FOR BLOG ONLY: INTERVISTA A ROBERTO SAVIANO

Post molto, ma molto lungo (però quando ci vuole, ci
vuole).
E come lo chiamiamo questo? L’agosto del nostro scontento? Perché nel web
avvengono cose non strane, forse prevedibili, certamente – a mio modo di vedere
– sconfortanti. Mi riferisco ad un paio di articoli che non
intendo commentare. Anzi, lascio che a prendere la parola sia colui di cui
tutti parlano: e che, per una volta, dice la sua. L’intervista a Roberto
Saviano
è stata realizzata esclusivamente per questo blog e non è destinata
ad alcunché di cartaceo. Buona lettura.

Gomorra è un libro amatissimo. Direi
trasversalmente amatissimo. Di più: sembra che abbia la stessa funzione del
test di Roscharch, dove ognuno vede quel che i suoi occhi (o la sua anima, se
vuoi) gli consente di vedere. Ma cosa è per te? Come ha preso forma? Quanto e
come ci hai lavorato? 

L’immagine delle macchie di Roscharch che hai usato è
azzeccatissima. Può sembrare paradossale che un libro focalizzato sul potere
della camorra, in realtà diventi proprio un ginepraio di diverse letture,
valutazioni, interpretazioni. Ognuno vede quello che altri mai scorgerebbero.
Al libro ci sono diversi accessi. Era esattamente questo il mio obiettivo. Gomorra-Roscharch
mostra la complessità di strati che la scrittura può comporre. Un tessuto
connettivo di cui ogni lettore, a seconda della propria sensibilità e volontà o
voglia, ne sfoglia una membrana. E’ la massima soddisfazione per uno scrittore:
io del resto credo di aver scritto un libro sul potere dell’economia, sul mio
tempo, sulla morte, sulla condizione umana, sui soldi, sulle merci, sulla
guerra nel cuore d’Europa. Avevo in mente di raccontare il danaro ficcando il
naso lungo la sua scia. Perché dalle mie parti il danaro ha odore prima che lo
perda nel percorso d’investimento. E volevo raccontarlo. Quindi questa
molteplicità di letture sembra coincidere con la molteplicità di argomenti e
meccanismi che volevo raccontare. Da come si muore sotto le botte (colpi
di pistola) sino al caffè distribuito dalle ditte dei clan, al cemento che
costruisce le case a Modena e Milano. Gomorra ha preso forma in cinque
anni di lavoro e uno di scrittura. La mia casa editrice poi ha seguito il
percorso di scrittura successiva alla consegna del testo, avevo consegnato una
mole di carta. Avevo scritto un mammuth, versando tutto quanto poteva essere
versato. Senza un progetto preciso di costruzione. Ho seguito le mie storie, ho
seguito gli atti processuali della magistratura, mi sono trovato in una
struttura naturale indotta dalla scelta di raccontare piuttosto che dalle
singole storie. Helena Janeczek poi mi ha aiutato, seguito pagina per pagina,
la messa a punto del libro. Il metodo di lavoro è credo rappresentato dalla
volontà – alimentata da una rabbia totale –  Alcune pagine le ho scritte
durante i giorni della faida di Secondigliano, tre morti al giorno, una città
militarizzata dalle truppe camorriste e dalla polizia. Tornavo a casa dopo
essermi inghiottito le immagini peggiori e scrivevo di notte. Altre parti,
quelle più analitiche invece riuscivo a diluirle in mattine e pomeriggi di
studio disperatissimo, su migliaia di carte di magistrati e nastri delle
interviste che avevo fatto. E poi i capitoli nati dal ricordo di adolescente in
terra di camorra ricordi da cui ho saccheggiato moltissimo. Scrivere questo
libro mi ha ulcerato lo stomaco e reso fidanzato dell’enterogermina. Gomorra
però è anche un libro odiatissimo, in silenzio magari. Ma è un libro che genera
un fastidio enorme, come un’invasione per gli scrittori, come un tradimento per
i saggisti come un insulto per i cronisti. Usando questi ruoli come archetipi:
allo scrittore gli metto davanti un armamentario di dati, percentuali,
ricerche, infiltrazioni su campo, inizierebbe ad avere febbri da paura per il
“sociologismo”, lo schifo per il numero, lo scivolamento per la cronaca (nun
sia maje!) al saggista gli strofino sotto il naso la scrittura letteraria che
diviene cifra centrale, mescolo un “io” centrale, sensazioni, congetture,
facendo inorridire il suo rigore da chimico e la distanza dalla materia che
tratta, al cronista gli scippo molte sue categorie senza usare i suoi compiti.
Nessuno si riconosce nel mio metodo. Nemico di tutti amico di nessuno, insomma
verrebbe da dire, prendendosi poco sul serio. Forse. C’è una sorta di fastidio,
come un’incredulità di alcuni verso le pagine di Gomorra, come dire: se
l’inferno fosse stato a questo punto non era possibile non comprenderlo. Non
poteva arrivare questo Saviano, questo Serpico de “noartri”  a
raccontarcelo. Come un’epica lì pronta per essere raccontata, con vicende
fondamentali per ogni tipo di scrittura. Come se fossi andato a rubarmi una
pepita letteraria che stava lì abbandonata nella lota, piuttosto che
vicende che ho strappato coi denti all’osso dei diversi silenzi. Ieri ero a
Scampia tra i miei amici quelli che un giornalista ha definito da qualche parte
“la mia perduta gente”. Altroché perduti. Vero ossigeno dopo tutti gli incontri
nei posti più assurdi con le persone più impensabili. Ho riabbracciato tutti
gli amici che mi sono stati vicini quando ho scritto il libro e mi sono vicini
ora che c’è da difenderlo. E mi stupisce ogni volta ascoltare le loro parole su
quello che ho fatto facendomi comprendere come quelle storie avessero necessità
di essere raccontate anche per loro, soprattutto per loro. Ed ognuno me ne
racconta di nuove. O nuove versioni. E l’orgoglio enorme di vedere i libro in
mano a ragazzi che mai avrebbero preso un libro. Ex pusher, ragazzi che
lentamente stanno cercando di uscire dal Sistema. Ridevano pensando che in
genere chi attacca con una strana acrimonia Gomorra non durerebbe neanche
un’ora dove io vivo e non sarebbe durato mezz’ora a seguire le storie che
racconto. E questo loro modo di sfottere – coloro che non hanno neanche idea di
cosa significa scrivere di certe cose e raccontare certi poteri e vivere certe
realtà – con questa metafora muscolare mi ha fatto fare grandi risate. Ancor
più perché è difficile spiegare come ci diciamo spesso con Maurizio Braucci,
noi abbiamo dovuto imparare a scrivere al pc con le nocche, perché da queste
parti di mondo la rabbia non ci permette di sciogliere i pugni, più stretti dei
denti, neanche per scrivere. 

