Siegmund Ginsberg recensisce Manituana su Repubblica di oggi:
Gli
ordini venivano direttamente da Washington. Non si sarebbe dovuto mostrare la
minima esitazione nell´operazione contro «le tribù ostili delle sei nazioni», e
i loro «sodali e clienti». Niente compromessi, nessun «tentativo di
pacificazione», quando è in gioco la sicurezza dell´America. «La nostra
sicurezza futura risiede nel renderli incapaci di danneggiarci, e nel terrore
che la severità della punizione saprà instillare nelle loro menti», suonavano
gli ordini firmati da George Washington il 31 maggio 1779, indirizzati al
maggior-generale John Sullivan.
«L´obiettivo immediato è la distruzione totale dei loro insediamenti, e la
cattura del maggior numero di prigionieri di entrambi i sessi e di tutte le
età… sarà essenziale devastare i campi impedendo il raccolto in corso e
quelli futuri… consiglio e raccomando di insediarsi al centro del territorio
indiano con una scorta sufficiente di vettovaglie munizioni e da lì far partire
le spedizioni contro i villaggi all´intorno, dando istruzioni di farlo nel
migliore e più efficace dei modi, così che il paese non venga semplicemente
saccheggiato, ma distrutto…». Ci sono rimaste le lettere dei protagonisti di
quella spedizione agli ordini di Sullivan, esterrefatti di come «abbiamo
trasformato quella bellissima regione da giardino a scenario di desolazione e
nauseante devastazione». Altri testimoni raccontano di come si erano divertiti
a scorticare i corpi di alcuni degli indiani uccisi «dalle anche in giù, per
farne coperture per gli stivali o i gambali». Gli indiani sopravvissuti
soprannominarono Washington «distruttore di città», e pour cause: in meno di
cinque anni ventotto delle trenta cittadine abitate dal popolo Seneca nel
territorio compreso tra i lago Erie e il fiume Mohawk furono cancellate dalla faccia
della terra, e una percentuale analoga degli altri villaggi delle tribù delle
«sei nazioni» irochesi. Uno degli Ojibwa sopravvissuti glie l´avrebbe detto in
faccia, nel 1792, a Washington diventato ormai padre della Patria: «Ancor oggi, quando si sente il
vostro nome, le nostre donne si guardano alle spalle e impallidiscono, e i
nostri figli si aggrappano al collo delle madri».
Fu la fine di una delle civiltà più straordinarie ed avvincenti che siano
fiorite nel continente americano, la più tollerante, la più «meticcia», la più
avanzata, per molti versi la più «moderna», quella degli Irochesi. Avrebbero
continuato a incuriosire a lungo il vecchio continente. Le loro usanze
affascinarono per tutto l´Ottocento alcune tra le migliori menti dell´Europa,
da Alexis de Tocqueville a Karl Marx, che leggendo Henry Morgan, e forse anche
Fenimore Cooper, negli ultimi quaderni di appunti, quelli solo da poco raccolti
col titolo Manoscritti etnologici li scoprì come anticipatori di un suggestivo
«comunismo reale» pre-Usa, molto libertario, molto femminista (il potere nel
clan era in mano alle donne), molto «spirituale». Ancora oggi se ne favoleggia,
in studi specialistici, come degli «inventori» della democrazia americana, c´è
chi li vede come precursori dello spirito di libertà, della Costituzione Usa e
persino della libertà religiosa e del melting pot. Sarà esagerato, erano
guerrieri, razziavano, scorticavano, facevano collezione di scalpi anche loro.
Ma degli scomparsi è più difficile trovar da dir male.
Abitavano una vasta estensione di terra, al confine attuale tra gli Stati uniti
e il Canada, che a lungo fu il Medio oriente di allora: il punto costante di
attrito tra le potenze continentali in guerra tra loro, Francia e Inghilterra,
teatro di faide sanguinosissime tra le tribù indiane nell´orbita degli uni o
degli altri, e di frequenti voltafaccia. Uno straordinario avventuriero
irlandese, William Johnson, era stato adottato dagli irochesi e ne era
diventato sachem. Gli inglesi, che lo fecero Sir, per i servigi alla Corona, lo
chiamavano «il selvaggio bianco».
