FOFI VERSUS PACCAGNINI

Post molto lungo.
Fresco, sole, chiacchiere con vecchissimi amici, le solite mucche, “la cosa” su
cui sto meditando che prende forma (sia pure a livello più che embrionale)
giorno dopo giorno, una lettura del giornale di oggi decisamente ortofrutticola
(fra Pietro Citati che rimpiange i pomodori perduti per attaccare Alessandro
Baricco- vedi la Repubblica- e gli editori che fanno “carotaggio” sui blog –
vedi il Venerdì).
Intanto.
Roberto Saviano mi manda due articoli. Confesso che il
primo mi era sfuggito: è apparso, a firma di Ermanno Paccagnini, sul Corriere
della Sera del 9 luglio, e mischia un po’ tutto, dal “genere” (Già! Ancora!
Accidenti!) agli anni di piombo, con un affondo alquanto sgradevole sul sia pur
non nominato “Gomorra”.
Il secondo è di Goffredo Fofi, e risponde per le
rime al precedente: anche se la titolare non concorda con molti punti
dell’analisi (specie la parte relativa all’Apocalisse e ai suoi cavalieri), la
medesima vale la lettura agostana, parola.

Scrive Ermanno Paccagnini:

      Di tutto e di più. E, senza
forse, anche un po’ troppo di «uguali». Mi sembra questo a grandi linee lo
stato attuale della nostra narrativa, pur in una diminuita libertà e
creatività, personale e di direttive editoriali. Dove il dato positivo sta, per
la narrativa e la letteratura in genere, al pari di altre forme di creatività
quali ad esempio pittura o musica, nella caratterizzazione di questi anni
soprattutto come periodo di ricerca in una situazione da «perdita del centro»
(per dirla con Sedlmayr): ossia come assenza di estetiche o ideologie dominanti
anche in senso creativo e stilistico. Di qui le forme di creatività le più
disparate, dal totalmente contrapposto al mescidato di quelle stesse forme
estreme, secondo un procedere – e qui rubo l’ espressione a Luciano Berio – da
«sinfonia di percorsi»: ovviamente non armonicamente neoromantici, ma ricchi di
dissonanze, realizzatesi per qualche tempo anche in narrativa fors’ anche per
disinteresse delle case editrici maggiori e certa volontà di rischio su autori,
forme e generi delle minori. È per tale via che si son così potute
riaffacciare, riprendendosi un ruolo anche primario, forme narrative
solitamente sprezzate come «genere»: dal rosa al giallo, al fantasy, alla
fantascienza. Un riaffacciarsi dal ruolo positivo, perché hanno riportato nella
narrazione quella dimensione del narrare appartenuta in passato ai cosiddetti
«raccontatori di storie», per dirla con Arpino, e andata scemando sia per la
loro graduale scomparsa sia per quella tipologia narrativa autocoscienziale
poggiante sino all’ ingolfo su un Io confessante sempre lacrimosamente
logorroico. Tanto più che il Genere si riproponeva non secondo modelli
standard, ma ritemprandosi coi problemi dell’ oggi, ad esempio depurando il
poliziesco della componente catartica. Con tale conseguente successo che
purtroppo oggi non c’ è bandella di libro che non si richiami al thriller
(anche «dell’ anima»), così riaffermando nei fatti quel «centro» nella forma o
di scelte e direttive editoriali o di autoindicazioni d’ autore, sino a
mescolare il genere col «romanzo storico» non tralasciando intingoli da Effetto
Dan Brown. Al punto che – in un clima di soffocamento del genere stesso –
respiri quando trovi chi se ne ritrae o per altra opzione creativa (tipo Fois) o
per interessi diversi (il Camilleri dell’ ultimo Montalbano, attratto dalle
psicologie più che da una trama subito smascherabile). Fortunatamente non tutto
è «giallo». Anche se è pur vero che non mancano altri precisi filoni, sempre
più saldamente cavalcati sino alla codifica da autori ed editori. Penso così
