GRANDI DOMANDE

Protesta   Dunque: c’è un gran discutere su gran temi, in questi giorni. Specie su Vibrisse, dove Giulio Mozzi e altri stanno affrontando parecchie questioni. Per esempio, quella, non da poco, su centralità o marginalità della letteratura. Per esemplificare la portata del dibattere, questa è la sintesi dei quesiti posti da Mozzi:

A questo punto, la domanda è: non è che, forse, sarebbe meglio se i mercati dei libri "per l’élite" e dei libri "per il popolo" fossero ben distinti? … Non è che, forse, l’idea che il libro "colto" (nello stesso senso in cui si parla di "musica colta") debba essere pubblicato e distribuito dagli stessi produttori e per gli stessi canali del libro da svago, del libro leggero, del libro-spazzatura, è un’idea che dovremmo mettere da parte?

Non è che, forse, se vogliamo togliere la letteratura dalla sua attuale condizione di marginalità, dobbiamo ripartire dall’idea che la Letteratura (ci metto anche la maiuscola) è un prodotto culturale per le élites, anziché pensare che la Letteratura debba essere portata al popolo (il quale peraltro alla Letteratura preferisce l’Intrattenimento)?

Caldamente raccomandata la lettura del post e dei commenti, nonché l’intervento, sempre su Vibrisse, di Nicola Manuppelli.

Ora. Non mi tiro indietro sull’argomento (anche, d’istinto, una distinzione così netta fra élite e popolo mi suscita qualche dubbio: per dire, proprio l’accenno di Giulio alla musica colta mi porterebbe a riaprire un vecchio discorso sulla fruizione “popolare” della musica colta medesima, ugualmente legittima di quella “elitaria”).

Però, per adesso, mi soffermo su un aspetto tecnico, sollevato anche da alcuni commentatori, che è quello che riguarda promozione e distribuzione del libro. Anche a Torino, nel famoso convegno sulla Restaurazione, questo mi sembrava uno dei punti centrali da affrontare (per inciso, sempre sull’imprescindibile Vibrisse trovate una serie di post sull’argomento). E mi chiedo: a che punto siamo? A che punto siamo, intendo, con l’uso della rete?

Dal punto di vista della discussione letteraria, di cui molto si è già detto, è intervenuto qualche giorno fa Andrea Inglese su Nazione Indiana.
Dal punto di vista della promozione, io ho idea che la rete possa fare parecchio: in una recentissima chiacchierata con Mario Desiati, il medesimo sosteneva che, in Italia, i lit-blog possano spostare al massimo duemila copie di un libro. Di più, secondo me (credo che si possa fare tranquillamente l’esempio di Scirocco di Girolamo De Michele), ma sono pronta a discuterne.

Dal punto di vista della distribuzione, mi sembra che qualcosa cominci ad accadere. Faccio un esempio fresco fresco (anche se se n’era già parlato qui). Ieri sera mi arriva una lettera di Tommaso Labranca che comincia così:
Se gli editori lasciassero scegliere le copertine agli autori probabilmente ci sarebbe un miglioramento nella produzione letteraria. Ancora di più se gli scrittori decidessero di rinunciare al loro finto antitecnicismo e iniziassero a pubblicarsi da soli i propri testi nelle scritture orginali, con tutti gli errori, le imperfezioni, le ingenuità. Senza l’intervento chirurgico degli editor.
Sarebbe tutto più bello se poi vendessero i loro libri autoprodotti su Internet invece di aspirare al volume rilegato del grande editore che dopo dieci giorni finisce nella polvere del retrobottega.

Per dire che il medesimo, dopo aver pubblicato con editori non piccoli,  ha fondato una casa editrice che diffonde pubblicazioni solo su Internet, la pluscool.
Significa qualcosa? Significherà qualcosa?

50 pensieri su “GRANDI DOMANDE

  1. Mi pare che il principale intrattenimento dell’uomo, senza grandi oscillazioni nel corso dei secoli, sia l’angoscia (insieme all’amore, che metto da parte solo per evitare diatribe nominaliste, e perché si può ricondurre quasi sempre a qualche forma di angoscia: non equivalenza ma implicazione, ovviamente).
    L’affermazione che il popolo preferisca l’Intrattenimento alla Letteratura, in tal caso, sarebbe azzardata, perché la letteratura è intrattenimento.
    (A proposito, ma qualcuno vuole andare a correggere su NI quella data, 1947?)

  2. quando leggo di idee innovative di distribuzione della letteratura vado sempre a cercare la parte riguardante i soldi. e talvolta non la trovo. per dire, quando si propone di organizzare i libri in letteratura “alta” e Resto Del Mondo, non capisco chi dovrebbe fare una cosa simile (al di là della bizzarria dell’idea in sé). gli editori? allora bisogna spiegare cosa ci guadagnano e come. le librerie? idem. gl scrittori? ma gli scrittori (salvo quei pochissimi con forte potere contrattuale) non possono fare a meno di editori e librerie. però magari gli scrittori (e anche qualche piccolo aspirante “editore”) vogliono proprio provare a fare a meno di editori e librerie; usando il web, o anche la distribuzione digitale unita a centri di stampa copia-per-copia (“on demand” mi suona brutto).
    il problema però è ancora squisitamente economico: editori e, un pochino, librai non si occupano solo di stampare libri, ma anche di promuoverli e distribuirli; e anche queste operazioni hanno un costo, la cui copertura è affidata alla regola del maggior profitto (spendo tot per stampare, distribuire e pubblicizzare un libro che conto mi renda tot+x). cioè, a meno di non voler fare operazioni di minima scala (offro il file .pdf ai miei 100 amici e parenti), una distribuzione via web richiede ancora un investimento non indifferente. chi paga?
    certo, si può convincere un editore (o un imprenditore qualunque) a lanciarsi nell’operazione (che già si fa, per altro; non so se anche in Italia ma si fa), ma a quel punto dove sarebbe la differenza in termini di libertà dell’autore e di maggior diffusione dell’opera?
    ma si può fare anche una via di mezzo (editore tradizionale + web): boh; anche su idee di questo tipo vorrei capire anzitutto come va il lato economico.

