GLI ASSASSINI DI K.

“Se Kafka cede alla dittatura del best-seller”:
così il titolone con cui il Corriere della Sera apre oggi la pagina
della cultura (poi, un bel giorno, qualcuno dovrà pur spiegarmi perché dovrebbe
essere sempre il solo Kafka a venir seppellito sotto scaffalate di Melisse e
non, per dire, Thomas Mann, o piuttosto Torquato Tasso). L’articolo, importante
sotto svariati aspetti, ma temo anche fuorviante, è di Claudio Magris. Perché
mi permetto di usare la parola fuorviante? Perché ho la sensazione che si continui
a fare drammaticamente confusione fra attenzione ad un fenomeno ed attribuzione
di valori, nonostante il distinguo iniziale del pezzo. Parliamoci chiaro
(ancora? Ancora): uno, i best-seller non stanno uccidendo l’editoria di
progetto né soffocando voci importanti e innovative della nostra letteratura.
Due: dove sono tutti questi critici e intellettuali che hanno considerato Dan
Brown alla stregua di Kafka? A me sembra semmai di ricordare che si siano
avanzati (e penso a Sanguineti, fra gli altri) inviti all’analisi di un
fenomeno come gesto più sano del disdegno e dell’anatema. Conoscere per
giudicare: vecchio slogan, ahi, del laicismo. Ma i tempi son questi: battaglie
antiche per la difesa di un diritto altrettanto antico vengono confuse nella
brodaglia calderolista (e dunque molto pericolosamente vanificate), chi alza la
manina (la sinistra, maledizione: la destra è stata appena dichiarata
ufficialmente fuori uso fino al 13 marzo) invitando alla discussione – perché
qui si continua a pensare che sia impagabilmente bello, e importante, essere in
proficuo disaccordo, anche se altrove si preferisce passare direttamente al
lancio del coltello – sa che nei prossimi mesi le cose non saranno affatto più
semplici, e che anche in campo culturale i tronisti saranno più numerosi dei
dialoganti. Comunque, stralcio (l’integrale è on line sul sito del Corriere,
previa registrazione gratuita):

(…)
Naturalmente è doveroso analizzare ciò che accade e
specialmente ciò che assume una dimensione quantitativamente vistosa; se
milioni di persone fanno la stessa cosa – si esaltano per un quiz, malmenano
tifosi avversari o aggrediscono extracomunitari – bisogna cercare di capire i
meccanismi e i motivi che stanno alla base di tali comportamenti. Altra cosa
tuttavia è attribuire valore a ciò che avviene solo perché avviene, confondere
il giudizio e l’analisi di fatto col giudizio di valore, ritenere che il
successo e l’audience di un fenomeno gli conferiscano automaticamente uno
spessore culturale o morale.
A cambiare non è stato tanto il mondo, quanto la filosofia.
Grosso modo fino a Kant o a Schopenhauer, essa si è posta quale ricerca della
verità; ricerca di sapere chi siamo, donde veniamo e dove andiamo; se Dio
esiste o no e se e come è possibile fondare un convincimento in proposito;
ricerca di sapere – come Socrate sotto il platano – cos’è la giustizia, la
bellezza, la vita vera. Da Hegel in poi, la filosofia è divenuta altra cosa; è
divenuta – per parafrasare le sue parole – «il proprio tempo appreso col pensiero».
Col precipitare sempre più veloce del tempo e degli eventi, questa concezione
si è radicalizzata all’estremo: la sapienza diventa mera comprensione
intellettuale di ciò che accade e che ha sì bisogno di essere portato a
chiarezza e ad autoconsapevolezza (con l’aiuto del filosofo, tecnico addetto a
questa funzione), ma ha comunque sempre ragione e non tollera un giudizio di
valore.

