Non mi sono impigrita, dal momento che per due giorni di seguito posto un altrui intervento: è che questo articolo di Eva Milan, da Megachip, mi è stato giustamente segnalato, e ve lo riporto integralmente.
Quando si parla di lavoro precario, nella maggioranza dei casi si
parla soprattutto, giustamente, dei lavoratori dei call center, dei
ricercatori, dei precari statali e della sanità, ma si trascura spesso
la condizione di una categoria di lavoratori dei “saperi” e della
cultura che operano in special modo nei settori dell’editoria e dello
spettacolo che meriterebbe un vero e proprio grido d’allarme,
denunciando lo stato di degrado in cui è sprofondato l’intero panorama
culturale. Per qualche misteriosa ragione, noto che tale grido
d’allarme stenta a levarsi e, al contrario, c’è quasi l’impressione di
una sorta di “omertà” in certi ambienti, che non denoterebbe soltanto
una scarsa attenzione verso l’importanza del patrimonio culturale, ma
in modo più preoccupante una sorta di “ricatto” implicito, per cui gli
stessi lavoratori del settore si autocensurano per paura di perdere il
loro già molto precario impiego. Inoltre, in modo specifico, il
sospetto è anche che tale denuncia andrebbe a colpire una parte del
settore cosiddetto “indipendente” dell’editoria, formato da medi e
piccoli editori, su cui forse una parte della “sinistra” e dei media
indipendenti tende a chiudere un occhio. Un sospetto del tutto
personale, tengo a precisare.
Mi limiterò a descrivere la situazione nel settore della traduzione,
in base alla mia esperienza diretta e indiretta, che credo sia
esemplificativa e nella quale anche altre categorie di professionisti
“free-lance” potranno certamente riconoscersi.
Quella del traduttore è una figura complessa e spesso sottovalutata.
Un traduttore non è qualcuno che semplicemente conosce una lingua
straniera, ma che “sa tradurre” anche grazie al fatto di aver acquisito
una competenza linguistica attraverso la conoscenza approfondita, lo
studio o un’esperienza specifica in uno o più determinati settori che
vanno al di là della semplice traduzione letterale, ad esempio in campo
medico, scientifico, politico, mediatico e giornalistico, commerciale,
sociologico, informatico, letterario/poetico, artistico, etc..
Inoltre, condizione essenziale per poter svolgere l’attività di
traduttore è quella di conoscere perfettamente la propria lingua madre,
anche nei campi di traduzione specifici che gli competono.
Nell’immaginario collettivo, la figura del traduttore è inquadrata come
libero professionista, e così a mio modesto parere dovrebbe essere. In
realtà tale figura professionale non è stata ancora in tal senso
riconosciuta, e nella maggior parte dei casi, essa si può benissimo
collocare nella categoria dei “lavoratori a progetto”, e in qualche
caso anche nelle tanto discusse definizioni di “lavoratori subordinati
o para-subordinati”.
E’ noto altresì che in base alla legge sul diritto d’autore, il
traduttore godrebbe di tale diritto. Ma nella realtà questo viene
sempre ceduto attraverso una clausola contenuta nella lettera di
incarico di volta in volta proposto dall’editore (vedi: http://www.aiti.org/leggeDA.html ).
E veniamo ai compensi. Se il traduttore fosse realmente un libero
professionista, dovrebbe poter concordare con l’editore il proprio
compenso in base alla propria tariffa (vedi: http://www.aiti.org/condizioni.ht m l
) Ma anche qui, la realtà non coincide. Quello che invece normalmente
accade è che a stabilire la tariffa e i tempi di consegna e a indicare
parametri e strumenti di lavoro è l’editore. Inoltre, mentre una volta
si poteva far riferimento agli standard indicati dalle associazioni di
categoria, tali tariffari sono stati soppressi in ottemperanza alla
Legge 287/90 a seguito di procedura dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato. (vedi Statuto AITI-Liguria, Articolo 20. Funzioni del Consiglio Direttivo Nazionale : http://www.aiti-liguria.org/statuto.html )
Ciò che ne consegue è la giungla. Il mercato delle traduzioni
nell’editoria si è involuto in un gioco al ribasso, in cui mediamente
il traduttore professionista è costretto ad accettare tariffe sempre
più basse, potremo definirle tranquillamente “da fame”; il traduttore
non ha alcun potere contrattuale e alcun diritto sulla propria
traduzione (che può essere modificata in qualunque momento da un
correttore di bozza probabilmente anch’egli precario e senza competenze
di traduzione), non ha voce in capitolo sui tempi di traduzione e deve
rispettare ritmi di consegna massacranti; si ritrova in pratica a
svolgere un lavoro altamente specializzato posto sullo stesso piano
economico di uno studente universitario o neo-laureato in lingue privo
di esperienza di traduzione professionale che venga assunto
saltuariamente secondo la legge dell’“abbattimento dei costi”.