alla frequentatissima rivisitazione narrativa di personaggi reali, con forte
prevalenza di letterati (addirittura due i romanzi su Benjamin), che ti
inducono a chiederti se tali scelte poggianti sul «già dato» non costituiscano
precisi sintomi di carenza creativa. Perché poi il procedimento è il solito:
scelte individuali coraggiose; fortuna presso pubblico e/o critica; inserimento
di case editrici o di altri colleghi autori che puntano alla replica imitativa;
creazione di un filone. Col rischio mai evitato del fagocitante snaturamento
dell’ idea iniziale. Che è quanto sta avvenendo con la giovane narrativa
meridionale, ricca in questi ultimi anni di significative voci nuove, con
opzioni stilistiche diversificate nel loro accompagnare lo sguardo dentro
contraddizioni, denunce, sogni e utopie d’ un Sud in sofferenza. Solo che il
fenomeno si sta allargando a dismisura, sino alla standardizzazione: col «nero»
di Napoli quale ambientazione privilegiata, e conseguente abdicazione all’
immaginario a favore d’ una volontà di denuncia che tante volte traduce la
narrazione in cronaca (e non, semmai, viceversa). E buona sorte quando tutto
questo – mafia e camorra che «tirano» – resta affidato a sguardi interni, più che
a esterne prospettive «sociologicamente guardone». Situazione analoga a quella
dell’ altro recentissimo «fenomeno»: dei narratori di madrelingua non italiana
che però si esprimono direttamente in italiano. Una presenza che in più
occasioni e saggi m’ è avvenuto di salutare positivamente proprio per la
potenzialità di immaginario da essi introdotto e che può ricadere positivamente
su certe nostre sclerotizzate espressività, là ove sappia tradursi anche in
scelte stilistiche e strutturali originali; ma che sta divenendo «fenomeno»
proprio in quanto, ciò che dal nostro dopoguerra si era concretizzato come
sparsa ma fruttuosa ricchezza (cito a titolo d’ esempio Pressburger, Kemeny,
Wilcock, Jaeggy, Schneider, Bruck, sino a Tawfik, senza dimenticare negli anni
Novanta le sollecitazioni di piccoli editori come Fara o Il Grappolo), pare
oggi precisa direttrice editoriale e dei premi; e se è vero che si registrano
pur sempre voci sicure (penso alla Vorpsi), altrettanto vero è che si
affacciano voci ancora incerte e forse solo esotiche. Un Immaginario, aggiungo,
che è anche ricchezza metaforica, come può ben dimostrare il confronto tra la
rappresentazione delle dune del deserto d’ un Tawfik rispetto alla Morandini; e
dove semmai il rischio risiede nel farsi metabolizzare da certe nostre
schematizzazioni narrative (pericolo non sempre evitato proprio da Tawfik). E
si potrebbe proseguire. Anche perché la formazione dei filoni è continua: dalla
saga delle nonne post-Tamaro, ripiegata gradualmente su Nonni, Zie, sino a recuperare
il classico conto col padre (anche con buoni esiti, come ricorda lo Starnone di
Via Gemito); ai ripensamenti narrativi sugli anni di piombo (che cominciano a
essere un po’ troppi); al ritorno della letteratura di viaggio, che mi auguro
di miglior gestione. Anche se il vero augurio resta quello di poter contare su
chi sappia sfuggire a codici e condizionamenti, mettendosi continuamente in
gioco, operando mutamenti interni, cercando strade nuove, spezzando le regole.
Per essere se stesso. Tanto più in una fase come l’ attuale in cui l’ editoria
letteraria – con l’ affacciarsi di nuovi editori o di editori anche noti che
hanno deciso di optare per la narrativa italiana o di accentuarne la presenza
nel catalogo – sembra davvero scommettere su di sé. Sullo stesso genere
romanzo. Sugli esordi. Con proposte di voci spesso quanto mai interessanti e
promettenti. Ma questo richiederebbe un discorso del tutto autonomo. 
   