(…)
Tale modo di pensare si è diffuso in tutti i campi. Sul piano
più modesto dell’attività letteraria, quella sentenza hegeliana si è
trasformata nell’idolatria del bestseller o comunque del «libro di cui si
parla», di cui sembra obbligato parlare perché ne parlano tutti i media. «La
dittatura del bestseller uccide la letteratura», diceva qualche settimana fa
sul Corriere Andrew Wylie, descrivendo dal suo osservatorio privilegiato di
agente letterario mondiale l’effetto soffocante della corsa alle grandi
tirature e ai temi di successo sulla creatività artistica e sul pluralismo
della letteratura, condannata a perire se appiattita su un modello unico, poco
importa se imposto dal Partito o dal Mercato. Con toni ancora più accesi,
Dubravka Ugresic – l’appassionata scrittrice croata ribelle al comunismo e
successivamente al regressivo postcomunismo nazionalista divampato un po’ dovunque
in Europa – ha denunciato sulla Repubblica la mercificazione letteraria, tanto
più scandalosa per chi, come lei, si è formato sulla letteratura dissidente
clandestina, estranea a ogni logica commerciale.
Né Wylie né Dubravka Ugresic sottovalutano il profitto
economico, senza il quale non si stamperebbero più libri; tanto meno indulgono
al volgare risentimento invidioso, così spesso latente nella critica di ogni
successo, o ad astratte recriminazioni spiritualeggianti, inette a capire la
realtà. Non solo Robinson Crusoe e Werther, i due primi bestseller della
storia, ma anche tanti altri libri in testa alle classifiche, anche recenti e
spesso ardui e impervi, sono capolavori.
Ma, così come non basta aver sofferto e raccontare le proprie
sofferenze per essere uno scrittore interessante – come scrive Dubravka Ugresic
– per essere tale non basta nemmeno vendere milioni di copie come non basta
venderne solo poche centinaia.
Solo ottant’anni fa, in un clima sociale e culturale così
diverso, Il piccolo alpino di Salvator Gotta vendeva tante più copie di Guerra
del ’15 di Stuparich, ma ciò non induceva nessuno ad attribuirgli un valore
estetico o un significato epocale superiore; Clemente Rebora contava di più di
tanti fortunati e gradevoli fumettoni, perché lo spirito non ha sempre bisogno
di battaglioni, con buona pace di Stalin, e della sua famosa sciocca battuta
sul papa. Ora invece si assiste a un’equazione tra successo e valore. Non a
caso un altro importante agente letterario, Luigi Bernabò, ha scritto sul
Corriere : «Questo è il tempo di Dan Brown», l’autore di quella pretenziosa
pizza che è Il Codice da Vinci .
Secondo questa oggettiva diagnosi, questo romanzo o altri
quali La profezia di Celestino o le puntate di Harry Potter appaiono non solo
invidiabili successi, ma espressioni del nostro tempo più veritiere e profonde,
poniamo, di Mania di Del Giudice o di Underworld di De Lillo – due libri
anch’essi famosi, celebrati e venduti, ma con qualche zero in meno. La
presunzione di valore non è legata solo alla dimensione economica, alle cifre
dei diritti d’autore, ma anche alla notorietà e alla presunta attualità del
tema. Oggi il pubblico di acquirenti (più che di lettori) che crea un
bestseller non si appaga del puro e benefico intrattenimento, come un tempo con
i godibili romanzi scacciapensieri gialli o rosa, ma vuole essere giustificato
dalla convinzione di occuparsi di problemi importanti e apparentemente
sofisticati; il lettore del Codice da Vinci si sente un piccolo Galileo che
smaschera l’oscurantismo della Chiesa cattolica.
Pure la notorietà è tutt’altro che disprezzabile, ma non è
garanzia di valore e significato; i romanzi in cui un paio di scrittrici hanno
sciorinato noiose e prevedibili prestazioni sessuali sono probabilmente più
noti e più venduti dei romanzi di Marina Jarre, i quali tuttavia, con la loro
forza e la loro intensità, parlano tanto di più al nostro cuore, alla nostra
mente e ai nostri sensi ed esprimono ben di più il nostro tempo. Un eccellente
libro quale La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda – che narra
l’intrecciarsi della vita e della Storia e affronta a fondo le speranze di
riscatto, le illusioni e gli errori del Novecento con lucidità intellettuale,
semplicità quotidiana e freschezza poetica – non ha certo nulla da invidiare
quanto a espressione del tempo e piacere della lettura, a tanti libri di
diffusione planetaria.
L’osservazione di Bernabò pone implicitamente un problema
fondamentale, che trascende la discussione sui bestseller. Se questo è il tempo
dei Dan Brown, ciò significa che ad esprimere l’io e il mondo non sarebbe più
la grande letteratura sperimentale e d’avanguardia – che da più di un secolo ha
cambiato la realtà, cogliendone l’essenza con potenza visionaria – che continua
a farci scoprire in essa, nonostante gli anni e i decenni, il nostro presente,
la nostra verità. Abbiamo sempre creduto che, a dispetto delle date, i Kafka,
gli Svevo, gli Strindberg, i Beckett fossero i nostri contemporanei, che
continuano a parlarci di un futuro tuttora aperto ed incerto e in forme più
intense ed ardue di tanti altri libri scritti cent’anni dopo, cioè oggi, e che
sembrano scritti tanto prima.
Le date talora mentono: Il giovane Törless di Musil è del
1906, ma non è contemporaneo di Carducci, bensì di noi stessi, ai quali appare
nuovo e innovatore, ancora difficile da afferrare, mentre sono i «Codici da
Vinci» a sembrare ottocenteschi. Se il romanzo tradizionale, tante volte dato
per morto, risultasse l’espressione adeguata della nostra realtà odierna,
dovremmo voltar pagina e considerare Kafka non un aruspice del nostro presente
e del nostro futuro, bensì un padre nobile del Pantheon del passato. Comunque,
dinanzi ad ogni interpretazione della storia, chi si è formato nel solco della
civiltà austro-mitteleuropea continua a diffidare di ogni formula totalizzante,
a leggere – e a non leggere – quello che gli pare secondo i propri gusti e
capricci; a pensare che se le cose vanno così potrebbero benissimo andare anche
altrimenti e che, quando sembra succedere qualcosa di esaltante ed epocale, è
meglio limitarsi a borbottare con noncuranza, come Musil, «è capitato che…».