Spesso, oltre a dover accettare compensi scandalosi (per fare un
esempio pratico, capita anche di dover tradurre un’opera di una certa
consistenza e grado di difficoltà, per una rinomata e fiorente casa
editrice “alternativa”, per cui si richieda la consegna in un massimo
di tre 3 mesi, lavorando circa 12 ore al giorno senza riposo
settimanale, per guadagnare un totale di 1800 euro lorde, ovvero circa
600 euro lorde al mese!), il traduttore deve anche sottostare
all’attesa di alcuni mesi “di buco” tra un progetto e l’altro. Questo
perché qualora si collabori più o meno continuativamente con un editore
(con in media un mese o due di intervallo tra un progetto e l’altro),
se si accettasse nel frattempo l’incarico da un altro editore che
potrebbe accavallarsi con un successivo incarico del “cliente
abituale”, non solo si rischierebbe di perdere uno dei due incarichi,
ma ad eventuale oltraggioso rifiuto seguirebbe difficilmente un’altra
offerta. Vale a dire, vieni punito per alto tradimento e perdi il
prezioso “cliente abituale”, che è l’unico che ti aveva offerto più o
meno continuativamente uno straccio di lavoro. In pratica, in molti
casi il traduttore si trova a dover restare a completa disposizione di
un solo “committente”, a doverselo “tenere stretto”, e questo comporta
almeno una media di quattro mesi di inattività in un anno (nei casi più
fortunati).
Potrei raccontare di peggio. Potrei raccontare di chi ha perso per
sempre il lavoro di traduttore poiché i ritmi massacranti davanti al pc
hanno causato ernie del disco e invalidità permanente che impediscono
il proseguimento della professione, e senza che tale invalidità
professionale possa mai essergli riconosciuta. E di chi, per problemi
di salute, ha perso il suo “cliente abituale” per aver consegnato con
alcuni giorni di ritardo una volta in anni di collaborazione. O di chi,
avendo scoperto che la propria traduzione era stata pubblicata a suo
nome in una versione totalmente riveduta e risultante in una qualità
scadente, ha perso il suo “cliente abituale” dopo quattro anni di
collaborazione e tante lodi, solo per aver espresso osservazioni di
ordine tecnico sulla traduzione rivisitata. O di chi, per essersi
rifiutato di svolgere mansioni extra non pagate e non previste
dall’incarico e dagli accordi precedenti, ha perso il suo “cliente
abituale”.
Ma anche di chi ha rinunciato spontaneamente a praticare tale
professione a cui aveva dedicato anni di studio, lavoro e passione per
non sottoporsi più al calpestìo della propria dignità di persona e
smettere di partecipare a questo gioco di sfruttamento.
Ovviamente, non sto parlando di tutti quegli ottimi professionisti
che lavorano ormai da anni presso i loro grandi “clienti abituali”, che
sono ben trattati e soddisfatti del loro rapporto di lavoro, ma solo di
tutti gli altri ottimi professionisti sfigati.
La cosa che vorrei far notare è che non stiamo parlando di grandi
multinazionali o di grandi gruppi editoriali. Non solo. Ciò che si
dovrebbe sapere è che tra coloro che più concorrono alla creazione di
questo sfruttamento selvaggio (non saprei come altro definirlo), vi
sono medi o piccoli editori che si definiscono o vengono considerati
“etici”, “alternativi”, “indipendenti” o…. “di sinistra”. Che
pubblicano libri sul precariato, o sulle malefatte delle multinazionali
nel terzo mondo. O sui pericoli del neoliberismo.
Non intendo certo demonizzare la categoria in toto, e non dubito che ci
saranno tra questi molti esempi positivi, ma quello che ho raccontato è
stata purtroppo la mia esperienza e di altri colleghi.
Oltre alla condizione precaria dei lavoratori dei saperi e della
cultura, bisognerebbe riflettere sulla qualità delle opere che vengono
realizzate e pubblicate grazie a questo stato di cose. Qualità che
nella corsa al mercato perde ogni e qualsiasi valenza. Viviamo in un
mondo in cui anche l’arte e i valori della civilità divengono
spazzatura buona per essere riciclata dai pubblicitari, un mondo in cui
la cultura perde di valore in modo proporzionale al valore attribuito
alla passione e al lavoro di un uomo. E se questa cultura è il prodotto
di ciò che l’umanità è diventata, allora forse all’umanità sta bene
così.
finalmente. era ora che qualcuno dicesse chiaramente come stanno le cose. evviva.
aggiungo che la stessa situazione riguarda i redattori esterni e interni, i correttori di bozze…la mala-editoria italiana è un mondo sommerso a vantaggio dei “nobili” fini culturali degli editori. ma mi – e vi – domando: quale battaglia culturale vale persone sottopagate e ricattate? bella idea di sinistra. non si diventa migliori perché si leggono libri. si diventa migliori quando si trattano con equità e rispetto gli altri esseri umani. anche sul lavoro…
Oltre ai traduttori le piccole e medie case editrici tendono ad affidare all’esterno la maggior parte dei lavori che caratterizzano il processo editoriale (dall’editing alla correzione di bozze, dall’impaginazione alla grafica di copertina).