  3. Dal momento che Typepad sta continuando a fare capricci (stavolta in amministrazione), posto per ora qui due riferimenti: quello alla già nota iniziativa delle edizioni Untitled (qui: http://www.untitlededitori.com), che in rete è nata e in rete lavora, e il manifesto citato da Lucio Angelini: lo trovate in Chiaroscuro di Alberto Giorgi, è rivolto a tutti (lettori,editori, librai). Qui
    http://albertogiorgi.blogs.
    com/chiaroscuro/2005/10/
    lidea_si_trasfo.html#more

  4. no. Non significa nulla. Mi dispiace ma credo siano tutte stupidaggini. La sensazione leggendo interventi come questo è di asfissia. Di completa mancanza di contatto con la realtà. I dibattiti di cui si parla, le proposte le idee su libro, elitè e industria sembrano tutte indicare un atteggiamento provinciale, impaurito e conservatore. E’ una sorpendente corsa a ritroso nel tempo: Dal dividere Letteratura e consumo, come se fossimo al tempo dei francofortesi fino ai libri autoprodotti e senza editing, curiosa idea naif.
    Qualcuno laggiù ha idea di cosa sta succedendo nel mondo ? di quale sia la direzione che sta prendendo la letteratura ed il suo rapporto con l’industria e la distribuzione ? Copertine autoprodotte dagli autori ?? e perchè mai ? Perchè uno scrittore dovrebbe avere doti e capacità nella cultura visiva ? nei problemi del facing della distribuzione ? Bizzarro. Da anni, decenni, si parla di libri come prodotti da collettività, figli di intelligenze diverse e a volte in conflitto che mescolano, saperi spesso lontani. Grafici, direttori di collane, editori, revisori, traduttori, redattori, direttori commerciali, librai, uffici stampa e naturalmente scrittori concorrono nel dare vita ad un oggeto unico, figlio di mille mediazioni e contraddizioni.
    Ed ecco che fuori dal tempo e dal senso spuntano idee dannunziane di un ritorno all’autore vate, autore di tutto incapace di tollerare la mediazione dell’industria culturale, geloso perfino dei propri refusi. Perchè lui è un’artista e la merda d’artista è comunque arte. Ma dove siamo ? anzi, ma quando siamo ? anni ’60 ? anni ’30 ?
    E’ sconsolante vedere quanto questo paese sia provinciale e sprofondi sempre più nella propria marginalità.
    A quando un bel dibattito sulla modernità dell’incunabolo ?

  5. Giulio,
    credo che Loredana abbia ragione, soprattutto in prospettiva. In un’era (breve, brevissima, qualche anno) di caos e riorganizzazione il discorso letterario si è semplicemente “disperso”. L’esperienza del passato non mi ricorda, dal punto di vista numerico, altre grandi riviste tranne NI, i Miserabili e Carmilla, forse mi sbaglio (dell’ultima lo ipotizzo). Giacché le copie in qualche si devono pur vendere, dando per scontato che non sia solo l’effetto tam-tam a generare il successo editoriale (e suppongo che la cosa non ti piacerebbe neppure), la possibilità di “spostare” equivale alla possibilità di rendere pubblico un discorso che venga recepito come “serio”, conseguente, progettuale: sto sostenendo che lo spostamento sarebbe solo una conseguenza, auspicabile, dell’effettivo all’allargamento di un dibattito che, per la prima volta, non si propone più “a senso unico”, nella forma mittente-destinatario: se entri in un circo in cui, improvvisamente, il pubblico non ha più solo il potere di applaudire, ma anche di scendere nell’arena, sono fisiologici dei tempi di adattamento. Chi non lo capisce ne paga le conseguenze (attualmente, posso essere davvero pessimista solo riguardo NI, che ha letteralmente “subito” questo meccanismo convertendosi in un ottimo narcolettico intellettuale: ma NI è solo un caso e non importa nulla).