19 pensieri su “GLI ASSASSINI DI K.

  1. Credo che bisognerebbe fare delle serie analisi su 2 altri elementi in gioco:
    1) il ruolo del libro come medium non più principe per la tramissione di contenuti, culturali o meno
    2) il ruolo dell’intellettuale (in particolare dello scrittore, del regista, dello sceneggiatore, del narratore, mi piacerebbe poter dire del conduttore televisivo) come traghettatore di contenuti.
    Se milioni di persone in Italia vedono gli spettacoli di Paolini in TV, ma centinaia soltanto comprano il libro e migliaia soltanto lo vedono a teatro, qual è il peso “reale” della sua operazione intellettuale?

  2. E aggiungo: conosciamo bene, perché sono stati ben storicizzati, i limiti e i pregi del feuilletton, e più o meno possiamo comprenderli e/o amarli in quanto letture, in quanto operazioni editoriali, culturali, di mercato, di stile.
    Se fra 50 anni studieremo (studieranno…), che ne so, i Simpson piuttosto che South Park per glorificare l’impatto critico e sairico dei cartoni animati come medium privilegiato nella società degli anni ’90, l’equivalente di Magris ne parlerà forse con rispetto disprezzando i videogiochi ipernarrativi come MetalGearSolid?

  3. Hai ragione, Loredana: il pezzo di Magris è importante e fuorviante. Lo definirei anche interessante e obsoleto: quanti mesi sono che parliamo dello stesso argomento, con la medesima passione e addirittura gli stessi termini?
    Io “da grande” voglio fare lo Scrittore. Se fino a questo momento mi sono limitato a sognare (e a scrivere ogni minuto della mia esistenza) non è stato certo per colpa di Dan Brown, né di Faletti, né di Melissa P. Non è neanche colpa di Giuffrida di “Campioni” che ha pubblicato con Mondadori un libro (un libro) di suoi personali aforismi (aforismi). Non è colpa di queste cose se io non sono uno Scrittore di professione o se hanno ammazzato Kafka (Kafka è vivo): non mi sento un perseguitato dalla letteratura commerciale. Mi sento, invece, un pesce fuor d’acqua: mi sento circondato da persone il cui concetto di “bello”, “buono” e “gradevole” è bruciato. Sento una gabbia che sta chiudendosi. Ho paura. Un po’.
    Mi preoccupa, allora, il graduale spegnimento dell’interesse verso la qualità. Questo mi preoccupa, devo ammetterlo. Lo spegnimento dell’interesse è forse colpa di Faletti, Brown e Melissa P? No, non credo. Mi pare che lo spegnimento dell’interesse sia colpa del fatto che Hemingway s’è sparato un colpo di fucile in faccia e pure Marquez non è che si senta tanto bene; forse è una semplice parafrasi della vita, forse è una punizione.
    I vecchi inquilini se ne stanno andando tutti e quelli nuovi fanno un baccano della madonna: noi ci possiamo lamentare, qualcuno di noi lo fa, dissente e si sbatte, ma la maggior parte ha imparato a convivere con queste cacofonie e la notte, ormai, riesce perfino ad addormentarsi.
    Se, su ogni pianerottolo, le persone che non gradiscono uscissero a dire basta, forse si arriverebbe a un giorno ideale in cui il baccano perdurerebbe ma tutte le case avrebbero installati dei pannelli audio-isolanti. Sarebbe bello: si risveglierebbero, piano piano, tutti i nostri nervi ricettori della qualità. Dan Brown continuerebbe a produrre la sua spazzatura e io non sarei (forse) costretto ad andare in una libreria a via della lungaretta (dove è impossibile parcheggiare) per trovare quello che mi serve (volevo dire “piace”).