Così i collaboratori (precari) si riducono sempre di più.
Tutto giusto, e applicabile a moltissimi altri settori oltre a quello della traduzione. Però non ho letto la cosa più importante: i traduttori che cosa stanno facendo? si stanno organizzando in associazione (non uso la parola “sindacato” perché ormai sembra che sia troppo vetero)? stanno elaborando delle strategie collettive di difesa? hanno mai pensato a qualche forma di lotta, magari peculiare (dico peculiare perché non so se una cosa come lo sciopero, anche questa vetero, possa essere proponibile)?
Insomma, non è certo la modernità ad aver creato lo sfruttamento, anzi è da poco più di un secolo che questa parola ha trovato cittadinanza, da quando qualcuno ha provato a descriverne gli effetti e a cercare di elaborare forme di lotta e di difesa.
Io non sono un traduttore, ma sono iscritto a una mailing list di traduttori molto frequentata; be’, ogni volta che qualcuno manda un post con contenuti molto simili a quelli del pezzo di Eva Milan la moderatrice non si stanca di dire: su questo siamo tutti d’accordo, ma come mai dei quasi duemila iscritti a questa lista ce ne sono così pochi che partecipano attivamente, in un modo o nell’altro, alle iniziative che dovrebbero servire a cambiare qualcosa?
Intanto, per dire, giornali e riviste potrebbero iniziare a citare regolarmente i nomi dei traduttori. Il Venerdì di Repubblica è un pessimo esempio di questa mala pratica, perché non ne fa mai e poi mai menzione. Anzi, sembra quasi che i libri si traducano da soli. Sul numero di oggi, per esempio, ci sono due grossi articoli che parlano dell’ultimo romanzo di Eddie Bunker, Stark (tradotto da Cristiana Mennella) e dell’ultimo di Elmore Leonard, The Hot Kid (tradotto dal sottoscritto), ma del nostro nome non c’è traccia. Però c’è l’indicazione del numero di pagine; quella, è ovvio, non può mancare…
Sì (sottoscrivo Luca Conti) è cosa davvero squallida che il nome del traduttore non venga tradotto nelle recensioni.
Luca Conti, ben ritrovato. Dopo cento e più opere tradotte per editori grandi e piccoli, ne avrei anch’io un bel po’ da raccontare, ma sono in pieno trasloco… devo scappare. Ciao.
OT
Lucio,ma poi ci racconti come si trasloca a Venezia?
In gondoleta?
besos
Trovo molto di condivisibile nell’intervento: la sensazione generale che provo, da traduttore editoriale, è quella lì, così ben espressa da Eva Milan. Non che abbia vissuto sulla mia pelle esperienze disastrose (in linea di massima, anzi, credo di essere stato abbastanza fortunato nei miei rapporti con il mondo editoriale), ma il costante clima di precarietà e pressione e tensione e logorio si fa sentire dopo anni che lavori quasi sempre 12 ore al giorno, sette giorni su sette, tutte o quasi le sante settimane dell’anno. Così che tante volte finisci per dirti: “Ma chi me lo fa fare? Che cosa ci guadagno? La gloria?”.
Sul discorso sollevato da Giuseppe Ierolli – ossia, “i traduttori che cosa stanno facendo?” – non è che in questi ultimi anni non si sia fatto proprio nulla. Qualcosa sicuramente è fatto, e ancora si sta facendo. L’opera svolta dalle liste di discussione, per esempio, è stata importantissima per rompere la situazione di quasi totale isolamento dei traduttori che vigeva prima. E se penso alla “mailing list di traduttori molto frequentata” cui credo si alludesse nel commento, ossia Biblit (per inciso, premiata all’ultimo Mondello, nelle vesti della fondatrice e moderatrice Marina Rullo, con il premio speciale della giuria), questa ha anche fatto molto per cercare di allargare il discorso e sensibilizzare il mondo esterno, a partire dai giornali (troppo spesso rei, come segnalava Luca Conti, di indicare di un libro tradotto il numero delle pagine, il costo, ma non il nome del traduttore o più spesso della traduttrice). E sulla stessa linea, esemplare è anche il lavoro condotto da Ilide Carmignani con gli incontri dell’Autore Invisibile alla Fiera del Libro di Torino e con Le giornate della traduzione letteraria di Urbino, in collaborazione con Stefano Arduini. E, ancora, preziosa è da un paio di anni La Nota del Traduttore, al pari del sito del Tariffometro, come ottimi sono stati, su Radio 3, i tre cicli della trasmissione di Massimo Ortelio Una specie di follia. Il mestiere del traduttore, l’ultimo finito la scorsa settimana. E poi c’è stata la creazione della Sezione traduttori del Sindacato scrittori, così come è tornata probabilmente a vivacizzarsi Aiti. E tante altre iniziative ancora.
