INEDITI

Buffa cosa.
Magari ricordate l’articolo di Italo Calvino su Luigi
Zampa, postato qui qualche tempo fa. Magari ricordate anche che
l’articolo, e il breve saggio di Luca Baranelli, erano stati pubblicati due
anni fa su una rivista di cinema che si chiamava “Millimetri”.
Ora: com’è che nel numero di agosto-settembre Lo Straniero
propone quel saggio e quell’articolo come inediti? Testuale:

LO STRANIERO, numero 74/75, agosto/settembre 2006, pag.
135
"Siamo lieti di poter pubblicare un inedito del 1949 di Italo Calvino in
difesa del film di Luigi Zampa "Anni difficili", dal racconto
"Il vecchio con gli stivali" di Vitaliano Brancati, che parlava degli
"anni del consenso" al regime fascista e dell’epurazione – argomenti
oggi molto discussi. Lo ha ritrovato e ne racconta la storia, che coinvolge
molti dirigenti del PCI compreso Togliatti, Luca Baranelli.

Dunque. Millimetri ha chiuso: ma è esistita. E ho come
idea che della sua esistenza i responsabili dello Straniero fossero consapevoli
e che abbiano deciso di glissare. Ma forse i miei sono cattivi pensieri
settembrini, e forse la vostra eccetera esagera quando pretende etica dai
difensori dell’etica…

Ad ogni modo: meditando sulle stranezze del mondo, mi ancoro agli ultimi giorni
marchigiani: il punto è che per la vostra eccetera è ancora drammaticamente
estate piena. E dal 6 settembre, quando rientrerò nei ranghi, mi aspetta il
solito esubero di arretrati di ogni sorta. In più, naturalmente, c’è la “cosa”,
che ha preso forma proprio qui, e che mi accompagnerà con ogni probabilità
almeno fino alla prossima estate.
Insomma, stavolta torno sul serio (non si potrebbe avere
una proroga, vostro onore? No, eh? Peccato).

7 pensieri su “INEDITI

  1. «mi ancoro agli ultimi giorni marchigiani»: di una bellezza struggente, soprattutto i pomeriggi, come raramente se n’erano visti in questa estate bizzosa.

  2. Ho passato quasi tutto agosto a Fano, ombelico delle Marche e del mondo:-), con salite all’Infernaccia (monte Nerone), visita al bosco di Tecchie (il più intatto delle Marche) eccetera. Adesso sto seguendo la mostra del cinema qui a Venezia, e la più recente iniziativa di Giulio Mozzi… Spero tu abbia mandato copia del tuo intervento a ‘Lo straniero’, per conoscenza:-)

