c’è, qui, nessun disordine da ricomporre attraverso la logica. E soprattutto, nulla si ricompone fino in fondo. Perché nella fossa del tesoro ci sono degli scheletri, e neanche Legrand può rispondere su chi li abbia uccisi. Forse lo stesso proprietario della cassa meravigliosa, il capitano Kidd. O forse no. Come è giusto, il racconto che dovrebbe celebrare la vittoria della ragione sul mistero, si chiude con le parole  Who shall tell? Chi potrà mai dirlo?

  

5 pensieri su “FEAR YOURSELF

  1. ehi lippa, bello questo scritto. who shall tell. se non lo hai letto e se ti va di trovare certe similitudine se non di rtimo almeno di intenti leggi Favole di tenebra di ludovica koch, donzelli, fine anni novanta. e questo. 🙂 chi

  2. Uh che bello questo scritto, e questo racconto – mi piacciono tutte queste implicazioni… io non conosco Poe, come si dice – non è il mio genere – però trovo così intellettualmente salubre leggere gli autori che esplorano la dialettica tra razionale e irrazionale, tra vertigine della soluzione e vertigine dell’insoluto. mi pare che anche questo scarabeo d’oro si metta in mezzo come una stella di dicotomie possibili (la mia preferita è quella tra conscio e inconscio, e che te lo dico a fa’? Ma non è certo l’unica).

  3. Appoggio in toto e altrettanto apprezzo.
    “Lo scarabeo d’oro” è uno dei miei preferiti, trai tanti preferiti, di Poe.
    La parte che più m’è rimasta impressa è quella dell'”aneddoto cifrato”, con la spiegazione del mistero: la lettera più comune nell’alfabeto inglese è la “e”, e via dicendo. Credo che nel 1843 fosse un pezzo di letteratura particolarmente nuovo. Ed è vero, che a differenza di Dupin, il finale resta qui oscuro.
    Comunque sia, per quanto sui generis, resta un racconto “giallo”.
    A sto punto mi dovrò leggere “Colorado Kid”, che hanno citato WM1 e la Lipperini come straordinario esempio di giallo senza risoluzione.
    Anche se non ho capito ancora se straordinario sia il giallo o il fatto che King abbia avuto il coraggio di concluderlo senza svelare il mistero.
    [Mi auguro sia per il primo motivo, perché nell’altro caso non penso ci sia niente di coraggioso nel tagliare la coda ad un’indagine.
    Pensate se alla fine di “Lost” gli sceneggiatori non spiegheranno la faccenda…Premesse tutte le qualità del prodotto, vorrà soltanto dire che non sono riusciti a trovare una conclusione adatta, nessun coraggio!]
    Comunque a parte la tirata sul giallo illuministico, sono contento che si sia tornati a parlare del capitano Kidd!
    Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa della morto!

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