Scrive Goffredo Fofi:

Si avverte tra i critici letterari settentrionali una
sorta di fastidio nei confronti della letteratura meridionale, o della
produzione culturale meridionale in genere, che nasce, io credo, non da
avversione o rivendicazione “leghista”, ma da una specie di sotterranea e mal
riposta invidia per la scombinata, disordinata, e spesso anche equivoca, e
perfino molto equivoca e perfino
criminale vitalità di quell’area, e di
conseguenza
delle proposte che ne vengono.

La letteratura italiana di oggi non ha cardini e non ha
centro, e quindi non ha neanche periferie. Tutto è centro, si direbbe, e dunque
tutto è periferia, anche se a Milano e magari nella decadutissima città degli
Struzzi la pensano diversamente, forti della loro industria editoriale di lunga
data, ma di conseguenza la più compromessa di tutte con il mercato; o forti a
Roma della loro televisione, del loro cinema-televisione, dei loro ministeri,
della perennità parodistica dei loro salotti (esistono e come! vicini e
necessari al “palazzo” e, per lontana “egemonia”, diessini, e mai illusione di
esser centro fu più proterva). Si tratta in definitiva di un’altra variante del
mercato, ma che, aggrappandosi da sempre allo Stato, non ama correre rischi.

Roma non è però solo questo, e ha visto, per esempio, nel
suo disordine, nascere e prosperare una piccola o media editoria che non ha
niente da invidiare, quanto a validità o superfluità delle proposte, a quella
torinese e milanese. Lo stesso si può dire, però, di altre iniziative che
crescono, si affermano e talora rapidamente muoiono in altre zone della
penisola, senza più differenze tra le aree perché una certa ricchezza c’è
dovunque, nonostante le ipocrite lamentazioni, e fare libri non costa più come
una volta anche se, una volta scritti e stampati, resta da affrontare lo
scoglio della distribuzione e delle librerie. Vi è infatti in Italia un
ristretto, aggressivo e ricattatorio oligopolio che domina in questi settori,
contro il quale sì che ci vorrebbe una legge! Dunque: molto si pubblica in
molte città grandi e piccole ma di questo molto poco arriva ai lettori, e poco
può confrontarsi con ciò che si fa in altre zone da parte di altri piccoli
editori con i loro

tanti scrittori. Scrittori
o, secondo una distinzione antica che non è mai stata così vera, scriventi. Gli “scrittori” sono pochi,
gli “scriventi” tantissimi, i lettori così così. Ma in compenso sono tutti
quanti laureati, e come tutti i laureati dalle nostre pessime o mediocri
università, sono tanto presuntuosi quanto ignoranti. E’ proprio questo che
l’università ne fa: con il risultato dell’infinita e impetuosa superficialità
che ne consegue.