  3. LA POLEMICA Un libro mette sul «banco dei cattivi» alcuni degli autori italiani più noti. Ma davvero demolire un’opera letteraria serve a qualcosa? Ecco che cosa ne pensa chi di quest’esercizio critico è stato un convinto interprete
    Io, stroncatore pentito
    Ma non troppo
    di Roberto Cotroneo
    Anzi, era tra le più sbagliate che ci fossero.
    Però avevo dalla mia una sola scusante, l’unica possibile: stroncavo potenti veri, gente che contava. E proprio per questo negli anni mi è stato presentato un conto assai salato. Per intenderci. Nonostante abbia scritto cinque romanzi e un numero imprecisato di saggi, e sia tradotto in una dozzina di lingue non ho mai vinto un premio letterario italiano. Nonostante abbia scritto migliaia di articoli giornalistici in vent’anni di mestiere, non ho mai vinto un premio giornalistico. Forse non meritavo e non merito né gli uni e né gli altri. Ma sappiamo bene che i premi non vanno ai meriti ma sanciscono un’appartenenza a un establishment. E chi stronca rompe un equilibrio di elogi incrociati e non è più establishment.
    Non so ancora se accadrà anche agli autori dell’imminente Sul banco dei cattivi, edito da Donzelli, ma le polemiche non mancheranno. Gli autori sono quattro critici famosi: Giulio Ferroni, Massimo Onofri, Filippo La Porta e Alfonso Berardinelli. Ferroni stronca Baricco, Onofri, Isabella Santacroce, La Porta, Carlo Lucarelli e Berardinelli, Tiziano Scarpa. Eccetto Baricco che è una star della letteratura e può anche ignorare la stroncatura, per gli altri autori non sarà per niente un piacere. Anzi.
    Perché stroncare non fa bene a chi stronca. E non fa bene a chi è stroncato. Perché bisogna intendersi sul significato della parola stroncatura. La stroncatura non è un parere negativo su un libro o un film. La stroncatura è un parere estremo, radicale, che tende il più delle volte a ridicolizzare e a schernire il lavoro di uno scrittore, di un regista o di un poeta. La stroncatore è amato, troppo spesso, da quelli che non riescono a pubblicare, da quelli che vorrebbero scrivere dei libri e non hanno il coraggio di farlo, da quelli che ritengono il mondo delle lettere, o del cinema, o di quello che volete, un mondo chiuso, sostanzialmente mafioso, dove non si può entrare se non per cooptazione. E dove non ci sono meriti ma soltanto privilegi. Il lettore di stroncature, l’entusiasta delle stroncature, è di solito un frustrato che manda avanti i critici più radicali in vece sua, che si sente vendicato e rappresentato da qualcuno che, coltello tra i denti, entra nella cittadella fortificata degli intellettuali e del mondo culturale, e comincia a tagliare gole, e a seminare distruzione. Il lettore di stroncature è il pubblico che assiste all’esecuzione pubblica di un condannato alla ghigliottina, e applaude.
    Non va bene. E soprattutto non è così che funziona. Che quattro critici abbiano scritto un libro su quattro autori che non meriterebbero attenzione è già una contraddizione. Non si scrivono libri su autori che si ritengono di poca importanza. A meno che questi autori non abbiano una rilevanza gigantesca. Si può stroncare la Rowling, o l’ultimo romanzo di Marquez, o i romanzi di Günter Grass alla luce del suo passato recentemente emerso. Ma gli altri?
    Con gli altri bisogna essere cauti. Perché in fondo la stroncatura non delegittima soltanto l’autore. Ma delegittima la cultura nella sua totalità. In fondo è il sintomo di una malattia profonda, che passa inevitabilmente dal disprezzo per le opere creative e per la cultura. Un disprezzo mascherato da altro. In realtà il critico non fa altro che dire: io faccio a pezzi gli scrittori, li invito a non pubblicare mai più, li espongo al ludibrio dei lettori perché vorrei soltanto capolavori. Ma in realtà il ludibrio pubblico investe tutta l’attività letteraria e creativa.
    Ma se ci si fermasse a questo, l’articolo che sto scrivendo apparirebbe soltanto come un pentimento o un mea culpa. In realtà ci sono alcuni aspetti che vanno presi in esame. Il mondo letterario italiano è sempre stato molto debole e fragile. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta ha avuto una sua identità, ha avuto i suoi critici, e aveva il suo peso. Essere scrittori o critici dava prestigio, forse dava una certa fama negli anni, ma non visibilità, successo effimero e altro ancora. Gli scrittori facevano gli scrittori, e poco più. I critici si occupavano prevalentemente dei libri. E tutti gli altri, soprattutto se uomini pubblici, si guardavano bene dal mandare in libreria romanzi, o altro.
    Ma dalla seconda metà degli anni Ottanta le cose sono cambiate, l’industria culturale è diventata una vera industria e lo scrivere e il pubblicare non era più il frutto di un percorso intellettuale. Era un modo per mostrarsi, per parlare in televisione, per essere ammirati. Da allora essere scrittori cominciò a significare tutto meno quello che davvero doveva essere. Da allora, cominciò un meccanismo abbastanza perverso, per cui si pubblicava e ci si faceva recensire dagli amici, che a loro volta pubblicavano e venivano recensiti dagli scrittori che a quel punto diventavano critici. Tutti i libri erano capolavori, tutti gli autori erano una scoperta, tutti romanzi erano belli per forza. Quando all’inizio del 1980 Umberto Eco finì di scrivere Il nome della rosa, lo mandò a una decina di amici in manoscritto con una domanda preoccupata: «un romanzo potrebbe danneggiare la mia immagine di rigoroso docente universitario?». Ve la immaginate oggi una preoccupazione del genere di chiunque si dia alla narrativa venendo da un altro mestiere?