Gli indiani lo chiamavano, Warraghiyaghey, cioè «uomo che compie grandi
imprese». Aveva sposato una irochese, la principessa Degonwadonti, nota però
soprattutto col suo nome irlandese, Molly Brant. Come suo fratello, il grande
guerriero Thayendanegea, sarebbe diventato è più noto come Joseph Brant. Molti
dei più grandi capi irochesi si facevano chiamare con nomi europei:
Teeyeneenhagarow, detto anche Tiyanoga, capo supremo delle nazioni irochesi, è
più noto col nome che gli era stato dato dagli olandesi: Hendrick Peters. Non
erano affatto «selvaggi». Se non nel senso che all´occorrenza non rifuggivano
da metodi tipo quelli che il generale Washington avrebbe poi ordinato nei loro
confronti: dare una lezione ai francesi, «by taking Scalping & burning them
& their settlements», scotennando e bruciando, è il modo in cui Sir Johnson
definisce le sue spedizioni in Canada all´epoca delle guerra coi francesi. Solo
che lui ci sapeva fare anche con l´immagine: riuscì a commissionare a Benjamin
West un quadro in cui lo si ritrae mentre salva la vita ad un ufficiale
francese prigioniero fermando l´indiano che lo vorrebbe scotennare. Questa era
gente raffinata che, oltre a saper fare la guerra e cacciare, leggeva Voltaire
e suonava il violino. Univano gusti raffinati e passione per la musica a doti
di retorica e diplomazia. Continuarono ad essere tra i più leali e fedeli
combattenti a sostegno della Corona britannica, anche contro i «ribelli» dalla
cui sanguinosa insurgency sarebbero nati gli Stati uniti d´America. Sono i
protagonisti dell´ultimo romanzo dei Wu Ming, fresco di stampa presso Einaudi.
Si intitola Manituana, 613 pagine che
scorrono come le cascate del Niagara. Prosegue quello che è ormai un genere
letterario, un «classico» anche da esportazione, come lo erano diventati gli
spaghetti western di Sergio Leone.
Bisogna arrivare a pagina 135 per capire il titolo, che evoca Manitù, il Grande
Spirito, Dio, l´Allah degli Indiani d´America. Ci viene spiegato in forma di
leggenda: «Due tribù si contendevano la terra. Una abitava a nord del San
Lorenzo, l´altra a sud. Il Padrone della Vita, amareggiato per quella guerra,
decise di scendere dal cielo con un misterioso bagaglio… srotolò la coperta e
dentro c´era una terra di delizie, creata perché tutti vivessero
nell´abbondanza e non ci fosse più motivo per combattere… Per lunghi anni il
popolo del Sud e il popolo del Nord vissero in pace su Manituana. Per parlarsi
mescolarono le loro lingue, così che nessuna incomprensione potesse sorgere.
Nacquero i primi figli e molti di essi avevano il padre di un popolo e la madre
dell´altro. Ciascuna famiglia voleva che i discendenti imparassero innanzitutto
la lingua e le abitazioni degli avi. Così mentre i figli crescevano e parlavano
la lingua bastarda che non era madre per nessuno, la gente del Nord e la gente
del Sud ripresero ad odiare… Le grida e i canti di guerra salirono in alto e
spinsero il Padrone della Vita a scendere una seconda volta. Arrivato sulla
terra capì che gli uomini combattevano di nuovo per colpa del suo regalo.
Allora raccolse la coperta e la portò via. Ma mentre scostava la tenda del
cielo, la coperta si aprì e la terra precipitò nel fiume. Si levarono onde
altissime e i guerrieri schierati sulle sponde morirono tutti. Manituana si
frantumò in pezzi, briciole, scogli. Le mille isole del San Lorenzo…. ».
Oltre a briciole di spiritualità e un po´ di magia ed occulto (sogni,
preveggenze) l´appassionato vi troverà il consueto impareggiabile mestiere
collettivo, molti effetti speciali, molta azione. Tra le trovate per
argomentare che non sempre quelli che chiamiamo selvaggi sono selvaggi e non
sempre quelli che chiamiamo civili sono civili, l´idea di spostare l´azione a
Londra per poter introdurre i Mohocks, bande di giovani inglesi di buona
famiglia che seminavano terrore tra la gente per bene travestiti da indiani. È
però dubbio che siano mai esistiti.