Quando il tuo libro è uscito, era in corso una delle
discussioni cicliche su cosa è/dove va la letteratura. Se debba raccontare il
reale, superarlo, scardinarlo. Io, fin dalla lettura del tuo testo sui funerali
di Annalisa, ti ho sentito come colui che attraversa le fazioni, ammesso che le
fazioni esistano davvero. Mi sbaglio?

Condivido quanto dici. Io mi sento – tanto per cambiare –
esattamente trasversale ad ogni territorio letterario. Come una sorta di ornitorinco
o una sposa in abito bianco che attraversa una miniera di carbone. Nella mia
scrittura tutto diventa materia. Leggende, sensazioni, intercettazioni
telefoniche, mappe autostradali, i sentieri del narcotraffico, le
interrogazioni parlamentari, le vicende di mio padre, la storia del mitra
Kahlashnikov, il certificato europeo di rifiuti, la prima volta che ho preso in
mano una 9×21 semiautomatica, le pagine di Pasolini, le visioni filosofiche di
Giordano Bruno. Racconto, dimostro ciò che racconto e quando non lo dimostro lo
esprimo con un’ossessione per la micro e macro economia. Legare il rapinatore
di Rolex, immondo disperato e feroce isolato nel vicolo più buio della terra al
funzionario Rolex che negli USA attende gli orologi rubati a Napoli per reinserirli
nel mercato mondiale da Montreal a Gibuti. Non ho fatto una scelta sola ne ho
fatto molte nelle mie pagine. Non ho agito da puro, usando la capacità
letteraria classica di disegnare l’universale nel particolare. Ho voluto creare
anche mappe generali, enormi, costruire grandi centrifughe, tempi dilatati, e
poi sincopati, spostamenti geografici repentini e discese caleidoscopiche
nell’immobile. La velocizzazione, il grande affresco, e poi il minuscolo
soffermarsi su un segmento, un caso unico, la parola-universo e la
parola-microbo suturate l’una all’altra le ho apprese da Oswald Spengler
ovviamente e poi Jared Daimond che in “Armi, acciaio e malattie” ti risolve la
storia dell’umana specie in 366 pagine. Loro mi hanno insegnato il tempo e il
respiro della pagina. Mi sono preso tutto quanto era possibile prendere. Non so
ovviamente quale sia stato il risultato. Continuo ad ignorare se ci sono
riuscito o meno. Di una cosa son certo però che non credo debba esistere una
divisione ideologica tra scrittura fiction, faction, no-fiction e altri
deliranti spartizioni di genere. Sento con Celine che esistono due modi di
scrivere: fare letteratura, e costruire spilli per inculare le mosche. Diciamo
che io non ho voluto e non voglio inculare le mosche. 