Insomma, non è che i traduttori non stiano facendo niente. Quello che ancora manca, forse, è un’identità di vedute o, perlomeno, una volontà di arrivare a una sintesi, a una sorta di simbiosi, a una messa in comune delle proprie esperienze in vista di un obiettivo più ampio, cercando magari anche delle alleanze strategiche con quelli che secondo me sono gli interlocutori primari, ovvero i redattori, i correttori di bozze e, più in generale, tutti quei “lavoratori dei saperi e della cultura” che condividono la situazione di precarietà ben descritta da Eva Milan.
non traduco, ma segnalo.
e questi?
gilda di traduttori radicali
http://www.transnext.info/blog/
http://www.carmillaonline.com/archives/2006/10/001968print.html
Con questo post inauguriamo TransNEXT, per cui abbiamo scelto il sottotitolo “Gilda di traduttori radicali”. Oltre che una gilda è però in realtà anche un collettivo d’idee in affinità, un laboratorio di traduzione sotto nome collettivo, un duetto di braccia rubate, quale più quale meno, alla cultura, due amici traduttori che, stanchi di svolgere a cottimo uno dei lavori più antichi e precari del mondo, hanno provato il salto.
etc….
besos
C’è però qualcosa che mi sfugge. Un ambiguità che mi colpisce sempre in questi discorsi.
Da un lato si sottolinea il lato creativo, dall’altro si fa una specie di discorso sindacale.
E allora però ci si chiede, ma se è creativo, se il traduttore è davvero l’autore invisibile, perché non si interroga sul fatto che all’autore visibile non verrebbe mai in mente di chiedere garanzie di questo tipo?
Se lo scrittore vende guadagna tot in diritti, se non vende non guadagna nulla.
Il traduttore vorrebbe una partecipazione ai diritti?
E se il libro vende trecento copie? Fame nera.
Dunque vuole un tanto a cartella, indipendentemente da quanto guadagnano l’autore e l’editore.
Tanto che a volte, sia pur mal pagato, guadagna più dell’autore poco venduto che ha tradotto, che forse non prende niente.
Io cercherei di chiarirmi anche queste idee.
Se un libero professionista che sta sul mercato vuole fare tariffe alte deve anche in qualche nodo “muovere il denaro”.
Se un traduttore pur bravissimo traduce un libro che non rende una lira, in quale voce del bilancio pensa che l’editore iscriverà i suoi costi?
Io credo che dicendo “traduttori” non si sia ancora detto niente: traduttori tecnici, traduttori editoriali, traduttori di poesia,
traduttori di filosofia
ecc. ecc. ecc.
Di quali traduttori si parla qui?
Un’ambiguità.
Alcor:
«Io credo che dicendo “traduttori” non si sia ancora detto niente: traduttori tecnici, traduttori editoriali, traduttori di poesia,
traduttori di filosofia
ecc. ecc. ecc.
Di quali traduttori si parla qui?»
E, infatti, come ho accennato alla fine del mio commento, dicendo che forse ancora manca una identità di vedute, il problema è che quella dei traduttori è una realtà molto ampia e diversificata, ed è così difficile trovare un punto d’intesa comune. Di solito, quando si parla di traduttore si sottintende “letterario”, ovvero quello che traduce in prevalenza narrativa (o al limite poesia e saggistica), ma accanto a questa categoria ce ne sono molte altre. Io, per esempio, da traduttore più che altro di articoli di giornale e di saggi, mi considero un “editoriale”, e come tale ho avuto molte resistenze interne ad aderire alla Sezione traduttori del Sindacato scrittori (tanto che, a differenza di molti miei ex colleghi di Biblit, non l’ho fatto), come pure trovo in qualche modo deleteria l’identificazione totale del traduttore (letterario) con un autore, specie se poi si vuole portare avanti un discorso sindacale. Insomma, almeno per come la vedo io, ci sono ancora molte cose da chiarire e da chiarirsi (io in primis).
Per quanto riguarda noi redattori, c’è da dire che questa precarizzazione della nostra professionalità (dovuta a un’esternalizzazione selvaggia) è cosa abbastanza recente. Ragioniamo quindi ancora da poco sulla nostra situazione di liberi professionisti costretti ad accettare la tariffa impostaci dalla casa editrice perché la legge della domanda e dell’offerta è troppo a nostro sfavore. A questo si unisca la guerra tra poveri che si scatena in uno scenario del genere: nell’altro si vede solo un concorrente temibie e mai un collega con cui provare a fare ragionamenti costruttivi per la nostra condizione.
Ma l’aspetto creativo e quello sindacale possono benissimo andare d’accordo, non vedo la contraddizione. Per esempio – e per parlare di un argomento extraletterario che conosco bene – nel Regno Unito esiste fin dal 1893 un sindacato musicisti, la Musicians Union, che è fortissimo e molto influente, e riesce a garantire ai suoi aderenti condizioni di lavoro più che dignitose. Non si capisce perché in Italia un traduttore, il cui apporto creativo è fondamentale per la riuscita di un libro, debba essere considerato l’anello debole della filiera produttiva editoriale.