  6. Poiché il passaparola è un processo complesso, caotico (nel senso delle teorie del caos), poco visibile (perché avviene nelle reti amicali, nella sfera delle relazioni tra singoli) se non addirittura invisibile ai “sensori” tradizionali, non è possibile quantificare quante copie “spostino” i blog letterari.
    Di quanti cerchi concentrici dovremmo tenere conto?
    Se non ci poniamo alcun limite, allora possiamo dire che i blog letterari (insieme a tanti altri “punti d’origine”, punti in cui il sasso tocca il pelo dell’acqua) spostano *milioni* di copie.
    A scrive di un libro sul proprio blog, B lo legge e decide di comprare il libro. Dopodiché, B lo consiglia a C e D. C lo consiglia a E e F, D lo consiglia a G e H, che a loro volta etc. etc.
    E, F, G e H non hanno saputo del libro dal blog di A, almeno non direttamente.
    Eppure le copie che hanno acquistato sono state “spostate” dal blog di A.
    A dire il vero, non ha nemmeno senso porre la questione in astratto. Bisognerebbe parlare di casi specifici.
    “Quante copie” di quale libro? “Perceber” o “Con le peggiori intenzioni”? “Canti del caos” o “L’elenco telefonico di Atlantide”? Libri di autori noti o di esordienti? Libri pubblicati da grandi colossi o da piccoli editori?
    E di che tipo di blog stiamo parlando? Di blog personali frequentati da piccole cerche di amici o di mega-blog multi-autore che sono vere e proprie communities?
    E di che tipo di *post* stiamo parlando? Recensioni articolate o semplice menzione del titolo? Consigli per gli amici? “Buzz”?
    Faccio un esempio che conosco bene:
    “New Thing” non è stato recensito da Repubblica.
    Non è stato recensito dal Corsera.
    Non è stato recensito dal Manifesto.
    Non è stato recensito da L’Espresso.
    Non è stato recensito da Panorama.
    Non se ne è parlato in tv.
    Non se ne è parlato a Fahrenheit di Radio 3.
    Eppure “New Thing” ha venduto oltre 21.000 copie nei primi due mesi di presenza in libreria.
    Non so chi abbia “spostato” quelle copie, ma di certo non lo hanno fatto i media tradizionali.
    Se togliamo i media tradizionali, cosa rimane?
    1) Le presentazioni pubbliche (ma ne ho fatte poche, per gli standard di Wu Ming: al massimo una quindicina, e nessuna a Milano).
    2)la rete (che non sono solo i blog: la nostra newsletter “Giap” ha un ruolo decisivo nella promozione e nella discussione sui nostri libri).
    3) Il passaparola (stimolato dalle presentazioni E dalla rete, che a loro volta si stimolano a vicenda).
    Parliamo dei casi specifici, insomma.

  7. “New Thing” non FA TESTO. Un libro targato e distribuito Einaudi, per giunta firmato Wu Ming (senza nome si è fatto paradossalmente un nome) è prenotato a scatola chiusa dai librai e quindi viaggia sicuro, senza bisogno di menate e sbattimenti vari.
    Vorrei sapere quante copie de ‘La macinatrice’ sono state spostate dai blog. Forse siamo nell’ordine di qualche dozzina di copie…

  8. Sinceramente wu ming io credo che nel discorso blog voi facciate poco testo. Non siete un blog, ma molto di più. Ho scaricato 54 , poi, dopo aver letto e “studiato” il progetto mi sono rifiutato di scaricare altro. Quando posso compro. E spacco le palle al prossimo con i vostri libri e autori. Chi compra “wu ming” non compra solo un libro. Mi sembrate un caso a parte.

  9. Siamo senz’altro un “caso a parte”, e siamo senz’altro “un nome”, qualunque cosa significhi, ma quanto ha pesato il nostro utilizzo della rete nel nostro diventare “nome” e “caso a parte”? Ve lo dico io: *tantissimo*, e fin dall’inizio, fin da quando “la rete”, in Italia, non era ancora il web bensì le BBS (ECN e Fidonet, soprattutto), dai tempi del Luther Blissett Project a oggi.
    Di libri targati e distribuiti Einaudi ne escono tantissimi, ogni anno, e molti di questi vendono poco o pochissimo. Uscire per un editore prestigioso che può distribuirti bene non è la garanzia di niente, non oggi, non con l’alluvione di titoli che riempie le librerie.
    Inoltre, l’Einaudi ci contattò quando già eravamo conosciuti e “di successo” (seppure un successo underground).
    Nel nostro caso, a fare la differenza è un lavoro di anni e anni, durante i quali abbiamo usato la rete per tenere in movimento una comunità aperta di lettori. Il nostro utilizzo della rete si concentra sul sito e il modo in cui lo usiamo (peculiarissimo), la newsletter (*le* newsletter), il copyleft, i progetti di scrittura “comunitaria” etc.
    La rete non è solo i blog, né basta aprire un blog e scrivere di libri per dire che si sta facendo buon uso della rete.
    Non si può dire che la rete sposta “poco” se non se ne sono comprese appieno le potenzialità e possibilità. Ad esempio, io continuo a non capire come mai autori ed editori italiani non adottino il copyleft (come principio e come prassi), benché l’esempio nostro, di Girolamo De Michele, di Cory Doctorow e svariati altri autori abbiano dimostrato che il download gratuito fa vendere di più. Oltre a essere eticamente giusto, è grande ed efficacissima guerriglia-marketing.
    La maggior parte degli operatori culturali italiani (editori, scrittori etc.) che hanno fama di essere “presenti” in rete e sui blog sta usando la rete e i blog al 5% delle loro attuali possibilità. Noi stessi, con tutto lo sbattimento, non siamo oltre il 30-40%. Dobbiamo ancora imparare a usare al meglio gli rss, sul sito abbiamo ancora tantissime pagine “fossili” da aggiornare, siamo ancora al palo per quanto riguarda il video, aggiorniamo troppo di rado la sezione audio, la newsletter in portoghese è poco più di una serie di annunci relativi al sito etc.
    Se non si capisce questa cosa, se non si parte da questo dato di fatto, non ha senso nessun discorso su cultura e rete. La rete ha una sua specificità. Non si può ritenere un uso adeguato della rete aprire siti o blog che hanno gli stessi difetti e le stesse rigidità delle riviste letterarie su carta.