    Fino a qualche mese fa nella libreria ai piedi dell’Auditorium, a Roma – una delle più “in vista della città – c’era una vetrina intera (intera) tutta dedicata al nuovo romanzo (romanzo, non ricette) di Iva Zanicchi.
    Rumore. Baccano. Voglio dormire. Esco sul pianerottolo e urlo basta. Non esco a bruciare il libro in questione: i libri hanno un odore talmente bello da restarci col naso affondato dentro finché non viene l’ora di pranzo. Esco sul pianerettolo a dire che non è possibile. A rivendicare il mio stato di qualità. Non voglio scavare nella testa di Hemingway per cavarne fuori il proiettile che l’ha ammazzato. Voglio riaccendere l’interesse verso le cose di qualità.
    E’ questo che sta uccidendo le voci interessanti. Anche Hemingway era una “voce interessante” prima che una pallottola gli entrasse nella faccia e tutti i tori di Spagna gli uscissero dalle orecchie galoppando.
    Paura. Permettetemela.
    [Ste]

  4. Anch’io ho paura. Più di Magris che di Dan Brown. Forse perché ho *dovuto* leggermi Danubio tre volte, e *dopo* uno non resta integro 🙂
    Sto scrivendo un’ode foscoliana all’ulna lipperinica. Spero di non seppellire Kafka un’altra volta nel tentativo. ‘Sto povero praghese viene riesumato e re-interrato ogni cinque giorni. Sarà stufo.

  5. @Paolo, in questi giorni ho letto uno strano saggio che inizialmente, a causa del titolo e del tipo di battage, mi aveva ispirato diffidenza. Si chiama “Tutto quello che fa male ti fa bene”, lo ha scritto un giornalista scientifico, Steven Johnson, e parla proprio di media diversi dal libro come veicolatori di contenuti. Te lo consiglio.
    @[Ste] Ma ho una paura fottuta pure io. Il problema, però, è altrove rispetto a quanto indicato da Magris: è nella distribuzione, per esempio. Ma è amche in un non piccolo particolare: sai perchè è stato dato tanto spazio sui quotidiani a Dan Brown e Melisse? non per capire il fenomeno, ma per dire che traviano il volgo. Finchè la maggior parte degli intellettuali resta attestata su posizioni di retroguardia mascherata, non si avanza di un passo, temo.
    @Babsi: per l’ode, vanno bene anche Elio e le storie tese (tipo: ulna cineraria)

  6. Sono appena tornato dal convegno di Parma (“Cavoli e cicogne. Dove nascono i libri per bambini?”). Editori italiani ed europei (piccoli, medi e grandi) hanno discusso di mercato, di strategie, di nicchie, di crisi.
    Ma nessuno ha messo in dubbio la validità del libro in quanto libro, ora che il confronto (amoroso/odioso) con gli altri media si fa inevitabile e serrato.
    Io credo nel libro, ci mancherebbe, ma è davvero il medium principe, primus inter pares? O ha bisogno di essere ripensato, vanno scoperte le sue forze “contro” le debolezze degli altri media?
    Esempio: Stephen King ormai scrive romanzicosì lunghi da essrisultareere (di solito) impossibili da ridurre per il cinema, ma scrive in modo cinematografico. Chi vuole le sue atmosfere deve leggerlo…
    Grazie per il consiglio, Loredana: leggerò Steven Johnson!