In un mondo senza “progetto” e senza idee plausibili di
futuro, in un mondo in rapidissima e incontrollabile trasformazione, in un
mondo in cui i quattro cavalieri dell’Apocalisse – che secondo quanto scrisse
diversi anni fa, prima di morire, il saggio Bunuel sono la scienza, la tecnica,
la sovrappopolazione e l’informazione
–, conta solo il presente, e l’immediatezza dell’affermazione e del successo,
non contano il lavoro in profondità e il cercare di vedere in avanti. E così si
torna al “genere”, dapprima, per ricavarne linfa, gusto della narrazione e
dell’immaginazione, e dopo perché il genere vende, finché non stufa. Il noir
per esempio, ha già stufato da un pezzo, soprattutto chi si era illuso che
potesse essere davvero una “investigazione” del reale e una esplicitazione
delle sue paure. Il rosa ha invece i mille colori della globalizzazione e
ancora tiene, perché la massa dei lettori è fatta da piccolo-borghesucci
internazionali bisognosi di consolazioni sentimentali e di sentirsi importanti.
Ma a forza di scrittori e scrittrici alla Allende (cito lei perché, sulla scia
del Garcia Marquez primo imbonitore, ha fatto da battistrada e da modello per
migliaia, dico migliaia, di altri scrittori e scrittrici di tutto il mondo) i
colori avvizziscono, si mischiano, si fondono in scolorite macchie, tutte
eguali in ogni parte del mondo. E allora chi ci salva, chi è in grado di
ristabilire giudizi, criteri di valore non determinati dalla pubblicità e dalle
carovane editoriali (libri e giornali)? I critici dove stanno? Come crescono,
chi li addestra, dove si fanno il palato se non dentro questo intruglio
economico-mediatico-spettacolare? Come stupirsi allora se scrittori giovani di
qualche o di molto talento vengono confusi con quelli che sono solo abili
fiutatori delle voghe o ignoranti-aggressivi “laureati” della
cultura-spettacolo? Se lasciano che il loro talentoTrisponsa alle
sollecitazioni dell’ambiente?

Torno alla constatazione iniziale: la vitalità della
società meridionale, e la possibilità che ne deriva di scrittori importanti. E
cito i nomi che mi stanno più a cuore e nei quali credo di più, i campani
Montesano, Braucci, Pascale, Parrella, il pugliese Lagioia, e i sardi – caso a
parte, il più vario per età, e il più ricco e meno studiato di questi anni a
causa dei soliti pregiudizi “centristi” e “continentali” – Mannuzzu, Angioni,
Todde, Fois, Capitta, e Niffoi se saprà resistere alle sirene del successo e
alla richiesta di far maniera. Sicuramente dimentico molti, ma non voglio certo
dimenticare il caso di Roberto Saviano e del suo Gomorra, pietra di scandalo per qualche critico perché: a) cerca
modelli non solo “letterari” e narrativi in senso stretto, cioè “autorizzato”
dai critici, b) perché racconta in modo forte una realtà fortissima, c) perché
si mette in gioco come “attore” e non solo come spettatore. Saviano rischia
molto, con il suo successo, ma forse ce la farà, se non accetterà di essere, a
seconda delle offerte, solo “giornalista” o solo “scrittore” o solo “spettatore”.

In questo paese-Italia amorale e senza progetto, dove
succede di tutto e si discetta di tutto ma con pochissima voglia di cambiare,
perché ogni serio cambiamento implica serissimi costi, la “differenza” del Sud
è che vi è adesso e per molto tempo ancora impossibile ignorare una realtà
ribollente: apri la porta e la vedi, ti sbatte sul naso, ti entra in casa, ti
avvolge e ti cambia. E uno che vuol fare lo scrittore non può certo ignorarla.
Mentre al Nord la realtà, anche se ugualmente complessa, è ovattata e nascosta,
è sotterranea, e per “vederla” devi fare uno sforzo, devi studiarla. E allora
ti resta molto più facile leggere gli scrittori americani (come a Roma,
peraltro), fingerti Dostoevskij o qualcun altro, o affidarti ai giornali. La
differenza è, credo, solamente questa: gli scrittori settentrionali devono
faticare di più, ma forse per questo finiranno, chissà, per dire di più.