Alcune delle recensioni, peraltro positive e
più-che-positive, a Gomorra, usano i termini "reportage" o
"pamphlet". Forse nella maggior parte dei casi si insiste
sull’impegno civile e sulla denuncia del sistema. Che certamente c’è. Ma io ho
la sensazione che ci sia molto altro. Dal punto di vista della lingua; dal
punto di vista della narrazione; dal punto di vista della creazione dei
personaggi. Ho la sensazione che il tuo viaggio all’inferno sia restituito a
chi legge come un dono di parola. Come la trasformazione in mito di
quella che per alcuni è cronaca…

Sì, questo è un problema, sembra che in Italia non possa
esistere una letteratura in grado di scandagliare il potere del proprio tempo.
Come se la scrittura fosse una sorta di nottola di hegeliana memoria, che
arriva dopo. C’è anche del reportage in Gomorra, sicuramente, pamphlet
per nulla. Neanche per una pagina. I tempi sono dilatati non hanno l’indicativo
presente del reportage in ogni parte. Ho dato fiducia allo stile. Tutto è
mantenuto dalla scrittura. Ecco perché sento che il tracciato romanzesco è
quello in cui ho voluto foggiare Gomorra. Mi rendevo sempre più conto
incontrando, ascoltando, osservando, odorando, che i personaggi che avevo
davanti  erano già soggetti di racconti, soggetti letterari intendo, che
mi si creavano come imprescindibili figure in grado di raccontare attraverso
loro il dedalo degli affari e il puzzo del danaro. E le intercettazioni
telefoniche divengono il vero avamposto del dialogato letterario contemporaneo.
Ho scritto un’epica dei boss forse, ma un’epica non è una celebrazione. Se a
volte cado in momenti di chiara fascinazione per loro è perché i boss mi hanno
affascinato. Questo non mi ha neanche per un attimo sottratto odio, vero,
privatissimo, feroce nei loro confronti. Da ragazzino divenire boss, crescere,
combattere, gestire tutto e crepare mi sembrava il destino migliore che potessi
scegliermi. E reputo necessario comprendere gli elementi del fascino piuttosto
che aver paura di contaminarsi. Io della contaminazione ne faccio metodo,
contagio, connivenza. Lo scrittore non è un cronista. Può stare con chi
vorrebbe dilaniare, avere le sue stesse parole, non deve far prigionieri può
divenire prigioniero di se stesso e di ciò che per conoscere è disposto a
condividere. Ed oggi ancora  quando mi capita di incontrare persone di
potere, mi accorgo di fare strane comparazioni nella mia mente e sento che
quelle persone non valgono spesso neanche la metà dei dirigenti dei clan che ho
incontrato. Non hanno la stessa caratura tragica, hanno in mente il milione di
euro da portare a casa all’anno, qualche amante e il figlio da sistemare. Ma
non v’è la traccia tragica del potere, quella che portano in volto alcuni boss,
che sanno che gestire la vita e la morte di tutti significa dominare il cemento
e il danaro del proprio tempo ma significa soprattutto perdere tutto, la vita
propria e quella di chi ti è vicino. E l’affare ha molto più a che fare con una
sorta di costruzione immaginaria dove ogni ambito è territorio da conquista in
una battaglia quasi metafisica per arraffare tutto in una corsa senza limite. E
questo è il mio tempo, non la camorra. E questo fascino, nato dalla contiguità
di sentire il proprio tempo agire e pensare come il boss che stai scrutando, è
l’elemento pericoloso, la bestia che devi portarti nello stomaco del tuo essere
autore. La scrittura non può fingere di non comprenderlo. Posso mentire a me
stesso, non alla mia parola scritta. 

Ma la definizione "romanzo" è a tuo parere
accettabile e calzante per Gomorra?

 Credo che calzi. E come
ogni cosa che calza bene, va attillata, aderisce al corpo un po’ stretta
costringendolo, un po’ modellandolo. Un romanzo no-fiction direi. A fianco ad
un io narrativo cresciuto in ciò che ho fatto, visto, sentito, ho messo la disciplina del dato e poi ancora le mie
congetture, sensazioni, e poi le ordinanze di custodia cautelare, le analisi,
le percentuali, i nomi delle aziende e quelli dei boss. Non ho mai creduto in
una scrittura di evasione, anche quando intesa nel suo senso più nobile, di
rottura dalla propria gabbia di carne per uscirne fuori. Ho invece creduto in
una scrittura di invasione, una parola in grado di iniettarsi sottopelle.
L’immaginario di uno scrittore non può essere
costretto in camicie di forza di generi. Saggio, romanzo, reportage, poema. Mi
ripeto sempre le frasi di don Benedetto Croce come antidoto, lui che aveva
cassato i confini: “mi interessa la verità”.

Del resto si trattava anche di
dare una nuova lettura a certi fenomeni. Sono usciti ed usciranno libri che
considerano la questione camorra legata ancora alla questione brigantaggio
vecchissimo modello sociologico con cui leggere la criminalità ignorando le
nuove borghesie criminali del tutto trasformate. Disagio sociale e miseria (che
i clan sfruttano) non sono da confondere con la criminalità stessa. Ma di
sottolibri in tal senso ne sono pieni i cataloghi. La diffusione di Gomorra
credo nasca da questo, dal fatto che c’era una grande fame di scrittura e
analisi, una voglia incredibile di capire. Come ogni persona che si occupa di
queste dinamiche ben sa, più c’è diffusione, maggiormente c’è schermo e tutela
a ciò che si sta dicendo. Quando l’attenzione svanirà, allora sarà il momento
di considerare il proprio lavoro realmente esposto e non c’è più spazio di
difesa. Ma in genere questa cosa non viene compresa. Certi temi stupidamente li
si vogliono relegati alla quasi clandestinità come forma di qualità. La
marginalità ha condannato per decenni questi temi a non essere compresi
raccontati analizzati fissati in volto.