  10. Piccolino, ti dissi fin dal nostro primo incontro che Wu Ming un po’ si nasce e un po’ si diventa:-/-. Naturalmente voi fose così astuti da NON firmarvi “Anonimo”, ma “Wu Ming”, che faceva comunque, per giunta esotico, quindi ancor meglio memorizzable. Le potenzialità della rete sono infinite, è vero, ma sposate all’acquisto dei libri ***in Italia, hic et hunc, almeno per ora, desolatamente “finite”.
    Tiè:-/

  11. Aggiungo che alle edizioni Libri Molto Speciali, ***visitatissime*** in rete, hanno risposto in migliaia: non per acquistare, purtroppo, ma per proporre libri ***molto speciali*** (che al 99% erano le solite stronzate):-)

  12. Wu Ming, una domanda: dovessi quantificare il lavoro svolto dal gruppo WU Ming per arrivare a ottenere la visibilità che avete ora, indipendentemente dai canali ufficiali, a quanto potrebbe ammontare l’investimento?
    Buona serata. Trespolo.

  13. “Nel nostro caso, a fare la differenza è un lavoro di anni e anni, durante i quali abbiamo usato la rete per tenere in movimento una comunità aperta di lettori”
    Appunto. Sono d’accordo che la rete è ancora poco utilizzata ma c’è un problema.
    Di mio ho partecipato allo sviluppo di games in freeware (una cosa tipo opensource ma vecchia). Il punto e che li e da voi alla base c’è un idea, un progetto condiviso. Posso banalizzarla in “responsabilità verso la comunità” ?
    Un progetto simile si basa su una carica “ideale” o “ideologica”. Giusto chiederla a noi stessi, ma presupporla negli altri?
    Sul copyleft condivido al 100%, mi sembra un passo nella giusta direzione ma credo, servirà altro. Forse occorre ripensare anche il copyright, in qualche modo dobbiamo bilanciare meglio la “naturale avidità umana”.
    Le miei sono considerazioni sparse, diciamo dubbi e pensieri. ASSOLUTAMENTE non un critica a voi. Penso che da lavori come i vostri nascera qualcosa, ma al momento temo non ci siamo.
    Forse e solo questione di tempo e mentalità.

  14. Trespolo: l’investimento corrisponde a quindici anni di lavoro continuo, tutti i giorni, dalla Pantera a oggi. Ricerche, studi, riunioni, scrittura, rispondere alle mail, inventare strategie, perfezionarle, aggiornare il sito, aggiornarsi, formazione permanente, momenti di verifica pubblica, macinare migliaia di chilometri su e giù per lo Stivale e non solo (duecentocinquanta presentazioni dall’uscita di Q a oggi). E’ impossibile fare una conversione tempo-denaro, anche se sarebbe interessante calcolare il “prodotto interno lordo” generato dall’attività di Wu Ming 🙂
    Lucis: ma io ti parlo proprio di soggetti che la “carica ideale o ideologica” la dichiarano, scrittori e operatori di cultura che hanno fatto o fanno finta di “stare in rete”, ma della rete, della sua specificità, del suo sviluppo e di come usarla non sanno né hanno capito *nulla* (eppure ne parlano a vanvera e se ne lamentano). Editori che si limitano ad allestire un sito-vetrina, critici che si limitano a giocare con un nuovo megafono, scrittori che si limitano a riprodurre in rete la forma del “cenacolo” letterario.
    Sia chiaro che NON mi riferisco a Giulio Mozzi: il suo utilizzo della rete è molto diverso dal nostro, nondimeno c’è.

  15. “usare la rete” è ancora una forma di promozione. che richiede molto lavoro, ergo denaro, che va messo nel conto.
    per altro, dal mio punto di osservazione, i libri wuminghi hanno la notorietà e le vendite che hanno *solo* da quando Q fu presentato con grande spolvero sulla stampa ufficiale.