A me, personalmente, una partecipazione ai diritti non interessa più di tanto, anche perché le cose finiscono sempre per bilanciarsi (e le nove edizioni della Sottile linea scura di Joe Lansdale, per quanto mi riguarda, vanno a pareggiare il conto di qualche altro libro da me tradotto che non ha smaltito neanche la prima tiratura). Altrimenti saremmo tutti quanti a fare a cazzotti per tradurre il Codice Da Vinci e compagnia bella, e si potrebbe dire addio a tutto quel che non è best seller.
Il problema è che per uno come me, che di sola traduzione potrebbe anche campare (se non dovesse fare i conti con un sistema editoriale che quando va bene ti paga a 60/90 giorni, e quando va male non ti paga proprio) c’è un sacco di gente che lavora sottopagata e peggio di un galeotto alla catena.
La struttura editoriale italiana si regge in piedi anche su questo grosso inganno: la traduzione è considerata nella gran parte dei casi un “fastidio necessario”, per il quale meno si paga, meglio è. E, soprattutto, la buona traduzione è considerata importante solo per i grossi autori, quelli della letteratura “seria”; per gli altri va bene anche una traduzione così così, “tanto poi si riaggiusta in redazione…” Salvo poi stupirsi quando certi autori, fatti tradurre per decenni al primo che capitava (e cito ancora il caso di Elmore Leonard, che è sintomatico), non vendevano un piffero mentre adesso, con una cura editoriale appassionata (la mia e quella di Wu Ming 1) si beccano le pagine sui giornali e sono riconosciuti per i grandi scrittori che sono.
“Ma l’aspetto creativo e quello sindacale possono benissimo andare d’accordo, non vedo la contraddizione.”
Dicci come, idee concrete sempre benvenute.
Ma la realtà musicale è molto diversa. Il musicista ha una professionalità precisa e, diciamo così, certificata che molti traduttori non hanno.
Molti traduttori sono episodici, casuali, occasionali.
Mentre a chi sa una lingua e scrive dignitosamente può esser chiesto di tradurre un libro, chi ha imparato a suonare il flauto alle medie nessuna orchestra se lo fila.
E’ un campo davvero spinoso.
“Mentre a chi sa una lingua e scrive dignitosamente può esser chiesto di tradurre un libro, chi ha imparato a suonare il flauto alle medie nessuna orchestra se lo fila.”
Be’, dubito che chi conosca l’inglese (e l’italiano) a livello di terza media possa riuscire a farsi pubblicare una traduzione. E come nessuna orchestra assumerà mai chicchessia senza uno straccio d’audizione, così una casa editrice dovrebbe chiedere a un traduttore di dimostrare le sue capacità con una prova di traduzione (ma una prova seria, intendo, non tante di quelle che si fanno ora). Voglio dire che secondo me l’accesso alla professione di traduttore va regolamentato, e non per difendere i (pochi) privilegi di chi già lavora nel settore, ma per garantire anche ai nuovi occupati una vita dignitosa e non sul filo del rasoio com’è quella attuale.
Bada bene, non intendo imporre una serie di requisiti formali o cartacei (lauree, master eccetera) che non necessariamente fanno il bravo traduttore; ma mi sembra ovvio che ci voglia una maggior selezione dal punto di vista qualitativo. Poi, però, a tale selezione devono anche corrispondere compensi e riconoscimenti adeguati.
In molti altri paesi i traduttori partecipano eccome, ai diritti: sono esplicitamente indicati nel colophon come proprietari della traduzione, Amazon e altri siti li indicano come co-autori (per cui “54” è di Wu Ming + Shaun Whiteside), e se non sbaglio possono pure beccarsi una percentuale sulle vendite (dipende dai contratti). In ogni caso, c’è più rispetto, almeno di facciata.
In Italia, invece, niente del genere. I traduttori sono liquidati in anticipo con un forfettaccio che, se va bene, è nominalmente riconosciuto come “diritto d’autore” (quindi s’avvantaggia di una ritenuta d’acconto meno gravosa), ma nulla più, e se va male è travestito da prestazione d’altro tipo.
Partecipano, sì, ma se il libro va male non è che ne cavino molto.
Almeno in Italia dopo vent’anni se vogliono ripubblicare il libro gli editori devono ricomprare i diritti dal traduttore.
Non è così dappertutto.
Quanto al paragone, mi tocca precisare? Non credo.
Tra l’altro certi libri sembrano tradotti proprio da chi ha competenze molto approssimative, di libri mal tradotti sono pieni i cataloghi e non credo di essere l’unica lettrice ad aver fatto quest’esperienza.
Cmq non voglio polemizzare, solo dire che la situazione non è semplice.
Se fosse facile e tutti i traduttori fossero interessati a un inquadramento del genere sarebbe stata risolta.