Qualcuno ha parlato di "neorealismo del Terzo
Millennio": sei d’accordo?

Il neorealismo. E’ una delle tradizioni letterarie
che l’Italia ha espresso meglio. Le pagine di Giustino Fortunato e poi Ignazio
Silone o Carlo Levi e poi Danilo Dolci, Ernesto Rossi, Goffredo Fofi, e
per correre più indietro, le pagine di Errico Malatesta. Li porto nei globuli
rossi. Per me Germinal di Zola è immenso e fondamentale come l’Iliade,
Il Ventre di Napoli della Serao me lo porto dentro almeno come l’opera
omnia di Truman Capote. L’uva puttanella e I contadini del sud di
Scotellaro ti danno lo scalpello per poter scrivere, non l’inchiostro. Se
neorealismo può significare questo ossia prendere la realtà, mostrarla,
svelarla, non rinunciare a raccontarla, non rinunciare ad esprimerla, allora mi
ritrovo pidocchio su questo corpo immenso. In fondo credo come diceva Mimì Rea:
“essere uno scrittore meridionale …significa innestare alla vita la
letteratura, renderla utile come sono utili il vino e il grano”. 

Infine. So di citarla spesso, ma la metafora di Giorgio
Scerbanenco è stata cara ad alcuni scrittori italiani. Te la sottopongo. "
Nella sua rubrica di posta per un settimanale femminile, Scerbanenco riceve
un giorno la lettera di una donna che vuole suicidarsi. Lui le scrive di non
farlo, e in quella risposta mette tutta l’anima dello scrittore. Il giorno dopo
legge in cronaca che la signora ha cercato di suicidarsi lo stesso. Tradimento,
si dice Scerbanenco: scrivere, allora, è come mettere la mano davanti alla
locomotiva. Non serve a niente. Ma non è finita. Un’altra signora, tempo dopo,
gli scrive: vuole suicidarsi. Lui risponde, stavolta meno accorato: signora,
non lo faccia. Lei riscrive: io lo faccio lo stesso. Lui insiste: non lo
faccia. Insomma, dice infine Scerbanenco, sono tre anni che ci scriviamo, e
ovviamente la signora è viva. Allora, la mano davanti alla locomotiva serve a
farla almeno rallentare".
E’ questo il senso, il fine ultimo della
scrittura?

Credo che – rimanendo in metafora – sotto il treno lo
scrittore debba finire. Il locomotore tenterà di fermarsi, non ci
riuscirà  e investirà lo scrittore. Ma dopo pochi metri il locomotore si
arresterà, e si arresterà proprio per aver tentato di risparmiare lo scrittore
ficcatosi in mezzo ai binari. Lo scrittore non riesce a raggiungere il suo
fine, mai. Posto che ne abbia uno. Non credo possa esserci un meccanismo che
renda reale, come la salivazione dei cani di Pavlov, la scrittura al mutamento
del tempo in cui la scrittura vuole agire. Il problema è che non c’è dato
sapere dove porta una pagina, a chi arrivano le parole, in che modo verranno
sommerse o usate. Lo scrittore nello scarto della propria sconfitta crea
qualcosa per cui è valso la pena scrivere. E’ come la vita stessa: in fondo non
ci sarebbe senza lo spreco della morte.

32 pensieri su “FOR BLOG ONLY: INTERVISTA A ROBERTO SAVIANO

  1. intervista molto interessante. leggo il libro in questi giorni, un po’ a lato rispetto al clamore che lo ha accompagnato quando, fresco di stampa, rimbalzava su giornali, riviste, tv, blog. grande scrittura, seduttiva e d’impatto, per un argomento che siamo abituati a leggere in una prosa più asciutta. questa la novità letteraria del libro. la sua forza, da l punto di vista dello stile. io lo trovo un libro vivo e feroce… per un paradosso oltre le posizioni morali scontate…

  2. “Gomorra però è anche un libro odiatissimo, in silenzio magari.”
    Sono curiosa di sapere chi odia Gomorra e, se qúest`odio è silenzioso, come Saviano sia arrivato a captarlo.

  3. Rorschach, non Roscharch.
    Non è grave, però, controllare. Se è così che verifica i fatti sulla camorra, a posto stiamo.

  4. “Noantri” è trasteverino, il vernacolo dei sonetti del Belli. “Noarti” è romanesco del centro, e infatti lo usa Trilussa. Distinzioni oggi superate dal decadimento e dall’omologazione della lingua dei romani, che ormai parlano il “romanaccio”, un italiano sotto-standard con qualche paroletta in dialetto qui e là.