  16. Il segreto della rete è proprio che abbatte i costi.
    Se comprare una frequenza radio locale costa duecentomila euro, aprire e e gestire un podcast costa praticamente niente.
    Se fondare e pubblicare una rivista anche piccola comporta un investimento di migliaia di euro e l’avere a che fare con tipografi e distributori, registrare un domain costa trenta euro e un blog può essere gestito in prima persona.
    Il passaparola, poi, è gratis.
    Quando a noi: la stampa ufficiale dà continuamente spazio a libri, ma ben pochi di questi vendono. Ormai anche una paginata di quotidiano sposta poco, il mercato dell’attenzione è sovraccarico e i lettori si fidano più del consiglio di un amico che di un lancio strombazzato in pompa magna. Tanto che ormai tutti gli esperti di marketing parlando del problema del “clutter”, il baccano provocato dall’eccesso di pubblicità che rende quest’ultima improduttiva e inefficace, mentre tutte le ricerche più affidabili mostrano che i cosiddetti CGM (Consumer-Generated Media, in parole povere: il passaparola, i blog etc.) sono quelli da cui dipende veramente il successo di un prodotto. E’ la scoperta dell’acqua calda: se l’avessero chiesto a noi, glielo avremmo spiegato gratis! 🙂
    Ripeto, noi possiamo fare da case study:
    – per scelta, non siamo mai andati né mai andremo in televisione;
    – da anni il Corsera (il più importante e diffuso quotidiano italiano) non recensisce nostri libri (nemmeno Q è mai stato recensito su quelle pagine)
    eppure non mi vedo contraccolpi negativi;
    – D’Orrico (il più influente dei Book-Jockeys nazionalpopolari) ha scritto di noi una volta sola quattro anni fa, en passant, e disse che eravamo un bluff, facevamo schifo e dura minga.
    – Le nostre ultime due uscite sono state “New Thing” (snobbato dai principali organi di informazione del Paese) e “Asce di guerra 2.0” (non recensito né segnalato da nessuno).
    Insomma, abbiamo pochissimo a che fare coi media tradizionali, privilegiamo altri canali. Eppure i nostri libri continuano a vendere imperterriti e sono continuamente ristampati.
    Nel 2004, una sessantina di mesi dopo la sua uscita in libreria e dopo gli articoli a cui accennava Beneforti e che nessuno ricorda più, Q ha venduto ben 16.000 copie. Segno che il passaparola prosegue, che il libro continua a essere regalato, consigliato, discusso: I media tradizionali non menzionano mai il libro, quindi non hanno nessun ruolo in questo processo, mentre se si fa una ricerca su google si vedrà che del romanzo si continua a discutere su blog, forum e altri spazi, altri “media generati dai consumatori”.
    Ora, noi abbiamo lavorato sodo per ottenere questo, abbiamo lavorato sodo sui libri e sul nostro modo di presentarli e presentarci. Ripeto, wumingfoundation e “Giap” sono le testate d’angolo della nostra strategia. Ma quello che il passaparola e la rete hanno fatto e fanno per noi lo possono fare anche per altri. Tutto sta nel comprenderne l’importanza, il funzionamento, le potenzialità.

  17. sono d’accordo sul ‘parlare di casi specifici’, anche perché, come sostiene Giulio Mozzi, 2000 copie sono nulla per un grande editore (ma quanti sono?) e sono molto per un medio/piccolo editore, e se si parla di blog si parla di cluster,
    quante copie della macinatrice hanno spostato i blog? 12, come i venticinque lettori manzoniani?
    Sul mio auto-blog, un giorno ho scritto che a casa avevo l’ultimo di Roth l’ultimo di Parente, chiedendo a chi frequentava il blog di suggerirmi da dove iniziare, hanno risposto un po’ di lettori e amici e visitatori. Intanto presumo che chi mi abbia sconsigliato/consigliato un libro piuttosto che un altro intanto lo abbia letto.
    E’ il concetto di ‘spostare copie’ che secondo me è sfuggente, forse riferito a determinati casi specifici e determinati blog, facciamo tre casi
    – gli ultimi giorni di Lucio Battisti, quante copie ne sono state spostate dai blog? (I Miserabili – Pequod)
    ovvero blog non appartenente all’autore, medio editore
    – Perceber, quante copie ne sono state spostate, oltre che dai blog, da internet in genere? (Perceber – Sironi)
    ovvero blog appartenente all’autore e collaborazione con editore
    – Cattivo Sangue, quante copie ne sono state spostate da Uffenwanken?
    ovvero: blog dell’autore che ospita amici
    nel metodo, l’analisi di tre specificità può essere un suggerimento?
    inoltre andrebbero inclusi o escluse le peculiarità dei tre autori menzionati riferiti al loro mestiere o a ciò che fanno oltre la rete (vedi il testo di teoria dell’ipertesto di Domanin, o articoli/anticipazioni/recensioni di Colombati su altre riviste)
    …da dove si può cominciare?

  18. GT: ciao Franco, come va? Ah scusa, volevo giusto presentarti un’amica, lei è qui di passaggio, un attimo solo
    TIPA: hello, I’m Tit.
    FRANCO MELLONI: Ciao Tit, da vicino hai tre dimensioni!
    GT: Ah, scusatemi, giusto ora ricordo che a quest’ora dovevo avevo un appuntamento dal dottore, vi lascio soli, Tit, ti lascio in buone mani, ciao Franco ci sentiamo domani
    FRANCO: Ciao Tesen, in gamba!
    TIT: Ciao Giovgio, a domani!
    GT: Saluti a voi, mi raccomando, non divertitevi troppo!

  19. io dico (a mozzi) che un bravo scrittore-giornalista-drammaturgo (per me è ovvio) è quello che quando scrive, scrive cose che l’élite apprezza e il popolino capisce. si puà scrivere per tutti, credo.del resto mozzi ha pubblicato (anche) libri di questo genere: Infanzia dea, per esempio. O Una timida santità. O La messa dell’uomo disarmato.
    Comunque: io credo che la scrittura, quindi anche la letturatura, sia anche una questione di rispetto: farsi capire, in buona sostanza. E volare, se si può, chi può, sui contenuti.