20 pensieri su “FOFI VERSUS PACCAGNINI

  1. Se traduci la narrazione in cronaca ti tirano le pietre perché non fai narrazione
    Se traduci la cronaca in narrazione ti tirano le pietre perché non fai cronaca
    Se fai un noir ti tirano le pietre perchè usi il genere ma non fai un rosa
    Se non fai un noir ti tirano le pietre perchè rafforzi il mercato del genere per negazione
    Se fai un rosa ti tirano le pietre perché usi il genere ma non è un noir
    Se fai un noir per fare un noir ti tirano le pietre perché non cerchi di scandagliare la società
    Se scrivi un noir per cercare di scandagliare la società ti tirano una scarpa perché sopravvaluti il genere
    Se non sei Roberto Saviane ti tirano le pietre perché non hai scritto Gomorra
    Se sei Roberto Saviane ti tirano le pietre perché hai scritto Gomorra
    Se usi i documenti ti tirano una pietra (ed anche uno scarpa) perché non fai fiction
    Se non usi i documenti ti tirano le pietre perché non fai faction
    Se non parlano di te ti tirano le pietre perché non sei nessuno
    Se parlano di te ti tirano le pietre perché sei qualcuno
    Se parlano male di te ti tirano le pietre perchè parlano male di te
    Se parlano bene di te ti tirano le pietre perché devi stare attento a non farti ingabbiare dai complimenti
    …tanto vale scrivere

  2. Nell’autunno del 2003 ho organizzato a Pavia, con mezzi neanche tanto limitati, un ciclo di incontri con autori meridionali. Parteciparono Cosimo Argentina, Livio Romano, Diego De Silva e Francesco Piccolo. Il pubblico, nordico ma non nordista, colto ma non necessariamente accademico, stimolato ma non isterico, accolse il tutto con curiosità, soddisfazione, incoraggiamento; e si presentò in massa al luogo convenuto, raggiungendo talvolta anche le undici unità.
    Dov’è l’errore?
    Non lo so, fatto sta che non ho organizzato più nulla.

  3. Caro Gurrado, chi lo sa ? Forse l’errore è che i pubblici (anche quando sono colti ma non…, nordici ma non…, ecc. ecc.) vogliono il sangue, la polemica, magari anche qualche insulto. Sai, non è che i nordici colti siano poi molto diversi dagli altri. Loro hanno la tendenza a crederlo, ma non bisogna prenderli troppo sul serio.

  4. Ma sì, l’analisi di Fofi è pertinente e acuta, come sempre. Ma i nomi, cazzo, i nomi sono sempre, immancabilmente i “suoi”, quelli della sua angusta e rumorosa conventicola de “Lo straniero” nella quale convivono scrittori veri (Montesano) e scrittori finti, “costruiti” dai media o dal fofi medesimo (vedi il caso, davvero clamoroso, di Pascale che ha pochissimo da dire e lo dice male e forse non è neppure uno scrittore ma solo uno “scrivente”, secondo l’efficace formula di Fofi). Insomma, caro Fofi, allarga le tue vedute, spazia anche ad artisti e scrittori che non ti sono amici, che non ascoltano i tuoi sermoni e non collaborano col tuo faziosissimo (quanto intelligentissimo) foglio letterario.

  5. Caro Ferrazzi,
    è da qualche tempo che non vivo più a Pavia e me ne sono andato con la convinzione che forse troppa università, troppa cultura hanno da un lato presentato una super-offerta culturale, dall’altro creata un’eccessiva saturazione. In quest’estate pugliese, d’altro canto, sto avvertendo in provincia una voglia di crescere, di sapere, di conoscere, che viene però sempre frustrata dallo scetticismo del luogo.
    (So che non sta bene pubblicizzare, ma sul blog Ore Piccole ho analizzato questo procedimento riguardo a una mostra di pittura.)