  5. “Come ogni persona che si occupa di queste dinamiche ben sa, più c’è diffusione, maggiormente c’è schermo e tutela a ciò che si sta dicendo. Quando l’attenzione svanirà, allora sarà il momento di considerare il proprio lavoro realmente esposto e non c’è più spazio di difesa. Ma in genere questa cosa non viene compresa. Certi temi stupidamente li si vogliono relegati alla quasi clandestinità come forma di qualità. La marginalità ha condannato per decenni questi temi a non essere compresi raccontati analizzati fissati in volto.” Questo bisognerebbe farlo leggere a chi ammorba con la storia di Saviano autore Mondadori mentre avrebbe dovuto farlo con NN edizioni, anzi farselo stampare dalla nonna e distribuirlo ai semafori (aggratis). Perchè qualsiasi editore c’avrebbe guadagnato e quindi lui avrebbe speculato. Leggete queste parole e capite chi non vive nel vostro strafottuto nord e fa i romanzetti innocui. E forse capirete che un grande editore protegge di più. Protegge. El Diablo

  6. Faccio i miei più sinceri complimenti perchè in questo blog l’autrice parla di letteratura mostrando cognizione di causa. Mi è piaciuta molto l’intervista con Saviano che in pratica verrà domenica prossima vicino dove abito io per un incontro letterario. Auguri ancora pe ril blog che vedevo di sfuggita nell’elenco.

  7. Leggendo il libro pensavo soprattutto al cinema: Elio Petri, Francesco Rosi, e poi a quella scollatura forse necessaria ma sicuramente traumatica tra epica e metafora, che ha finito per lasciarci monchi di qualcosa e schiavi del narcismo, obbligati a perdere: Salò, e su su fino a Ciprì e Maresco. Non so dire cosa sia successo in letteratura invece: un ricordo recente. come di un vero e proprio naufragio, è quello de Il duca di Mantova di Cordelli: non possiamo non dirci assolutamente contemporanei, ma non lo sappiamo più dire. Saviano ci tira fuori da un lato dall’ossessione di impotenza, dall’altro dalla necessità di riflettere sempre e solo sul nostro passato, come se fosse ancora presente. Penso in questo senso anche al caso-limite e paradossale de Il fantasma di Corleone. La cronaca che nel suo dis-farsi è già storia, inattuale ed inerte. E infine al titolo di un romanzo di Parise, e anche alla sua introduzione, che ripescava, guarda un po’, un episodio del Vietnam: L’odore del sangue. Che Saviano stesso, e con lui il lettore, persegue e sfugge, e comunque impatta. Un romanzo “sensuale” dunque: chi può dire davvero, oggi, di scriverne?

  8. Gomorra è un libro talmente importante che non ha bisogno di essere difeso, parla da sé. Grazie a Roberto Saviano per il suo libro – per il coraggio dell’assunzione di responsabilità di quell’io narrante che è caldo, vivo, e incazzato nero com’è giusto- ma non scontato, dati i tempi – che sia, grazie per questa intervista, e soprattutto grazie per aver dimostrato che la distinzione tra generi – romanzo, saggio, reportage… quante altre cose ancora? – è minutaglia quando si è capaci di produrre un’organismo, bizzarro quanto vuoi, ma di una potenza espressiva eccezionale.
    Grazie

  9. Tanto vale scrivere #3
    (per Roberto Saviane)
    Se non sei Roberto Saviane ti tirano le pietre perché non hai scritto Gomorra
    Se sei Roberto Saviane ti tirano le pietre perché hai scritto Gomorra
    … … … …
    Se hai scritto Gomorra ti tirano le pietre perché non sei don Benedetto (e neanche don Tano e don Binnu)
    Se racconti Gomorra ti tirano due pietre in Croce perché non hai raccontato Sodoma
    Se racconti Sodoma e Gomorra ti tirano le pietre perché la fai troppo lunga
    Se pubblichi per M ti tirano le pietre perché pubblichi per B
    Se non pubblichi per F ti manda a tirare due pietre perché ti voleva lui
    Se leggi i dati ti tirano le pietre perché devi per forza essere uno sbirro
    Se sei uno sbitto ti tirano le pietre perché ti puzza il Piedone a furia di camminare per Scampia
    Se capisci i dati che leggi ti tirano le pietre perché devi per forza essere un camorrista
    Se racconti Gomorra su NI nessuno ti tira le pietre perché nessuno se ne accorge
    Se racconti Gomorra in un libro ti tirano le pietre perché si sono accorti di te
    Se tiri le pietre perchè sei rimasto solo e rimani da solo perchè ti filano soltanto i tuoi parenti te le tiri sui maroni da solo perché fa più scena
    … … … …
    …tanto vale ridere

  10. certo che messa così sembra un pochetto che il libro di saviano ti deve piacere per forza, se no sotto sotto sei uno stronzo, un sostenitore dei cattivi, o almeno uno stupido inconsapevole dei dolori del mondo, o chessoio. Un filino ricattatoria come impostazione critica, non trovate? Non mi stupisce che spesso le discussioni letterarie sconfinino nel tifo sportivo.
    Siete sicuri che in un libro sia in gioco la verità, e in che modo è in gioco? E non converrebbe argomentare, allora, invece che ricorrere alla retorica (peraltro così postmoderna… eggià, che ne è del neorealismo quando l’immagine – e la scrittura – ha perso da tempo l’innocenza? Perché l’io narrante del libro, che così romanticamente vuole mordere il midollo della pulsante vita, sembra a qualcuno una collazione di stereotipi?) e alle chiamate alle armi tra simili che montalianamente – guarda un po’ – si riconoscono?
    Poi per carità, de gustibus.