Impareggiabili gli inventari e note delle spesa estremamente dettagliati, di
impressionante accuratezza. «I colori per il volto e il corpo. Specchi di ogni
foggia e misura, intarsiati o con priore incastonate di varie tinte. Un barile
di melassa e uno di carne secca… giacche di lana, calde, resistenti e di buon
taglio… tabacco da masticare di ottima qualità. Collane di wampum. Un grande
corno di bue pieno di polvere da sparo… Echi di martello, rintocchi di chiodi
che bucano legno. Stridore di seghe, sbattere di travi. Sgorbie che intagliano
e pialle che lisciano. Canti di lavoro, grida e imprecazioni. botti e otri,
barche e uomini, moschetti e remi, sacchi di pietre focaie, corni da polvere,
casse di chiodi, ferramenta… Muscoli dolenti, carne squarciata, buchi di
pallottole. Sangue rappreso tra palpebre e occhi».
«Il capitano Jacobs si voltò, le mani sullo stomaco. Mentre vacillava ebbe il
tempo di vedere l´indiano spaccare il cranio al secondo ufficiale con un solo
colpo di tomahawk e piantare il coltello nelle costole del sergente maggiore.
Erano movimenti fluidi, una danza. Dio mio. Sentì le ginocchia cedere, si
accasciò, sputò il sangue che saliva in gola e cercò l´aria a bocca
spalancata… Il signore è il mio pastore.
Il tenente Bones si ritrovò la canna del fucile sotto il mento mentre cercava
di imbracciare la propria arma. Il colpo gli staccò la testa di netto e la fece
volare lontano. Su pascoli erbosi mi fa
riposare e ad acque tranquille mi conduce. Donkers alzò il fucile, ma il
panico gli impedì di sparare dritto e si ritrovò le budella tra i piedi, le
mani che annaspavano nel tentativo di trattenerle. Mi rinfranca e mi guida per il giusto cammino. Abrahamson si
avventò alla baionetta digrignando i denti. Quando il tomahawk gli spezzò il
braccio con un rumore secco rimase immobile a contemplare l´arto che gli
pendeva dalla spalla…». Alla quarta o quinta volta che ritornano le prodezze
del Grand Diable Lacroix si ha forse
l´impressione del dejà vu. Ma non è che uno smette di andare a vedere i film di
James Bond solo perché si sa cosa si vedrà. L’unica cosa faticosa è tener
dietro alla girandola dei personaggi, indiani con nomi europei ed europei che
si travestono da indiani: va bene, d´accordo, i Senza Nome non saranno Tolstoj,
ma verrebbe comodo un elenco da tenersi come segnalibro, come per quelli di Guerra e pace.
“L’unica cosa faticosa è tener dietro alla girandola dei personaggi, indiani con nomi europei ed europei che si travestono da indiani: va bene, d´accordo, i Senza Nome non saranno Tolstoj, ma verrebbe comodo un elenco da tenersi come segnalibro, come per quelli di Guerra e pace”.
Ecco un bel compito per casa per i WuMing, da pubblicare nel loro sito come gesto di buona volontà. Loro, pur bravissimi, ci hanno un po’ il vezzo della girandola di nomi (vd mia rece di Free Karma Food, http://www.lucioangelini.splinder.com/post/7709112#comment, che si concludeva con l’angoscioso interrogativo “Aiuto! Ma chi è tutta ‘sta gente? In chi dovrei identificarmi?:- )”.
noto con sussiegoso disappunto che la rece, se riportata in modo completo (lo è?), non fa cenno alle altre vite che Manituana vivrà, in più e oltre e a fianco del libro, sull’omonimo sito.
A dire il vero, nella versione cartacea c’è un box dove si fornisce l’indirizzo del sito (e si annuncia l’intervista della sottoscritta agli autori, domani su Il Venerdì…)
Sui nomi: devo dire che non mi preoccupo di questo rilievo. E’ un falso problema che si è presentato a ogni nostro romanzo collettivo, spesso sollevato dagli addetti ai lavori, ma che i lettori hanno risolto, semplicemente, leggendo, sovente non percependo nemmeno l’esistenza di una difficoltà.
Credo che in “Manituana” non vi sia nemmeno un terzo dei personaggi (e dei nomi) che c’erano in “Q”, e meno della metà dei personaggi che c’erano in “54”.