  6. Cara Loredana,
    Buonasera. Sò che magari esagero ma in questo bailame culturale posso segnalare la presentazione di un Letterato preparato e intelligente come Paolo Bianchi?
    LA CURA DEI SOGNI di Paolo Bianchi
    IL 28 AGOSTO ALLE ORE 18 PRESSO LA BIBLIOTECA COMUNALE DI COMO,
    piazzetta Venosto Lucati, 1
    tel. +39 031 270187
    fax +39 031 240183
    biblioteca@comune.como.it ,
    NELL’AMBITO DI PAROLARIO, LO SCRITTORE PAOLO BIANCHI PRESENTA IL SUO
    LIBRO DI SUCCESSO
    “LA CURA DEI SOGNI”, DIALOGA CON DAVIDE FENT.
    VISTO CHE LA CURA DEI SOGNI E’ ANCHE “TRE METRI SOTTO TERRA: IL
    ROMANZO ITALIANO SUI TRENTENNI DI OGGI” è legato a “TRE METRI SOPRA
    IL
    CIELO” E “HO VOGLIA DI TE” DI FEDERICO MOCCIA, e ho letto su
    Repubblica
    che migliaia di ragazze e ragazzi legano lucchetti come pegno d’amore
    sui lampioni di Ponte Milvio a Roma e buttano la chiave nel Tevere
    (come nel libro di Moccia), ho trovato in internet che succede da
    altre
    parti nel mondo…
    “Quando misi piede sull’Isola Suo (Lucchetto), vidi quattro grandi
    caratteri cinesi, “le zai qi zhong” (trovare piacere in ciò), scritti
    con i fiori. Mentre seguivo le piste di scalini scavati nella roccia,
    trovai molti lucchetti lungo le ringhiere costituite da catene di
    ferro. I lucchetti, chiamati anche Lianxinsuo (ciò che lega due
    cuori),
    sono in forme e colori diversi, e da lontano sembrano fiori. Quando
    gli
    innamorati visitano l’isoletta, assicurano alle catene due lucchetti
    chiusi insieme, come pegno d’amore perenne. Secondo qualcuno, il
    numero
    dei lucchetti raggiunge i 60.000.
    Sfortunatamente, non ebbi abbastanza tempo per visitare le altre
    isolette, come l’isola di Lei (il Serpente) e quella di Hou (la
    Scimmia), e tuffarmi nell’acqua per vedere le antiche città;
    sommerse,
    come la città; di Chun’an che risale a 1.800 anni fa. Spero di poter
    rivisitare il Lago di Qiandao con mio marito, così che anche noi
    possiamo chiudere una coppia di lucchetti sull’Isola di Suo, in segno
    del nostro amore eterno ed immutabile.
    ….
    Quindi l’incontro con Paolo Bianchi sarà ulteriormente interessante.
    Baci e Abbracci
    df
    Romanzo che più estivo non si può è il bellissimo “La cura dei sogni”
    di Paolo Bianchi (Salani Editore, 12,50 Euro).
    Il libro verrà presentato in Biblioteca a Como il 28 agosto alle 18,
    nell’ambito della kermesse libraria “Parolario”.
    Paolo Bianchi è nato a Biella nel 1964. Vive a Milano.
    Fa il giornalista,il consulente editoriale, traduce dall’inglese e
    dal
    francese e quando gli riesce scrive un libro. Collabora, tra l’altro,
    con Il Giornale e Il Mucchio Selvaggio. Ha pubblicato l’inchiesta
    Avere
    trent’anni e vivere con la mamma (Bietti, 1997) e i romanzi Uomini
    addosso (ES, 1999) e Il mio principe azzurro (con Igor Sibaldi, ES,
    2001).
    el 2004 aveva anticipato i tempi con un libro scritto con Sabrina
    Giannini “La repubblica delle marchette”. La Cura dei Sogni è l’
    Italia
    di oggi, aperitivi, lavoro, soldi… noia, e sesso. Ci sono due
    restauratori Eugenia e Simone ossessionati dalla conservazione del
    bello.
    Andrea, che fà il gigolo e con le belle donne ci va letto. Ognuno di