  20. Non capisco granché le osservazioni intorno al “vendere per il nome” (ossia “wu ming”): basta non lasciare che il “branding” (anche se la parola è inappropriata) venga gestito da eventuali automatismi che si vogliono contestare: per il resto, un nome bisogna pur averlo. Se vendi tot copie in più perché ti chiami Wu Ming non significa che le vendi perché sei una scatola di pomodori: questo non è irrilevante. Quando al potere del nome, poi, qualcuno vuole azzardare una previsione sulle vendite del secondo Melissa P.? Io insisto sul fatto che il lettore non è un citrullo, e il numero di copie vendute in prima uscita non è, per forza di cose, un biglietto di presentazione straordinario. Se si vuole parlare di “strategia Wu Ming” si deve fare caso ad alcune scelte (ma qui ripeto quanto leggo, mi pare), senza neanche bisogno di etichettarle come scelte di qualità (ogni scelta presuppone alcune qualità, fatto banale). Non c’è modo di dimostrare, secondo me, che la politica di Wu Ming voglia creare qualche sorta di bolla editoriale: mi sembra, al contrario, che vada in direzione della necessità di “scansar l’odor di truffa”.
    Precisazione: il mio intervento che si può leggere sopra, un po’ indeterminato, è una specie di dichiarazione di cautela su un mezzo, la rete, che è stato usato a dovere (come si conviene ai mezzi…) da alcune eccezioni, ma ben poco dalle riviste letterarie, dai siti delle case editrici, dai blog personali degli autori. Dalle eccezioni bisogna imparare, è quantomeno futile bollarle come eccezioni e dichiararle inutili per l’analisi.

  21. Blisset, tu chiami rispetto ciò che io chiamo onestà intellettuale: credo siano la stessa cosa, visti dalla parte del lettore o dalla parte dell’autore (due figure la cui ostinata separazione crea l’illusione di due letterature differenti, maiuscola e minuscola)

  22. SIGNORI, signor Tesen, signor wuminchiuno (con simpatia!), ci era appena arrivata la notizia del Nobel a Pintor (a cui noi vogliamo bene in quanto molto vicini a lui negli anni del PdUP/Manifesto, fa parte della nostra storia, ma non era morto?) quando abbiamo ricevuto lo scoop del
    VIDEO DEL BARDO MISTERIOSO CHE SEMBRA BIONDILLO CHE NEI BOSCHI VICINI A CHIETI RECITA “LU KANTU DE LU ‘RNITURINCHIA” SUL BLOG DEL MITOMANE ROCKENTIN!!!!!!!!
    http://www.roquentin.net/ornitorinco.mpg
    Siamo perplessi ma molto contenti perché è in atto uin movimento di lingua antirestuarativa terragna di cui TIZIANO SCARPA (cerasuolo che con arguzia interviene su linee fastweb da venezia e si annoia come simpatico falso melloni sulle linee tiscali da milano, però giustamente odia i nickname perché restaurativi!!!!) è l’iniziatoere ultimo! NASCE UN MOVIMENTO CHE LI SPAZZERA’ VIA, E’ IL NUOVO PDUP DELL’ANTIRESTAURAZIONE ORA ANHCE IN VIDEO!!!!!

  23. ripeto che la notorietà dei wuming data dalla promozione su Q. a partire da una notorietà, come dire, mainstream, ha poi efficacia qualunque altra iniziativa. mentre *senza* quel punto di partenza le cose sono – è evidente – molto, molto diverse. questo è il punto.
    che nessuno si ricordi degli articoli su Q è chiaramente del tutto ininfluente: il fatto è che il “lancio” avviene sui media tradizionali; poi, se il “lanciato” non è una bolla di sapone e se ha la capacità di gestirsi, può far durare a lungo l’inerzia iniziale. niente di nuovo.
    il che non significa escludere l’influenza del web, né le sue potenzialità; significa solo che il caso wuming non è esemplificativo di queste potenzialità, fino a prova contraria.

  24. Lucio, su questo non ci piove. L’ho detto che bisogna lavorare sodo, la rete non conta nulla se non la sai usare, e in giro vedo troppa gente crogiolarsi nella sua incapacità.
    Paolo: ribadisco che quando Q è uscito, i media ne hanno parlato perché era un caso, era il libro “di Luther Blissett”, e Luther Blissett si era affermato con le proprie forze grazie all’uso della rete (delle reti), compiendo azioni eclatanti e conquistando le prime pagine dei quotidiani in qualità di caso di “guerriglia che parte dal web”, senza avere alcun tipo di rapporto con editori tradizionali. I nostri libri (piccoli best-seller underground, come “Mind Invaders”, che aveva venduto 5000 copie) erano usciti per editori come Castelvecchi e AAA. Tu comunque pensala come vuoi, it’s a free country 🙂

  25. non ho detto niente che contraddica questo tuo ultimo post.
    una cosa semmai la aggiungo ora: ricordo bene che Luther Blissett aveva acquisito notorietà attraverso alcune sue iniziative provocatorie, anch’esse amplificate dai media tradizionali; e non attraverso la rete. è semplice memoria storica da un punto di osservazione non coinvolto. non capisco perché tu la neghi.