“Tra l’altro certi libri sembrano tradotti proprio da chi ha competenze molto approssimative, di libri mal tradotti sono pieni i cataloghi e non credo di essere l’unica lettrice ad aver fatto quest’esperienza.”
Ma proprio per questo è necessario provvedere a un riordino della professione, a tutti i livelli: dalle competenze professionali di chi traduce (e dall’aggiornamento professionale e culturale che è indispensabile per far bene questo lavoro) a quelle dei redattori di casa editrice, per finire con un trattamento economico e previdenziale che ti consenta di lavorare con la testa rivolta al libro che stai traducendo e non alle bollette che devi pagare a fine mese (e non sai come fare).
I libri mal tradotti esistono perché i traduttori bravi costano (ma sempre meno di quanto dovrebbero), e perché tanti traduttori sono costretti a lavorare in condizioni appena migliori di quelle dell’Inghilterra di Dickens.
E chi dovrebbe farlo, questo riordino?
E in base a quali criteri?
Su queste due domande casca già il palco, se ci pensi bene. Non è facile rispondere.
Alcuni dei traduttori letterari migliori, per esempio, non fanno stabilmente o solo i traduttori.
Che ne fai? Li escludi?
Li includi a forza?
Distingui tra traduttori letterari editoriali standard e traduttori letterari fuoriclasse?
Come ho detto, non è semplice. E’ un serpente che si mangia la coda.
L’AITI non comprende tutti i traduttori letterari, e spesso i non iscritti sono tra i migliori e più accreditati. Ci sarà pure una ragione.
Per essere più concreta, se oggi un Pavese volesse tradurre, cosa si dovrebbe fare? Inquadrarlo? Iscriverlo? Fargli passar l’esame?
E una volta che un certo numero non sta dentro, che forza ha la proposta?
Di tutto questo bisogna tener conto.
rinnovo la mia solidarietà verso i traduttori e i redattori editoriali. la vicinanza con i “mal salariati” di Dickens è perfetta. Il fatto è che se uno si rifiuta, ce ne sono altri 100 che bussano alla porta. l’editoria marcia su questo. e, scusate, oltre al fervore creativo esiste anche il lato “sindacale”, nella vita, perché non si mangia di sole passioni…
idem per i correttori di bozze, pagati malissimo. e ci scappa il refuso, ovviamente. insomma, ripeto, il mondo editoriale è selvaggio e andrebbe riorganizzato. dagli editori stessi, però. che dovrebbero pubblicare meno libri (si lamentano e poi stanno sempre a sfornare titoli)tutelare meglio chi lavora per loro…
C’è una cosa che difende i bravi professionisti. Si chiama “reputazione”. Il motivo per cui ci si aspetta che un avvocato o un medico noti per essere eccellenti guadagnino bene. E il motivo per cui un principiante ha un incentivo in più per cercare di raggiungere l’eccellenza.
Il problema (beh, non l’unico, ma uno dei problemi), coi traduttori, è che anche ai migliori mancano strumenti per costruirsi una reputazione che vada oltre la cerchia ristretta degli addetti ai lavori.
Il traduttore è invisibile.
Il tema al quale gli editori potrebbero essere sensibili è che anche il valore aggiunto da una buona traduzione resta, in questa maniera, invisibile. Eppure è un valore oggettivo, e nel medio periodo potrebbe essere incentivante anche in termini di vendite.
Mi spiego: non credo di essere l’unica a mollare in libreria un libro magari preso con interesse, se sfogliando a caso mi capita di leggere “bianche nubi si accavallavano correndo pazzamente nel nevoso cielo invernale” (ok, questa l’ho inventata, ma spero che dia l’idea), o “i ragazzi rigurgitavano enormi quantità di cibo” (questa è vera: un dolce ricordo materno, nel quale ovviamente i ragazzi “ingurgitavano”. E’ un testo Mondadori di qualche anno fa).
Se ho la garanzia di una buona traduzione, insomma, compro più volentieri.
Vengo al punto: è utopistico pensare che sui comunicati inviati ai librai e ai critici gli editori siano invitati a mettere due righe dedicate al traduttore e alla traduzione?
E’ utopistico chiedere, almeno ai critici più avveduti, che nelle recensioni si citi il nome del traduttore e si spendano un paio di righe per parlare del suo lavoro?
E’ utopistico immaginare che chi traduce testi di carattere scientifico venga citato con i titoli che qualificano la sua competenza specialistica (se “ingurgitare” viene scambiato con “rigurgitare” in un articolo tradotto da Lancet è un bel guaio)?
Queste tre piccole richieste circostanziate, se accolte anche solo da alcuni, non potrebbero già cominciare a cambiare un po’ le cose?
L’editore Meridiano Zero, nei risvolti dei libri che pubblica, mette due note biografiche: una dell’autore, l’altra del traduttore.