  7. E’ vero, è più lecito temere Magris che Brown. Il primo si insinua, la fruizione del secondo è comunque frutto di una scelta (bisogna vedere quanto quella scelta sia condizionata e quanto invece spontenea; ma questo è un altro discorso, pure interessante).
    Ed è altrettanto vero che il trucchetto sta nella distribuzione. E’ proprio per quello che mi fa paura: è un trucchetto, non ci si può fare granché.
    A proposito di Elio: domenica sera ero all’Auditorium per l’incontro con Assante (molto interessante e divertente). Al termine grande soddisfazione: Assante annuncia il prossimo appuntamento con la Pausini, dagli spalti orde di fischi e ‘bù’. Magari non è stato elegante, ma godo – letteralmente godo – quando pecepisco nella gente questa voglia (seppure goliardica) di dissentire.
    [Ste]

  8. ho trovato un pezzo di più di una settimana fa che conferma l’ipotesi…
    RICERCATORI DELLA COLUMBIA UNIVERSITY ANALIZZANO I MECCANISMI DEL SUCCESSO DELLE CANZONI
    Hit Parade, conta più il branco del talento
    La formula del successo la vorrebbero tutti, quelli che cercano di scrivere un best seller o una canzone da hit parade e quelli che inseguono il grande amore o un posto di lavoro sicuro. Chi lo ottiene, empiricamente, spesso non se lo sa spiegare: talento? Duro lavoro? Fortuna? Sono ingredienti necessari, ma non basta. Il successo, sostiene un gruppo di ricercatori americani in uno studio pubblicato ieri su «Science» è una questione di maggioranza, proprio come la democrazia: i libri e le canzoni che ci piacciono sono quelli che piacciono a tutti, a prescindere dalla loro qualità. D’altra parte se piacciono a tutti un motivo ci sarà. E’ il gatto che si morde la coda: una cosa piace se piace, difficile capire come inizia il processo. Per ottenere questo inquientante risultato i ricercatori americani hanno creato un mercato musicale artificiale formato da 14341 partecipanti contattati attraverso un sito internet dedicato ai giovani: senza che loro lo sappiano, i partecipanti vengono divisi in due gruppi: «indipendenti» e «influenzati socialmente». A tutti vengono fatte ascoltare canzoni sconosciute di band sconosciute. Gli indipendenti scelgono le canzoni da ascoltare solo in base al nome della band e alla melodia, le scaricano da Internet se le apprezzano e alla fine danno un voto di gradimento. «In questo modo – spiega uno degli autori della ricerca, Matthew Salganik, sociologo alla Columbia University – riusciamo a misurare la qualità della canzone senza influenze esterne». I «socialmente influenzati», invece, ascoltano gli stessi brani ma possono anche sapere quante persone hanno scelto un certo brano scaricandolo. Bene, i ricercatori hanno scoperto esattamente il gatto che si morde la coda, cioè che le canzoni popolari sono popolari, e quelle impopolari non piacciono, il tutto senza collegamento con la loro qualità stabilita dall’altro gruppo.
    In un secondo tempo, Salganik e i suoi hanno diviso i «socialmente influenzati» in otto «mondi» separati, non interattivi. I membri di ognuno dei mondi non possono vedere le decisioni degli altri sette mondi. L’idea è verificare se per certi brani il successo è dovuto solo alla fortuna, ossia al fatto di essere stati scelti dai primi soggetti e aver di conseguenza influenzato gli altri, o se invece oltre alla fortuna c’è anche della qualità. «Prendiamo ad esempio Britney Spears – spiega Salganik – alcuni dicono che è davvero brava, altri che è soltanto fortunata. Con un unico gruppo, è difficile distinguere tra le due opzioni. Ma se tu immagini dieci mondi e lei è popolare in tutti e dieci, allora puoi dire che è davvero brava. Se è popolare soltanto in uno, allora si può dire che il suo successo è dovuto alla fortuna». Nell’esperimento americano ogni «mondo» sceglieva una hit diversa ma la popolarità era sempre il fattore decisivo, sebbene le «belle» canzoni dal punto di vista qualitativo non fossero mai proprio le ultime e le «pessime» mai le prime. D’altronde già il direttore marketing della Mondadori, Massimo Turchetta, spiegava tempo fa a La Stampa: «Non avremo mai un best-seller se il libro è cattivo. Il best-seller non lo crea il marketing, nessun direttore marketing ci riesce. Se il libro è buono e il marketing efficace è probabile ne nasca un best-seller. Talvolta anche se il libro è buono e il marketing inefficace. L´idea che esista un algoritmo del best-seller è ingenua».
    «La verità è che la gente ha troppe alternative, nel caso del nostro esperimento 48 e nel mondo reale molte di più – conclude Salganik -: siccome non puoi assaggiare tutto, la scorciatoia è ascoltare quello che stanno già ascoltando gli altri». Non solo, un altro fattore importante nella scelta è il desiderio di condividere un’esperienza con gli altri, dato che una gran parte di piacere nell’ascoltare musica, leggere libri o guardare film è poi parlarne con gli altri. «Se tutti parlano di Harry Potter ti viene voglia di leggerlo» dice Salganik. Magia?