    È cambiato il mondo. Mamurio Lancillotto nasceva da lì. Era vero che ci si trovava di fronte a grandi capolavori? Era vero che la società letteraria italiana sembrava prossima a un nuovo Rinascimento? In quegli anni editoria e pagine culturali sembravano aver preso nuova linfa. Tuttolibri diventava un inserto importante letto in tutta Italia, Repubblica varava Mercurio il suo primo supplemento di libri, e il Corriere della sera raddoppiava le pagine dedicate alla letteratura. Per non dire del quotidiano di economia e finanza per eccellenza, Il Sole 24 Ore, che la domenica usciva con un supplemento coltissimo e pieno di recensioni.
    Il successo del Nome della Rosa nel mondo aveva innescato un meccanismo a catena. A Francoforte, tra il 1985 e il 1990 non si parlava che di autori italiani. I libri italiani erano comprati, spesso, blind, alla cieca, usando un termine tipico del mercato editoriale. Ma durò poco. In poco tempo ci si accorse che di Eco o di Magris non ce ne erano molti in giro. E le delusioni fioccavano. Bisognava scrivere la verità. Soprattutto su certi capolavori o certi scrittori immensamente sopravvalutati. Ecco il perché delle stroncature di quegli anni.
    Ma la storia si capovolse ancora. I giornali cominciarono a pensare che la cultura era una cosa noiosa e poco vendibile. I critici degli oscuri signori dalla prosa improbabile e desueta, da limitare il più possibile e confinare da qualche parte. Gli scrittori e gli editori soltanto dei questuanti che cercavano di rifilarti sciocchezze per narcisismi e gloria personale. E se la televisione era diventata il primo veicolo di circolazione e promozione dei libri, obbedendo alle nuove regole dell’Auditel stava scacciando dai suoi programmi libri e copertine come delle calamità più pericolose dell’uragano Kathrina. Se appare uno scrittore in qualunque telegiornale o in qualunque contenitore perdi cinque punti dell’Auditel, si diceva.
    Così già nella seconda metà degli anni Novanta il disastro era compiuto. Ora non si trattava più di stroncare, e dunque togliere linfa ad autori sopravvalutati, ma semmai di cercare tra le macerie qualche pezzo di valore che potesse far sì che si ricominciasse da capo. Non aveva nessun senso sottolineare che in Italia la letteratura arrancava sempre di più, e produceva risultati spesso al di sotto della media culturale europea. Si doveva sperare che quella media si potesse alzare un po’. Non si trattava di avere spazio anche per le stroncature su giornali, periodici e media in generale, ma di avere quel poco di spazio rimasto per dare voce a critici intelligenti e recensori «costruttivi». Non si trattava, infine, di ridicolizzare i vecchi e stantii premi letterari italiani, con le giurie over 70, si trattava di provare a sperare che almeno i premi potessero far vendere qualche copia in più a dei libri buoni (se venivano premiati dei libri buoni).
    Poi, accanto a questi drammi letterari c’erano gli autori che vendevano e vendono. Non sta a me dire se per moda o per qualità letterarie, se per motivi che con la letteratura avevano assai poco a che fare, o per altro. Ne abbiamo visti alcuni in questi anni. Alessandro Baricco, certo, Margaret Mazzantini, Susanna Tamaro. E recentemente Tiziano Terzani, Sandro Veronesi, e da pochissimo il romanzo di esordio di Walter Veltroni. Ma per il resto? Come muoversi, e che cosa fare?
    Quando nel marzo scorso Baricco ha pubblicato sulla prima pagina di Repubblica il grido di dolore di non riuscire a farsi recensire dal critico Pietro Citati o da Giulio Ferroni si è chiuso un cerchio davvero sorprendente. Uno dei cinque scrittori italiani più famosi del mondo, si lamenta dalla prima pagina del secondo quotidiano italiano in termini di copie vendute, di non riuscire a essere neppure stroncato dai critici militanti, se non in qualche parentesi di passaggio.
    Giorgio Manganelli, che è stato un grande scrittore, forse tra i più grandi di questo secondo Novecento ripeteva sempre una frase paradossale: «Non l’ho letto e non mi piace». Era la provocazione di uno che i libri li leggeva e spesso gli piacevano davvero. E stare sul «banco dei cattivi» è una cosa alla Franti del libro Cuore. «E quell’infame rise», scrisse di lui Edmondo De Amicis. Ma sono quelli come Franti che ti fanno capire il mondo. Anche se ridono, e sono infami. Se stare «sul banco dei cattivi» è un modo per risollevarci dal deserto tremendo della letteratura italiana (e anche del nostro cinema), mi può anche stare bene. Ma pur stimando molto Ferroni e Berardinelli, La Porta e Onofri, ho davvero i miei dubbi…
    roberto.cotroneo@fastwebnet.it

  4. Ho letto in vacanza un romanzo, scoperto per caso,”Gli occhi oltre il cielo” di Giuseppe Calocero.E’ la prima volta che leggo un romanzo di questo tipo.E’ veramente nuovo e diverso nel panorama letterario italiano.Dovrebbero leggerlo tutti.Sui giornali si parla di tanti romanzi, ma si paela poco di questo, che è una grande storia d’amore e di libertà.
    Lo hai letto? se si vorrrei il tuo parere.
    Buona giornata!

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