Certo, per capire e memorizzare i rapporti tra i vari personaggi bisogna leggere il libro, e leggerlo con calma, attenzione e disponibilità all’ascolto. E’ una cosa che i nostri lavori richiedono sempre, non sono romanzi da divorare in un solo boccone, c’è una costruzione di mondo che dura per molti capitoli, ai lettori chiediamo fiducia, e spero che anche stavolta ce la concederanno.
@ Lucio. Il paragone con “Free Karma Food” è improprio: i nostri libri collettivi sono tutt’altra cosa rispetto ai “solisti” sperimentali scritti da singoli membri della band.
@ Effe: il pezzo è completo, ma non lo definirei una recensione, e sul giornale non è presentato come tale. E’ un articolo storico-divulgativo *liberamente ispirato* al nostro libro.
In definitiva, a parte i molti virgolettati che occupano la seconda metà del testo, questo articolo di “Manituana” dice e fa capire molto poco, quando ne parla lo fa en passant (e con qualche imprecisione).
Non credo che l’intenzione fosse recensire “Manituana”, ma fare un pezzo “di curiosità”, una specie di lungo elzeviro come spesso ne escono sulle pagine culturali di Repubblica.
Credo che sia un problema di molti scrittori contemporanei il gran numero di personaggi e nomi… proprio ieriil mio editor si lamentava che io ne metto troppi, dovrei sfoltire un poco.
talvolta è un espediente per puntellare una trama traballante.
cordiali saluti
luana
e così non hai perso occasione per farci sapere che ANCHE TU stai pubblicando un romanzo…che pena i parassiti…
Se c’è un problema che i romanzi dei WM proprio non hanno, è il traballamento della trama. Piuttosto, semmai, le contraire: trame dove tutto quanto “torna” e ogni cerchio si chiude, ogni riferimento si giustifica, anche a distanza di quattrocento pagine. Cosa che a volte può essere stucchevole, come a volte accade in “54” , comunque è un problema da poco(su “Manituana” vedremo dopo aver letto).
@ luana: di sicuro, se avrai modo di aprire un qualsiasi romanzo dei WM potrai vedere che le trame ( e le svariate sottotrame ) sono costruite in maniera molto rigorosa.
La narrazione corale, quella appunto fatta di tanti personaggi, è uno degli innumerevoli modi che possono essere utilizzati per costruire una vicenda e soprattutto per restituire tutta la complessità della Storia, quella con la S maiuscola, che da sempre è il prodotto combinato dell’azione di grandi personalità individuali e moltitudine anonima: Alessandro Magno ha fermato la sua avanzata, quando i suoi soldati si sono rifiutati di seguirlo.
Anna Luisa
non una recensione, allora si tratta di questo.
D’altro canto, per recensire un libro che non è solo un libro, ma anche il suo parallelo, il suo prolungamento, o il superamento in rete, ocorrono sintassi e strumenti e metodi che non possono essere – mi pare – quelli della critica classica, che concepisce i libri come entità-stock (mentre qui si forma un’entità-flusso)
molto meglio di Tolstoj,sulla fiducia(Sostanzialmente Anna Karenina è un trattto di economia e politica agraria romanzato in modalità intimista)
p.s. sull’onda dell’ascolto del “parco dei miracoli” di Dalla scrissi qualcosa che voleva essere un racconto in cui(probabilmente)gli spiriti dei nativi nordamericani si incarnavano negli adepti di una setta dedita agli omicidi seriali(http://lanoir.splinder.com/post/4256820
“Molto meglio di Tolstoj”. Ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
ho scritto,”sulla fiducia”.E ripeto Anna Karenina,por moi,è un’omelia vagabonda votata allo scabroso che sprigiona fulgore per mancanza di indizi(però ho letto solo il riassunto)
Grandi WUMING ancora una volta autori di libri importanti. E’ necessaria la vostra presenza qui.
Molti indiani, nessun càoboi, ottimo.
Per ora (pag.150) mi sto divertendo un monte.
Il pezzo che riporta il recensore (quello con Grand Diable che trita gli artiglieri) è finora quello che mi è piaciuto meno, troppo alla Frank Miller. Vado a cantare un po’ di Salmi.