Sempre sul tema, un buon riepilogo della situazione lo forniva il 21 ottobre Giovanna Zucconi, su «La Stampa», nell’articolo Non tradite il traduttore. Poco pagato, molto criticato, sfruttato a cottimo: ma è un asceta o un dilettante?. Si può scaricare, in pdf, da questa rassegna stampa. Ne riporto giusto un breve passaggio: «In Italia più che altrove, siamo in mezzo a un guado: in una fase ibrida, fra l’epoca in cui la traduzione era un nobile passatempo per letterati (benestanti), e l’epoca invece della professionalità a ritmi quasi industriali. Per il momento, pare si prenda il peggio dalle due».
“L’AITI non comprende tutti i traduttori letterari, e spesso i non iscritti sono tra i migliori e più accreditati. Ci sarà pure una ragione.”
Be’, forse perché la schiacciante maggioranza degli iscritti ad Aiti sono traduttori tecnici e ovviamente le esigenze dei traduttori tecnici sono al centro della loro azione, rispetto a una componente minoritaria di traduttori editoriali. Differenza non da poco, se si tiene conto che diverso è anche l’inquadramento legislativo e fiscale, i primi “prestatori di servizi” soggetti alla disciplina Iva, gli altri inquadrati nella disciplina del diritto d’autore.
Va poi detto che i traduttori editoriali sono spesso restii all’associazionismo sindacale o di altro tipo, sia per la natura prevalentemente solitaria del loro lavoro (più facile sindacalizzarsi in un fabbrica o in un azienda) sia per uno spesso malinteso e deleterio snobismo intellettuale che li fa sentire “poveri ma artisti” ma certo non aiuta a pagare il mutuo.
Quanto ad eventuali scioperi, l’esperienza è stata tentata per esempio dai colleghi norvegesi (riuniti in un sindacato piuttosto ben organizzato), che dopo lunghe trattative con gli editori per arrivare a un contratto standard e a un equo compenso minimo, hanno recentemente adottato una forma di protesta quanto meno originale. I loro contratti (come la maggior parte dei nostri) prevedono la consegna delle traduzioni “in forma dattiloscritta”: hanno quindi sommerso le redazioni delle case editrici di plichi cartacei, pubblicizzando anche l’iniziativa con tavoli all’aperto (mi pare davanti alla sede del governo) in cui i traduttori battevano a macchina le traduzioni da consegnare poi agli editori, rigorosamente ed esclusivamente in forma cartacea a termini di contratto. Oltre a dare una spinta alle trattative, l’iniziativa ha contribuito a far conoscere le ragioni della loro vertenza e le condizioni di lavoro in cui operano – comunque migliori delle nostre.
In Italia l’iniziativa sindacale, per ora legata soprattutto alla Sezione traduttori del Sindacato Nazionale Scrittori (Aiti è un’associazione professionale e non un sindacato, mi pare), è relativamente nuova. Certo sarebbe un’utopia pensare di sindacalizzare l’intera categoria, come del resto è praticamente impensabile sindacalizzare totalmente qualunque altra categoria di lavoratori, ma certo una maggiore partecipazione dei traduttori editoriali ai temi legati più prosaicamente al lavoro e meno all’aspetto artistico della creazione letteraria aiuterebbe a pagare le bollette alla fine del mese. Il che non esclude l’aspetto creativo della traduzione: si può essere perfetti conoscitori della lingua di partenze e di quella d’arrivo e mediocri o pessimi traduttori, proprio perché la traduzione implica lo stesso tipo di componente artistica che nessuno mette in discussione, per esempio, nell’esecuzione musicale.
Anche lì l’interprete lavora su uno spartito preesistente che va rispettato, ma è altrettanto evidente l’abisso che separa l’esecuzione dello stesso pezzo musicale da parte di un virtuoso o da un onesto professionista di fila. E sì, anche i musicisti mangiano possibilmente due volte al giorno e difendono i loro diritti: ovvio che il virtuoso non abbia difficoltà a spuntare ottimi compensi, altrettanto ovvio che gli orchestrali abbiano tutto il diritto di entrare in sciopero se non vengono rispettati i loro diritti sindacali, senza che nessuno metta in discussione la componente artistica del loro lavoro. Perché non dovrebbe essere lo stesso per i traduttori?
Perché i traduttori non sono assunti, a differenza degli orchestrali.
Vorrei essere chiara, io condivido tutte le lagnanze, trovo che sia un mestiere mal pagato, poco rispettato, spesso manomesso eccetera.
Ma ha sempre avuto (e parlo ovviamente solo dei letterari) caratteristiche tali che vedo un riordino difficile e foriero di diserzioni.
Ma chi è escritto al sindacato scrittori? Tra gli scrittori italiani?
“vedo un riordino difficile e foriero di diserzioni.” Difficile disertare da una battaglia che praticamente non è ancora cominciata, bisognerebbe prima partecipare. Il solo parlarne pubblicamente, come si è iniziato a fare in tempi abbastanza recenti, ha permesso i primi contatti, collegamenti e confronti fra professionisti spesso abituati a lavorare e contrattare da soli.