  11. A me un po’ sconvolge il fatto che oggigiorno gli autori siano quasi costretti a GIUSTIFICARSI delle cose che scrivono.
    Poi giustificarsi davanti a chi? A una massa di improbabili divoratori medi di Harmony.
    Non ho letto Saviano ma mi incuriosisce. Non solo perché nella realtà di Napoli ci ho a lungo vissuto.
    [Ste]

  12. ho letto il libro, è una denuncia? bene se lo è, allora bisognerà fare qualcosa… oppure vogliamo tenerci il cancro dentro casa?… lo stato? latita?… il clamore si va assopendo?… insomma, che si fa?
    l’alieno

  13. @ b. georg
    Non credo sia un discorso di coercizione all’applauso, come dimostra il fatto che nelle discussioni intercorse (da Nazione Indiana 2.0 a Lipperatura, fino ai blog di Gaetani e Sorino) le posizioni si sono variegate. Che poi ci sia un prevalere “statistico” pro o contro, a seconda dei luoghi (o magari ovunque “pro”: non sono stato a contare) non dovrebbe essere rilevante, mi sembra, visto che tutte le posizioni hanno espressione. Che certi luoghi in rete si “schierino” (salvo permettere l’espressione del dissenso, purché non incivile) mi sembra altrettanto normale: che siano lit-blog individuali o collettivi, manifestano (lo stesso ovviamente vale anche per Il Primo Amore, che non ha un blog di discussione) una certa idea della letteratura, e ritengono che questa idea si esprima (tra l’altro) nel libro di Saviano, e dunque la difendono. E, altrettanto ovviamente, col passare del tempo certi lettori tendono a frequentare i lit-blog in cui si riconoscono, magari perché hanno contribuito con la discussione al formarsi di una detrminata sensibilità estetica e critica, altri si disaffezionano o si allontanano. E a volte i lit-blog confliggono tra loro, il che va altrettanto bene, almeno finché non si arriva al taglio delle gomme o del tubo dell’olio dei freni (o all’intimidazione mafiosa tramite querela). La si chiamava “battaglia culturale”, un tempo, e sarebbe piacevole che questa espressione ritornasse in auge. Se il Domenicale ha deciso di criticare Saviano, perché chi ritiene Gomorra un libro importante non dovrebbe rispondere? Forse che, per usare un esempio puramente letteraro, il Domenicale non ha a suo tempo criticato “i nipotini di Carver” (autore molto amato da altri lit-blog) definendo Carver un “minimalista”? Poi, certo, piacerebbe leggere delle critiche a Saviano (te ne cito una come modello positivo – non la condivido, ma è una critica seria –, della quale non riesco a trovare l’integrale: quella di Cûc-Utitz sul linguaggio di Gomorra in NI nel dibattito) che siano argomentate tanto quanto certe recensioni che si sforzano di spiegare perché, secondo chi scrive, Gomorra è un libro importante, piuttosto che interventi che non vanno oltre lo stile “Fantozzi contro la Corazzata Potemkin”.

  14. girolamo, capisco la tua posizione che è di buon senso. Sarà che conosco i miei polli, o forse penso male, o forse c’azzecco o vedo spettri, ma mi pareva di aver colto un atteggiamento differente da quello di pacata e anche appassionata discussione e “battaglia culturale” che descrivi (che poi qualcuno si ponga ogni tanto il problema del rapporto tra verità e scrittura, e quindi del senso stesso di una cosa che si fa chiamare battaglia culturale, è questione che lascio a perditempo e affini). E siccome questa mia impressione non data da oggi, anche io civilmente la esprimo, noblesse obblige.
    Io peraltro, ma sono malizioso, a volte ho l’impressione che si critichi, o si esalti, un libro per i motivi sbagliati (a volte l’ideologia, il senso di colpa o al contrario l’orgoglio di classe, a volte un malinteso senso di impegno o perfino di disimpegno…). Come diceva quello, umano troppo umano? vallo a sapé.
    ma non voglio farla lunga dato che il topic non è questo.
    ciao
    🙂

