I CALL CENTER DEI TRADUTTORI

Non mi sono impigrita, dal momento che per due giorni di seguito posto un altrui intervento: è che questo articolo di Eva Milan, da Megachip, mi è stato giustamente segnalato, e ve lo riporto integralmente.

Quando si parla di lavoro precario, nella maggioranza dei casi si
parla soprattutto, giustamente, dei lavoratori dei call center, dei
ricercatori, dei precari statali e della sanità, ma si trascura spesso
la condizione di una categoria di lavoratori dei “saperi” e della
cultura che operano in special modo nei settori dell’editoria e dello
spettacolo che meriterebbe un vero e proprio grido d’allarme,
denunciando lo stato di degrado in cui è sprofondato l’intero panorama
culturale. Per qualche misteriosa ragione, noto che tale grido
d’allarme stenta a levarsi e, al contrario, c’è quasi l’impressione di
una sorta di “omertà” in certi ambienti, che non denoterebbe soltanto
una scarsa attenzione verso l’importanza del patrimonio culturale, ma
in modo più preoccupante una sorta di “ricatto” implicito, per cui gli
stessi lavoratori del settore si autocensurano per paura di perdere il
loro già molto precario impiego. Inoltre, in modo specifico, il
sospetto è anche che tale denuncia andrebbe a colpire una parte del
settore cosiddetto “indipendente” dell’editoria, formato da medi e
piccoli editori, su cui forse una parte della “sinistra” e dei media
indipendenti tende a chiudere un occhio. Un sospetto del tutto
personale, tengo a precisare.

Mi limiterò a descrivere la situazione nel settore della traduzione,
in base alla mia esperienza diretta e indiretta, che credo sia
esemplificativa e nella quale anche altre categorie di professionisti
“free-lance” potranno certamente riconoscersi.

Quella del traduttore è una figura complessa e spesso sottovalutata.
Un traduttore non è qualcuno che semplicemente conosce una lingua
straniera, ma che “sa tradurre” anche grazie al fatto di aver acquisito
una competenza linguistica attraverso la conoscenza approfondita, lo
studio o un’esperienza specifica in uno o più determinati settori che
vanno al di là della semplice traduzione letterale, ad esempio in campo
medico, scientifico, politico, mediatico e giornalistico, commerciale,
sociologico, informatico, letterario/poetico, artistico, etc..

Inoltre, condizione essenziale per poter svolgere l’attività di
traduttore è quella di conoscere perfettamente la propria lingua madre,
anche nei campi di traduzione specifici che gli competono.
Nell’immaginario collettivo, la figura del traduttore è inquadrata come
libero professionista, e così a mio modesto parere dovrebbe essere. In
realtà tale figura professionale non è stata ancora in tal senso
riconosciuta, e nella maggior parte dei casi, essa si può benissimo
collocare nella categoria dei “lavoratori a progetto”, e in qualche
caso anche nelle tanto discusse definizioni di “lavoratori subordinati
o para-subordinati”.

E’ noto altresì che in base alla legge sul diritto d’autore, il
traduttore godrebbe di tale diritto. Ma nella realtà questo viene
sempre ceduto attraverso una clausola contenuta nella lettera di
incarico di volta in volta proposto dall’editore (vedi: http://www.aiti.org/leggeDA.html ).

E veniamo ai compensi. Se il traduttore fosse realmente un libero
professionista, dovrebbe poter concordare con l’editore il proprio
compenso in base alla propria tariffa (vedi: http://www.aiti.org/condizioni.ht m l
) Ma anche qui, la realtà non coincide. Quello che invece normalmente
accade è che a stabilire la tariffa e i tempi di consegna e a indicare
parametri e strumenti di lavoro è l’editore. Inoltre, mentre una volta
si poteva far riferimento agli standard indicati dalle associazioni di
categoria, tali tariffari sono stati soppressi in ottemperanza alla
Legge 287/90 a seguito di procedura dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato. (vedi Statuto AITI-Liguria, Articolo 20. Funzioni del Consiglio Direttivo Nazionale : http://www.aiti-liguria.org/statuto.html )