    loro conserva un sogno. Tutti vanno in fuga, chi verso Cuba, chi da
    se
    stesso. Un triangolo sentimentale, tre illusioni, tre modi diversi di
    scappare di fronte al vuoto, al grigiore.
    Qualcuno ha detto del libro :Tre metri sotto terra: il romanzo
    italiano sui trentenni di oggi. Ma direi di più, ci siamo forse
    tutti,
    coi nostri sogni utili e sicuramente indispensabili. D’altra parte l
    ‘interpretazione dei Sogni, è sicuramente da ritenere una delle
    pietre
    angolari della scienza psicoanalitica: fu Freud stesso a definire l’
    analisi del sogno come la via regia verso l’inconscio. Freud portò
    sempre un profondo rispetto per la sua vita onirica: fin da molto
    giovane aveva l’abitudine di annotare i suoi sogni ed approfondirli
    attraverso attente osservazioni. Un romanzo corale dell’Italia di
    oggi,
    raccontata in un ritratto asciutto e penetrante, ma intimamente
    doloroso.
    Davide Fent
    Grazie Morbido Moccia
    15/06/2006
    Finalmente ho cominciato a leggerlo, questo “Tre metri sopra il
    cielo”
    di Federico Moccia. Ho anche dovuto per due ragioni. 1) Ha venduto
    tantissimo e i ragazzini ne parlano sulle panchine e in spiaggia. 2)
    Al
    mio libro l’editore ha allegato una fascetta che dice “Tre metri
    sotto
    terra” e come azione di marketing non c’è male, visto che un libro
    così
    bene esposto nelle vetrine, sui banconi e perfino sugli scaffali dei
    supermercati io non l’ho avuto mai. Quindi, grazie Moccia; ti devo
    leggere, ti devo proprio leggere, mollo giù piuttosto “Le
    Metamorfosi”
    di Ovidio, che ormai alla Biblioteca di Biella mi avranno sospeso dal
    prestito sine die, e vado alla Feltrinelli vicino a casa e prendo in
    mano l’edizione tascabile di “Tre metri” e comincio.
    A volte mi capita di perdermi, lì, in quelle belle poltroncine
    polpose, e di finirmelo tutto, un libro. Poi, prima di uscire, ne
    compro un altro per senso di giustizia. Di Moccia ho letto fino a
    pagina 23, poi mi è calato una specie di abbiocco, ma non perché
    l’azione fosse lenta, semmai perché era troppo veloce. Era come il
    montaggio di “Natural Born Killer”, o quei film lì. Infatti voglio
    vedere anche il film per capire come ce li hanno messi tutti quei
    personaggi, a meno di organizzarli in scene da tableau vivant, alla
    Greenaway.
    Poi mi ha colpito il fatto che in 23 pagine l’appellativo “morbido”
    compare 4 volte: un collo morbido, un braccio morbido, dei fianchi
    morbidi, una bocca morbida. “Morbido, questo libro,” ho pensato, io
    che
    una notte ho faticato a prendere sonno perché un mio amico mi aveva
    fatto notare che ho scritto due volte “felpato” in 236 pagine. È vero
    che ho anche scritto tre volte “muovevano” in sei righe, ma non è un
    aggettivo, e poi era un effetto voluto. Quindi, dubbio: 1) Moccia non
    se n’è accorto. 2) Moccia lo fa apposta perché ritiene che i suoi
    lettori non gradiscano un’aggettivazione troppo ampia. 3) Moccia lo
    usa
    proprio come strumento stilistico: un “morbido” ogni cinque pagine e
    mezza ha un benefico effetto subliminale. Un giorno o l’altro, se lo
    incontro, glielo chiedo.
    Paolo Bianchi dal suo sito http://www.pbianchi.it
    Merci, Bacioni, Notte Santa.
    Davide Fent
    http://www.circoloblu.it