  26. Io non la nego per il gusto di negarla, semplicemente mi ricordo bene come andarono le cose e quindi faccio precisazioni che ritengo non solo utili, ma anche necessarie.
    Luther Blissett fu lanciato nel ’94 con un mass mailing su ECN e Fidonet.
    Il network di Luther Blissett si organizzava sulle BBS.
    La beffa a “Chi l’ha visto?” fu coordinata tramite ECN.
    Il primo sito web italiano dedicato a Luther Blissett risale al ’95 e l’url era http://www.pengo.it/luther.
    Blissett era talmente associato al nascente web che Genna intitolò il suo libro “net.gener@tion”.
    La maggior parte degli articoli su LB usciti sui quotidiani facevano riferimento a Internet come luogo di coltura del multiple name.
    Questi sono fatti, non è una polemica gratuita. C’è chi ha investito sulle specificità della rete fin da subito, e ha “sedimentato” un patrimonio di saperi e tattiche comunicative. Tutto qui.

  27. anzi, a dire il vero non lo neghi: “Luther Blissett si era affermato con le proprie forze grazie all’uso della rete (delle reti), compiendo azioni eclatanti e conquistando le prime pagine dei quotidiani”

  28. ho capito; e chi nega che l’elaborazione di tutto ciò sia avvenuta in rete? però la notorietà da cui viene il battage di Q e le relative vendite viene solo dalle azioni provocatorie.
    se quelle azioni le aveste elaborate al bar all’angolo non sarebbe stato diverso. dai retta ad un ex giornalista.

  29. un dubbio su tutti,premettendo che l’idea potrebbe essere buona e funzionale,chi ci salverà da tutti coloro che si inventano scrittori e invaderanno il web e non solo con una marea di inutili parole?

  30. No.
    Quelle azioni non sarebbero state realizzabili e nemmeno pensabili fuori da quel contesto, un contesto in piena e rapida trasformazione grazie all’irruzione di nuove tecnologie, con tutte le loro peculiarità.
    Mi sa che ti sfugge il punto.
    Qui si stava parlando delle potenzialità della rete, io ho spiegato come cerchiamo di sfruttarle noi, tu hai spostato la discussione sul fatto che noi siamo diventati famosi grazie ai media tradizionali.
    Ma la “fama” di cui parli (l’anno è il 1999) fu la *conseguenza* di un lavoro quasi decennale nelle reti, lavoro che in seguito è proseguito, mutatis mutandis.
    “Rimbalzammo” sui media tradizionali grazie al nostro “essere rete nelle reti”. Non erano tanto le azioni – che pure colpivano la fantasia di lettori e addetti ai lavori – quanto l’inedito contesto, un contesto “reticolare”, orizzontale (all’epoca andava di moda l’espressione “rizomatico”), di scambio “peer to peer” (all’epoca quest’espressione in Italia non si usava, sarebbe stato Napster a introdurla nel lessico quotidiano). La firma collettiva, il personaggio immaginario, il network auto-organizzato che “usava Internet” in modo strano, in un periodo in cui in Italia imperversava l’analfabetismo informatico.
    L’icona del network era il volto di Blissett, un morphing di diverse facce che in pochissimo tempo si diffuse in rete in modo virale, salvato e ripubblicato un po’ ovunque sul pionieristico web di quei giorni.
    Io non nego affatto l’importanza *cruciale* del battage su Q (si badi bene: un battage conqustato dal basso), ma quel lancio non è comprensibile senza la rete.
    Inoltre, nessun battage è sufficiente a creare un long-seller. Per quello bisogna continuare a lavorare, a sbattersi. Altrimenti un successo editoriale non è che un fuoco di paglia, cfr. “Vogliamo i pantaloni”.
    Il passaparola di oggi è certamente *anche* conseguenza sul lungo periodo di quel battage, ma si autoalimenta soprattutto grazie alla rete e alla nostra possibilità di fare a meno dei media tradizionali, possibilità che ci siamo costruiti mattone dopo mattone.
    Ora che ho chiarito, spero che almeno sulle basi del discorso tu sia d’accordo.

  31. Wu Ming: interessanti i dati che hai raccontato relativi al vostro impegno. Mi autorizzi a fare quattro conti per arrivare a un valore ipotetico?
    Buona serata. Trespolo.

  32. si parlava delle potenzialità della rete; tu hai fatto l’esempio di The Thing; qualcuno ha detto che le vendite di The Thing non fanno testo in questo perché ‘viaggiano’ col marchio WuMing; io ho aggiunto che il ‘marchio’ nasce dalla promozione di Q sui media tradizionali. ecc.
    ok? non ho ‘spostato la discussione’, argomentavo solo che il vostro caso non è un esempio di sfruttamento riuscito delle potenzialità della rete.
    per il resto, tu dici che siete rimbalzati sui giornali per via del vostro lavoro sulle reti; io dico che è stato solo per gli happening provocatori (per la novità degli).
    può essere che la sola attività sulle BBS e Fidonet vi avrebbe dato ugualmente un’eco di stampa sufficiente ad un buon battage, al momento della “scoperta” del web da parte dei media; ma non si può dire.
    in ogni caso oggi non vedo analoghe possibilità; non escludo, ma finché non vedo il preventivo di bilancio non ci credo.
    (oggi non ho da fare una mazza, non so se si nota)