  15. Manca un oggetto narrativo importantissimo nelle scritture che dal sud scrivono sul sud criminale: quella borghesia criminale che senza essere affiliata formalmente alle varie mafie del sud, partecipa a pieno titolo alla costruzione dell’ethos mafioso e ai crimini che rinforzano le sue postazioni di potere. Notai, medici, ricchi commercianti, architetti, ingegneri, avvocati, impresari – professionisti, quindi – che non vivono né a Scampia né allo Zen di Palermo, che non hanno nessuna nota tragica da donare ai narratori, né si prestano ad alcuna epica, che fanno di tutto per restare in una dimensione nebulosa, e che proprio per questo utilizzano le mafie come una delle tante declinazioni della criminalità del potere (un efficace concetto del giudice Scarpinato), lasciando che l’opinione pubblica identifichi l’apparato militare delle mafie con le mafie tout court. Se questo ceto è citato in un romanzo, lo è di striscio, come corollario confuso dell’apparato militare delle mafie che resta sempre il protagonista assoluto delle epopee meridionali; sì, occupa qualche pagina, è incarnato da qualche personaggio secondario, ma in sostanza non viene rappresentato nella sua interezza, nella sua sommersa identità. Resta osceno. Forse, per essere rappresentato richiederebbe un atteggiamento dissacrante, freddo e distaccato. Con questo atteggiamento, forse riusciremmo a capire le parole di certi inascoltati giudici che ci ripetono da anni che la strategia di fondo del potere dei colletti bianchi è quella del disordine controllato. Una strategia comoda per le classi dirigenti (che delegano agli apparati militari illegali la gestione della violenza), riuscendo così a restare saldamente attaccati alle loro poltrone, e comoda alle mafie, che, pur manovrate e strumentalizzate, si ritagliano il loro posto (esplorato) nella grande (e inesplorata) casa del potere.

  16. Giustissimo, Nicolò. C’è però qualche germinale eccezione, qualcosa che comincia a muoversi: il Tonino de *La terra* di Sergio Rubini (interpretato dallo stesso Rubini), un personaggio del quale, dice Rubini, si deve sentire la puzza anche fuori dallo schermo, e alcuni borghesi nei Montalbano di Camilleri – da ultimo, in particolare, Michele Spitaleri di *La vampa d’agosto*.

  17. Secondo me le ragioni di questo buco non sono imputabili, come dire, a una deficienza di talenti, ma alla natura indistinta dell’oggetto narrativo stesso. Abbiamo poche coordinate che lo illuminino. Inoltre, ci offre personaggi vaghi, che intersecano il loro essere uomini occidentali tout court – quindi, potenzialmente perfetti personaggi per la scrittura di un Covacich – con la sedimentazione del loro carattere meridionale. E’ come se gli scrittori non sapessero scegliere tra le due diverse polarità. Se scelgono la prima, allora nascono, vediamo…, i romanzi di Pascale (non il magnifico reportage Città distratta, quella era un’altra cosa), se invece sono inclini ad accontentarsi di ciò che il convento offre – il sedimento ormai insincero – nascono storie e discorsi saturi di eccessi calligrafici (penso ad alcuni personaggi di Camilleri). Forse il collegamento con le analisi di Marc auge è un po’forzato, ma credo che sia utile: la borghesia criminale mi sembra che abbia, dal punto di vista della rappresentazione che ne viene fatta (sul piano artistico e sul piano mediatico), la valenza di un non luogo, un non luogo narrativo però. Mi soccorre la metafora del centro commerciale, spesso utilizzata quando si parla di non luogo (quindi la metafora non è mia…). In questo centro commerciale della narrativa ci sono gli spazi di transito, comuni a tutti i centri commerciali (la borghesia occidentale), e poi dei piccoli negozi che espongono un oggetto caratteristico provieniente da varie culture, morte perché pittoresche (i cliché sulla borghesia meridionale). Forse l’unico modo per rappresentarla bene, questa classe, consiste in un frenetico andirivieni, fuori-dentro.

  18. @ nicolò
    una ipotesi alla tua osservazione: il libro di g. montesano, “di questa vita menzognera”si avvicina alla tua idea, che ne pensi?
    lì di parvenù-mafiosi borghesi si parla eccome grazie al punto di vista, direbbe bianciardi, “disintegrato” del’intellettuale di corte, del protagonista
    buon lavoro
    daniele

  19. Ho letto Gomorra. Ho pianto, ho riso, mi sono incazzata, ho pregato…
    Delle disquisizioni sulle forme letterarie e sui massimi sistemi, m’interessa poco. M’importa, invece, dell’onestà intellettuale e della passione che traboccano dalle pagine del libro.
    In bocca al lupo, Roberto.
    Di cuore.