  7. Perché Sergio Pent su Tuttolibri ha scritto che io, secondo lui, avrei dovuto partorire una “cronaca romanzata”? Che cosa significa? Non è che con tutte queste polemiche le penne di certi critici impazziscono? Non me ne frega niente della cronaca romanzata. A me interessano le metafore. Dovrei cambiare idea soltanto perché in Italia ogni mese viene dichiarato un nuovo “capolavoro” e l’ultimo sarebbe un esempio di “cronaca romanzata”?

  8. Nicolò, io credo che il Fake di Dorothy Parker ha detto una grandissima verità (un pezzo almeno). Condivido decisamente con te, ma già lo sai, l’idea della metaforizzazione del reale, in tutte le sue varie possibilità, compresa quella dell’uso della stessa cronachistica realtà come metafora (che è il contrario della cronaca romanzata, un giorno qualche critico e qualche autore di capolavori magari lo capirà).

  9. Per chi ricorda la rubrica “Parla come mangia” di “Cuore”, l’articolo di Paccagnini si potrebbe tradurre così:
    “fuori i terroni e gli stranieri dalla nostra letteratura”!

  10. …dimenticavo:
    Se ti interessano le metafore ti tirano ne pietre perché non fai cronaca romanzata
    Se fai cronaca romanzata di tirano le pietre perché sei una macchinetta da allegoria
    …tanto vale scrivere

  11. Fake – ormai usiamo solo l’appellativo noi ggiovani scrittorucoli made in Fazi che abbiamo in testa soltanto un gran mucchio di capelli, insomma, come quando Mamma Ebe uno la chiamava direttamente “Mamma”, o Madre Teresa direttamente “Madre”, immagino eh!, perché non ho mai incontrato né Mamma né Madre, faccio uno sforzo sovrumano per immaginare la cosa come se l’avessi vissuta interiorizzata e poi esteriorizzata in una forma estetica precisa e non priva di connotazione ideologico-politica e altresì critica nei confronti dello sporco Sistema, quindi sto facendo fiction e non faction perché non sto narrando documentalmente, ma inventando un fatto che non ho mai provato sulla pelle, Fake, torniamo a bbomba, dicevo, non è che la versione di questa poe (come pare che dicano le ragazzine) la completi e mi autorizzi a metterla sul mio blog, io trovo molto bella questa poe, e che fa proprio ridere, e pare che qualcuno sostenga che ridere un poco non faccia mai male. Ciao Fake, fammi sapere!
    (Ciao Nic, come va con la cronaca romanzata, ti stai esercitando? :0))
    Ah, Fake, dimenticavo. Ovviamente leggi /’fake/. Come /Man’drake/.

  12. @ Gemma G.
    A tua discrezione, ci mancherebbe. Non c’è da completare al momento, basta fare cut&copy dei due post. Per continuarla aspetto i prossimi exploit della critica italiana (ma puoi farlo anche tu, GG).
    Critica italiana? Quale critica? Ah, la critica italiana: quella sì che sarebbe una buona idea

  13. @Gemma. La cronaca romanzata… non ci riesco… non ci riesco… ci provo ma non ci riesco… Sto perfino perdendo i capelli, altro che giovani dalle folte chiome… Tanto il prossimo anno magari il capolavoro assoluto sarà, che ne so, il poema religioso di un settantenne di Bolzano. Però prima di ricevere la consacrazione del mercato questo settantenne dovrà esibire le stigmate e raccontare la sua infanzia in un convento. Così col cavolo si troverà qualcuno disposto a criticarlo. Le stigmate! Vuoi mettere? La sua scrittura sarà scrittura-vvveraaa! Boh. E che faccio: mi metto a scrivere poemi religiosi? 😉 Sento un dolorino alle mani…

  14. OT
    salve,volevo sapere se il tuo collega marco cicala ha un blog o un sito,visto che mi sembra(oltre alla tenutaria di questo bloghello ovviamente)una delle poche persone che possano fare del bene alla cultura di questo paese,tra quelle impegnate in tal senso ovviamente(a fortiori ho escluso i “creatori di capolavori” professionisti e coloro che fanno la raccolta differenziata del gusto dei quattro lettori sopravvissuti a questa catastrofe culturale)

  15. pensavo che anche un fake di Babette Deutsch non sarebbe male(e costituirebbe pure una forma di giustizia postuma e futura.A proposito l’archeofuturismo sarà il must prossimo venturo di questa generazione di critici)

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