Ciò che ne consegue è la giungla. Il mercato delle traduzioni
nell’editoria si è involuto in un gioco al ribasso, in cui mediamente
il traduttore professionista è costretto ad accettare tariffe sempre
più basse, potremo definirle tranquillamente “da fame”; il traduttore
non ha alcun potere contrattuale e alcun diritto sulla propria
traduzione (che può essere modificata in qualunque momento da un
correttore di bozza probabilmente anch’egli precario e senza competenze
di traduzione), non ha voce in capitolo sui tempi di traduzione e deve
rispettare ritmi di consegna massacranti; si ritrova in pratica a
svolgere un lavoro altamente specializzato posto sullo stesso piano
economico di uno studente universitario o neo-laureato in lingue privo
di esperienza di traduzione professionale che venga assunto
saltuariamente secondo la legge dell’“abbattimento dei costi”.

Spesso, oltre a dover accettare compensi scandalosi (per fare un
esempio pratico, capita anche di dover tradurre un’opera di una certa
consistenza e grado di difficoltà, per una rinomata e fiorente casa
editrice “alternativa”, per cui si richieda la consegna in un massimo
di tre 3 mesi, lavorando circa 12 ore al giorno senza riposo
settimanale, per guadagnare un totale di 1800 euro lorde, ovvero circa
600 euro lorde al mese!), il traduttore deve anche sottostare
all’attesa di alcuni mesi “di buco” tra un progetto e l’altro. Questo
perché qualora si collabori più o meno continuativamente con un editore
(con in media un mese o due di intervallo tra un progetto e l’altro),
se si accettasse nel frattempo l’incarico da un altro editore che
potrebbe accavallarsi con un successivo incarico del “cliente
abituale”, non solo si rischierebbe di perdere uno dei due incarichi,
ma ad eventuale oltraggioso rifiuto seguirebbe difficilmente un’altra
offerta. Vale a dire, vieni punito per alto tradimento e perdi il
prezioso “cliente abituale”, che è l’unico che ti aveva offerto più o
meno continuativamente uno straccio di lavoro. In pratica, in molti
casi il traduttore si trova a dover restare a completa disposizione di
un solo “committente”, a doverselo “tenere stretto”, e questo comporta
almeno una media di quattro mesi di inattività in un anno (nei casi più
fortunati).

Potrei raccontare di peggio. Potrei raccontare di chi ha perso per
sempre il lavoro di traduttore poiché i ritmi massacranti davanti al pc
hanno causato ernie del disco e invalidità permanente che impediscono
il proseguimento della professione, e senza che tale invalidità
professionale possa mai essergli riconosciuta. E di chi, per problemi
di salute, ha perso il suo “cliente abituale” per aver consegnato con
alcuni giorni di ritardo una volta in anni di collaborazione. O di chi,
avendo scoperto che la propria traduzione era stata pubblicata a suo
nome in una versione totalmente riveduta e risultante in una qualità
scadente, ha perso il suo “cliente abituale” dopo quattro anni di
collaborazione e tante lodi, solo per aver espresso osservazioni di
ordine tecnico sulla traduzione rivisitata. O di chi, per essersi
rifiutato di svolgere mansioni extra non pagate e non previste
dall’incarico e dagli accordi precedenti, ha perso il suo “cliente
abituale”.

Ma anche di chi ha rinunciato spontaneamente a praticare tale
professione a cui aveva dedicato anni di studio, lavoro e passione per
non sottoporsi più al calpestìo della propria dignità di persona e
smettere di partecipare a questo gioco di sfruttamento.