  20. Cara Loredana, ottima intervista e ottimo il Saviano. Il libro l’ho letto e l’ho apprezzato molto.Molti che conosco senza porsi problemi meta-referenziali, lo hanno apprezzato. certo si potrebbe sottolineare criticamente una a volte eccessiva enfasi soggettiva in certi passi – emozione e rabbia verso certe schifezze criminali ci sono già nella fredda e tagliente realtà, scritta con fredda e tagliente prosa di SAviano. Non c’è bisogno di dichiarare “ho la nausea” troppo spesso se si scrive un romanzo “sulla nausea”.Ma comunque è un peccatuccio veniale.Immagino che la realtà più che bollente – lontana dai nostri protetti desk di blogghisti e giornalisti o scrittori – certà realtà di cui si occupa SAviano è comprensibile porti a certi toni.Così come si capisce – e lo dice qua e là nel libro – che molte informazioni date nel libro “sistematizzano”, diciamo così, l’epsperienza diretta e arrivano dalle carte dei magistrati o dal lavoro dell’Osservatorio sulla Camorra; questo non vuol dire “Copiare dal sito della DIA “come scrive qualcuno. LA realtà stessa e le carte sono in certo modo già scritte davanti a noi. Compito del Narratore è quello di tradurle in scrittura. E poi : Narratore? Giornalista? Roberto Saviano ha le sue idee, alcuni critici altre, succede spesso.Io personalmente, da lettore, anche rispetto alle polisemie a cui ci ha abituato la letteratura, avrei paura ad usare una parola come “verità” (lui la cita da B.Croce). Però mi piace una parola che ha usato SAviano in un intervista ad Hollywood Party-Radio3: “meccanismi” : lo scrittore- ha detto – cerca di presentare e raccontare “meccanismi” della realtà. Anche se dovesse inventare.Leopold Bloom racconta di “meccanismi” della vita novecentesca molto più di tanto giornalismo, per esempio.Inoltre negli incommentabili articoli che citi si paragona lo realtà sbattuta in faccia di Saviano a quella di Melissa P. e a quella dei reality da confessione. Dovrebbe essere un insulto, ma potrebbe essere anche un elogio: non solo Gomorra è un frutto cresciuto con la terra concimata da camorra, ma è anche un frutto concimato con l’immaginario collettivo ( quell’immaginario che nutre la camorra stessa, ribaltando i luoghi comuni per cui nei film “si copia” la realtà dei criminali, nvece racconta SAviano è il contrario).Chiudo questo lungo post con un po’ di veleno: sorvolo sul giudizio dei WuMing su Saviano – sono stato qui rimbrottato di non capire quanto legati alla storia fossero i romanzi di quel gruppo – ma andate a leggere i due articoli likati nel prologo all’intervista; il veleno lo vorrei tirar fuori sottolinenado che sia l’articolo di Serino che quello di Gemma gaetani sono stati pubblicati sul “Domenicale”. il “Domenicale” è una creatura di Marcello Dell’Utri. E ho detto tutto.
    P.S. no non ho detto tutto: Gemma Gaetani si sofferma in apertura di articolo sui passaggi da editori piccoli e indipendenti a grandi editori fino a Mondadori del libro di Saviano. E’ vero, tutti possimo pensare che è una beffa che Silvio B. pubblichi Gomorra, ma pubblica anche WuMing o D’Alema ecc.Qanto poi alle bizzarrie dei passaggi di mano editoriali,voi che siete dell’ambiente conoscete meglio di tutti le ragioni delle fortune e sfortune editoriali di Gemma Gaetani medesima.

  21. Non ho ancora letto Gomorra (ma presto ciò avverrà), e ho seguito i dibattiti, gli articoli sul libro ecc. Dico, col cuore in mano, che questa intervista è molto bella, e Saviano, per ciò che ha fatto, rende onore al nostro paese. Onore a Rob Saviano.

  22. Gomorra è un grande romanzo che rompe la visione un po’ stantia della camorra, la splendida scrittura di Saviano restituisce a quel fenomeno di cui tanto si parla meccanicamente e ritualmente , un’ attualità politica profonda e tragica, inimmaginabile, almeno per me, prima della lettura del libro.
    Non mi interessa nulla delle sue vicende editoriali, che vengono molto dopo e che, comunque, non influiscono in alcun modo su Gomorra.
    Grazie Roberto, di tutto cuore.
    Rose

  23. Ho appena finito Gomorra, e mi risulta diffile capire come si possa accogliere non favorevolmente un libro del genere, guardando il pelo nell’uovo di questioni secondarie.E’ un libro importante e significativo.

  24. Otto morti in otto giorni a Napoli e dintorni non sono un caso letterario, è la cruda realtà.
    Il ministro Amato firmerà il 9.11 a Napoli il pacchetto sicurezza e sono stato uno dei primi a richiedere l’intervento dell’Esercito già da alcuni mesi,voglio la guerra alla camorra, non mi interessano fiaccolate e sfilate ipocrite(le facce dei politici)e silenziose( i cittadini spaventati).
    Ieri è morto anche un ragazzo accoltellato da un amico per gelosia, c’è chi invoca più cultura, più valori e nei teatri regionali si ripropone la sceneggiata: “o’ pacchero,a’ sfida , o’curtiello”. Se sono questi i valori non ci lamentiamo

  25. Per chi come me crede che esistano delle virtù: es. Umiltà,Valore,Onore,Compassione, ecc… è facile credere ad ogni pagina di questo libro.
    Le virtu’ sono la base per l’evoluzione , il risultato visivo dell’intelligenza come forza di miglioramento della specie umana.
    I camorristi non intendono utilizzare la propria vita per l’evoluzione, ma preferiscono limitarsi allo svago e al benessere.
    La camorra è un’enorme paese pieno di persone che hanno tanta voglia di fare del bene a se stessi.
    La coscenza di un camorrista è come quella di un bambino che vuole vedere i cartoni animati a tutti i costi , e per lui quella è l’unica cosa importante da fare durante la giornata.

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