  9. Sì, ma:
    “Col precipitare sempre più veloce del tempo e degli eventi, questa concezione si è radicalizzata all’estremo: la sapienza diventa mera comprensione intellettuale di ciò che accade e che ha sì bisogno di essere portato a chiarezza e ad autoconsapevolezza (con l’aiuto del filosofo, tecnico addetto a questa funzione), ma ha comunque sempre ragione e non tollera un giudizio di valore”
    Non so in base a cosa Magris possa fare questa affermazione. Ho l’impressione che sia “buttata lì”.
    Molta la retorica.
    “Se questo è il tempo dei Dan Brown, ciò significa che ad esprimere l’io e il mondo non sarebbe più la grande letteratura sperimentale e d’avanguardia – che da più di un secolo ha cambiato la realtà, cogliendone l’essenza con potenza visionaria – che continua a farci scoprire in essa, nonostante gli anni e i decenni, il nostro presente, la nostra verità.”
    Parafrasando, se questo è il tempo di Berlusconi (e non vi è dubbio che lo sia), ciò significa che ad esprimere l’io ed il paese (non il mondo) ci sia solo una monolitica cultura mercantilistica, neppure tanto liberista. Ma da quando in qua ciò che “si impone” con i grandi numeri può esprimere un “io” o un mondo? Lo contrassegna storicamente, ma è tutt’altra cosa. Magris salta alle conclusioni da quelli che tratta come “sintomi”, proprio perché li tratta come sintomi di qualcosa che ha in mente di dimostrare.

  10. Purtroppo le idiosincasie di Magris aumentano in misura inversamente proporzionale alla sua calante lucidità: cosa che lo porta a dire su Kant delle enormi sciocchezze, all’interno di una storia della filosofia in nuce che sembra un bignamino di Lukàcs o di Geymonat: insomma, come sembrare il nonno di Tilgher, che aveva già capito (nel 1923!) che Kant apre la strada al termine della quale arriva Pirandello.
    Il guaio è che l’ossessione del commerciale Magris l’ha sempre avuta: come quando, in “Danubio”, sostenne che Cioran (che viveva in una mansarda assediato dagli avvocati, e solo nel 1987, dopo 40 anni di fame, ha raggiunto livelli di vendite accettabili) scriveva per compiacere il mercato (ahi, le macchine letterarie!).
    Temo di ripetermi: ma all’inizio degli anni 70 nessuno, mi pare (o mi sono perso dei precursori?) si stracciava le vesti per “Love Story” e “Il Padrino”, che per il fatto di dominare le vendite non negavano certo al lettore americano il piacere di leggersi Salinger, Pynchon, Burroughs, Bellow, Singer…
    (e mi scuso con i dimenticati).

  11. segno evidente che intellettuali e critici non leggono in bagno ( attività ricreativa e culturale degna del massimo rispetto), dove è molto più agevole e rilassante leggere Brown anzichè – lo doco? lo dico – Kafka.

  12. Lippe qui tutti si sforzano di fare commenti intelligenti ai tuoi post per attirare l’attenzione io ti faccio due domande:
    1- quando mi intervisti?
    2- scriverai la prefazione al mio primo libro?

  13. Anche una piccola recensione al mio? Di libro, intendo. Non sono stata nè raccomandata, nè suggerita, nè sponsorizzata, nè bestsellerizzata (o selleronizzata… ). L’attesa è stata la mia maestra suprema. La perseveranza è una fonte continua di sorprese. Buona giornata. Ovviamente sul Giornale non compare l’invito a regalare a scuole e biblioteche i libri che devastano le scrivanie dei poveri recensori… ;o)

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