Ovviamente, non sto parlando di tutti quegli ottimi professionisti
che lavorano ormai da anni presso i loro grandi “clienti abituali”, che
sono ben trattati e soddisfatti del loro rapporto di lavoro, ma solo di
tutti gli altri ottimi professionisti sfigati.

La cosa che vorrei far notare è che non stiamo parlando di grandi
multinazionali o di grandi gruppi editoriali. Non solo. Ciò che si
dovrebbe sapere è che tra coloro che più concorrono alla creazione di
questo sfruttamento selvaggio (non saprei come altro definirlo), vi
sono medi o piccoli editori che si definiscono o vengono considerati
“etici”, “alternativi”, “indipendenti” o…. “di sinistra”. Che
pubblicano libri sul precariato, o sulle malefatte delle multinazionali
nel terzo mondo. O sui pericoli del neoliberismo.
Non intendo certo demonizzare la categoria in toto, e non dubito che ci
saranno tra questi molti esempi positivi, ma quello che ho raccontato è
stata purtroppo la mia esperienza e di altri colleghi.

Oltre alla condizione precaria dei lavoratori dei saperi e della
cultura, bisognerebbe riflettere sulla qualità delle opere che vengono
realizzate e pubblicate grazie a questo stato di cose. Qualità che
nella corsa al mercato perde ogni e qualsiasi valenza. Viviamo in un
mondo in cui anche l’arte e i valori della civilità divengono
spazzatura buona per essere riciclata dai pubblicitari, un mondo in cui
la cultura perde di valore in modo proporzionale al valore attribuito
alla passione e al lavoro di un uomo. E se questa cultura è il prodotto
di ciò che l’umanità è diventata, allora forse all’umanità sta bene
così.

62 pensieri su “I CALL CENTER DEI TRADUTTORI

  1. “Inoltre, se percepisce soldi l’autore, come mai la traduzione, che è un lavoro di ri-scrittura e ri-facimento dell’opera, dovrebbe avvenire gratis?”
    Che poi certe volte capita anche di dover correggere le sviste dell’autore (tipo un personaggio che nel terzo capitolo ha i capelli neri, nel quarto misteriosamente biondi e nel quinto di nuovo neri – e senza essere neanche andato dal parrucchiere… e succede più spesso di quanto si pensi).

  2. Si dovrebbe parlare anche della logica degli stage che spesso conduce al crumirato; lo stagista di solito prepara il posto a un altro stagista, e diventa lui stesso vittima di un gioco in cui l’editore/azienda tiene sempre il coltello dalla parte del manico. E questo vale al di fuori anche dei lavori editoriali o cognitivi: ormai ci sono pizzaioli assunti come liberi professionisti, che si fanno stagioni di lavoro come stagisti. Dovremmo ridiscutere la flessibilità e la precarietà in toto: senza pensare che i traduttori siano solo degli autori sfigati. Traduttori ancora uno sforzo…direbbe Sade.

  3. da profana di qualsiasi traduzione:
    dichiaro in codesto loco il mio sconfinato amore per i traduttor* dei libri di Tom Robbins.
    Dovrei alzarmi per andare a prendere i tomi in modo da citarli, ma da questa pigrizia non mi schioda nessuno.
    Dopo averli letti, più o meno tutti, mi sono detta che una grossa fetta del lavoro è sicuramente merito dei traduttori. Se non sei veramente bravo col cavolo che riesci a tradurre quel ‘fraseggiare’ del buon Tom.
    Una buona traduzione è fondamentale in un bel pò di romanzi e a..anche in qualche manuale di istruzioni 🙂
    Ben vengano i nomi dei traduttori e anche salari giusti e non ‘da fame’.
    besos