  33. Si nota, si nota… 🙂
    Per l’ultima volta e poi basta, faccio notare che la natura di quelli che chiami “happening” (atti di mitopoiesi, dicevamo noi in modo poco “pop”) derivava dalla natura del progetto, la quale derivava dalla natura degli scambi che avvenivano tra noi, i quali non sarebbero stati possibili senza la rete.
    Il marchio “Wu Ming”, tra l’altro, non può in alcun modo derivare per linea diretta dal lancio di Q, dato che Q NON era firmato “Wu Ming” bensì “Luther Blissett”, e per ovvi motivi il marchio “Wu Ming” non fu mai menzionato in quei giorni (ancora non esisteva). “Wu Ming” si è fatto un “nome” nel periodo 2000-2001, grazie soprattutto a Giap. Molti si iscrivevano a Giap senza nemmeno sapere che eravamo gli stessi di Q.
    Chiedi a qualunque operatore del settore se considera “normale” che un libro non recensito – se non addirittura ostracizzato dai media tradizionali – venda oltre ventimila copie in due mesi. Ti dirà che non è possibile, invece lo è, e non certo perché sei anni prima è uscita qualche intervista a uno degli autori, per giunta relativa a un libro firmato con un altro pseudonimo.
    Mi fermo qui.

  34. Se i wuminghi non sono un esempio di “sfruttamento riuscito delle potenzialità della rete”, io non so cos’altro possa esserlo. Una newsletter in italiano con 8000 iscritti, altre tre newsletter in inglese, spagnolo e portoghese, un sito multilingue, cinque diversi feed, un’audioteca on line, tutti i loro libri scaricabili gratis, un dibattito continuo coi loro lettori (NT ha anche un forum dedicato), i cosidetti “communal projects”, un e-book come “La prima volta che ho visto i fascisti” scaricato da qualcosa come quattordicimila persone… Nessun altro scrittore italiano si sta muovendo a quel livello, almeno mi sembra di no. Sono arrivati a una condizione in cui possono FARE A MENO dei giornali.

  35. Wu Ming1: pane al cane e vino al tino, cosa cambia, ai fini di un vendibilissimo esotismo autorale, tra firmarsi Luther Blisset e Wu Ming, una volta che i libri siano “all’altezza” della risonanza creata intorno a essi?

  36. Lucio, non è questione di “esotismo”. Noi siamo un gruppo, e da che mondo è mondo i gruppi hanno un nome di gruppo (Coldplay, Radiohead, Le Orme, Litfiba, The Platters, i Brutos, le Vibrazioni, gli Skiantos, le Bangles…)
    Quanto al resto: quando dopo il successo di Q abbiamo cambiato nome (il famoso “Seppuku” del LBP), gli editori si sono messi le mani nei capelli: “Ma come, lavorate un anno per creare un marchio, riuscite a imporlo e subito dopo ve ne liberate?”
    Noi siamo riusciti a far loro capire che avevamo una strategia ben precisa.
    Dovevamo tesaurizzare il successo di Q in modo non prevedibile, guerrigliero, immaginifico, in modo da non dipendere dai titoli di giornale, e non essere un fuoco di paglia.
    E mi pare che ce l’abbiamo fatta.
    Bon, per oggi basta, vado alla riunione.

  37. Io resto di un’idea semplice, ma che secondo me è l’unico metro in grado di aiutarci a capire: quello che conta è la qualità. se un prodotto è di qualità, merita se no, è inutile “pomparlo”, anzi diventa controproducente. Che sia la rete a farlo (e lo fa spesso) cambia poco. Ritengo infatti che molta letteratura odierna, spesso molto pubblicizzata dalla rete, non solo dai canali ufficiali, sia, con un po’ di pasoliniano “buon senso”, di scarsa qualità. E che sia un po’ la spia di un periodo in cui libri, inteso nel senso di romanzi, di qualità scarseggi. Per non parlare della saggistica: praticamente inesistente. E la saggistica è la linfa della letteratura: se non c’è critica, non c’è romanzo di qualità, ci si ferma appunto (e ci si è fermati da tempo) all’intrattenimento, come detto. E allora spesso a tutti i costi si cerca di vedere qualche luce anche dove ce n’è poca. Prendiamo il caso da te citato di “Scirocco” di De Michele. Mi sembra un libro mediocre. Eccessivamente lungo, per una trama costruita e tirata in lungo troppo forzatamente e con pretese omnicomprenisve assurde: sembra volerci spiegare tutto dalla strage di piazza fontana a oggi. pescando un po’ qua e un po’ là dalla controcultura degli anni settanta a quella degli hacker. troppo, e troppo poco allo stesso tempo: nel senso che la trama, la storia in sè, è veramente poca cosa. Si vede chiaramente che l’autore voleva parlare del contesto, arricchendolo di mille riferimenti, ma tutto ciò finisce per avere un sapore prettamente autoreferenziale. Ecco, la rete molto spesso ha finito per osannare prodotti di questo tipo. Prodotti mediocri, dal mio punto di vista. Concludendo: non penso sia un problema di elite versus popolarità, ma di qualità versus non qualità. E oggi, comunque la si volgia prendere, la qualità non è eccelsa. Per questo trionfa l’intrattenimento e la letteratura, m anche la cultura, che in molti spregiate definendo “d’elite”, pare inesistente. In realtà quella che manca come l’acqua nel deserto è un po’ di qualità. Una volta sulle pagine del corriere si rispondevano e si attaccavano anche pesantemente i Pasolini e i Calvino. E non era cultura d’elite. Marcovaldo era cultura d’elite? Ragazzi di vita era cultura d’elite? No.
    Autet

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