  4. riporto dal blog dei traduttori che avevo citato: http://www.transnext.info/?p=53
    Qualche giorno fa è uscito un chiarissimo articolo di Eva Milan sui meccanismi che precarizzano il lavoro di traduzione. Oltre a descrivere in modo vivido la quotidianità della vita di traduttor*, parla anche del destino delle traduzioni nel vortice della precarietà di tutto il lavoro editoriale senza ricadere in trite autocommiserazioni. Interessante anche il dibattito che ne è derivato su Lipperatura.
    Peccato che l’articolo ignori del tutto il fatto che le lotte contro il precariato si spingono, e non da poco tempo, ben oltre la rivendicazione dei diritti degli operatori dei call center e che nel dibattito che ne è seguito non si accenni mai all’idea che le lotte contro il precariato non si fanno per singole categorie di lavoratori.
    Segue una breve risposta della Milian
    va da se che condivido: le lotte contro il precariato non si fanno per singole categorie di lavoratori

  5. precisazione:
    quel va da se condivido:ecc
    è una mia considerazione, la risposta della Milian non è riportata, se volete leggerla andate sul blog linkato
    besos

  6. Hilia Brinis, Francesco Franconeri, Bernardo Draghi. Onore (e spero pilla) al loro monumentale lavoro di traduzione dell’inarrivabile eleganza e leggerezza di Tom Robbins. Peraltro il mio scrittore preferito.

  7. sembrerebbe,ricordando “la vita agra” di Bianciardi,che la stasi regni nell’evoluzione della considerazione sociale ed economica dei traduttori.Basterbbe che con spirito di corpo si proclamasse uno sciopero di due anni per sprovincializzare editori che finalmente comprenderebbero quanto poco basti una mera specializzazione in lingue estere spurgata d’esperienza e intuizione creativa.Restano comunque nell’aria i miei sospetti che in qualche caso il lavoro di traduzione non sia così certosino e si limiti ad aggiornare ai tempi vecchi lavori altrui
    p.s.(OT) scrissi tempo fa su internetbookstore una critica a New Thing( proditoriamente recuperato in un presidio pubblico dedicato a tal uopo)misteriosamente mai apparsa,in cui enumeravo pregi e utilità per Back-Up e rielaborazioni di storia contemporanea

  8. La cosa bella di questo post sui traduttori è che a portare avanti la discussione siano soprattutto dei lettori – che riconoscono il valore di una buona traduzione e come, in sostanza, il traduttore abbia davanti a sé un compito spesso improbo, da ogni punto di vista – mentre i traduttori intervenuti saranno stati sei o sette, se non ricordo male. E anche questo, a mio avviso, la dice lunga sullo stato della situazione all’interno del corpo dei traduttori. Perché, questo è un blog che tutto sommato gode di ottima visibilità ed è, credo, seguito con assiduità anche da una buona fetta di addetti ai lavori. Quindi, se dall’interno della compagine traduttoriale c’erano delle proposte precise da avanzare, o comunque delle linee di ragionamento da portare a conoscenza di un pubblico più ampio e vario che non quello di mailing list e incontri pubblici di traduttori, magari sarebbe stato opportuno che qualcuno se ne fosse fatto interprete (perché, d’altra parte, credo che la notizia del post in questione sia circolata, quindi la scusa del non essere a conoscenza della cosa non regge più di tanto), se non altro per ampliare la discussione e sentire una gamma di opinioni più differenziata e completa. Perché sarà anche vero che certi discorsi vanno affrontati nelle sedi ufficiali competenti, a livello nazionale ed europeo (non so essere più preciso, ma so che esistono dei tavoli dove si discute di queste cose, per lo meno a livello di diritto d’autore, reprografia e simili), però non guasterebbe se qualcosa di questo trapelasse anche fuori, se non altro per tastare gli umori di un pubblico più generale e, eventualmente, cogliere qualche spunto utile da un dibattito così avviato. E poi, tutto può far brodo, no? (Spero solo, con questo commento, di non attirarmi le ire esagerate di qualche collega, anche perchè credo di non aver detto nulla di fuori le righe: sono soltanto partito da una constatazione oggettiva e espresso una mia pacata opinione al riguardo.)

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