Che poi il riordino sia facile, nessuno si è mai sognato di sostenerlo, ma ogni tentativo e ogni risultato sono sempre meglio che restare nel proprio angolo a lamentarsi.
A mio modesto avviso, per ottenere qualcosa, la strada migliore resta sempre provarci.
Mah, l’articolo non fa proposte concrete e mi sembra solo un invito alla riflessione.
Tutti i suggerimenti piuttosto generici che ho letto nel thread mi sembrano imprecisi e irrealistici.
Quello che chiedo allora è: quali sono le proposte concrete e praticabili? proposte realistiche voglio dire.
Perché i tempi rapidi l’editore non li impone per sadismo, ma perchè sono imposti anche a lui dal mercato, tanto più col rischio che gli salti un libro, e allora sono guai.
I costi di un libro sono quantificabili, ma i rientri, salvo eccezioni, no, e dunque non si può prevedere – se non di rado – quanto incide il costo del traduttore sul costo dell’opera.
Insomma,se si parla di soldi, perchè è soprattutto di questo che si parla qui, bisognerà pur andare sul concreto.
O si vuole chiedere allo stato (che mi sembrerebbe più realistico) di permettere al traduttore di accedere in qualche misura a eventuali fondi pensione?
Io non so di traduttori letterari che riescano a vivere dignitosamente SOLO di traduzione, a meno di non trasformarsi in zombie che lavorano dieci ore al giorno
(e allora meglio cambiar mestiere) e a meno di non sfornare libri che non si ha neppure il tempo di far decantare (e anche allora forse è meglio cambiar mestiere).
L’unica cosa che mi verrebbe da suggerire ai traduttori è di fare due lavori, di diversificare, in modo da essere meno ricattabili e lavorare con maggior piacere.
Vorrei non essere aggredita per questo suggerimento, mi piacerebbe solo che venisse preso come una riflessione concreta e meditata.
Del resto uno schiavo, perchè uno che lavora dieci ore ogni giorno della sua vita è uno schiavo, non ha neppure le forze di attingere alla propria creatività, la brucia per stanchezza.
dico 3 cose limitate alle traduzioni “di qualità”, ossia dove lo stile dell’autore non è un optional:
1- l’industria editoriale ha pochissimi margini di guadagno ecc.
2- più della metà degli introiti complessivi dell’anno scorso sono derivati dagli abbinamenti coi quotidiani, settimanali ecc.
3- stare stretti sui costi significa non solo pagare pochissimo i traduttori, ma saltare passaggi: col dischetto o file, si tende a eliminare il correttore + il redattore.
Il risultato è di decadenza (ironia della sorte, proprio mentre l’establishment accademico, che ha sempre considerato la traduzione come livello minimo di ermeneusi, deve concedere che casomai è il livello massimo).
Ora 3 esempi:
1- il Leviatano di Auster, Einaudi, è pieno zeppo di refusi anche divertenti, ma ad es. tradurre: “salire alle spalle di uno” invece di “sulle spalle” non è un semplice refuso, ma un sintomo di vuoto redazionale (il povero traduttore invece ha consegnato il file con qualche errore di questo tipo pressato da angustie di ogni tipo e nella speranza che ci pensino alla casa editrice)
2- a Patrick McGrath ho fatto vedere un paio di orrori della trad. it. del suo libro su NY, e mi pare che non vuole più saperne
3- un’ottima ex-traduttrice per Adelphi si è sentita contestare una traduzione intera perché essa non rispettava, parole testuali, “lo stile Adelphi”.
PS. dei 3 esempi, il terzo parmi il più grave.
“dico 3 cose limitate alle traduzioni “di qualità”, ossia dove lo stile dell’autore non è un optional:”
Capisco male io, o intendi che le traduzioni “di qualità” sarebbero riservate solo alla letteratura “seria”?
“di qualità”, genitivo oggettivo. ma mi sono espresso male. ogni lavoro può avere qualità o meno, dal più “umile” al più “alto”. ad es., Mandela in carcere, quando arrivava il suo turno di pulire la latrina, si metteva la camicia pulita. dignità.
@db
Sono d’accordo sulla gravità del punto tre.
E’ delirante pensare che una casa editrice possa avere uno stile traduttorio.
Il disprezzo per il traduttore si accoppia alla convinzione che tradurre sia impossibile, tanto che è meglio dargli una gradevole passata di vernice, indipendentemente dallo stile dell’autore.
Di Adelphi chi è dotato di orecchio sensibile si è accorto da un pezzo che fanno traduzioni omogeneizzate – a parte poche eccezioni – ma in questo campo si trascinano dietro non so perché una patina di qualità.
Vedo che la parola “qualità” è sottoposta a esame severo.
Giusto.
Se lo scrittore ha uno stile, chi lo traduce è chiamato a fare una traduzione di qualità letteraria. Altrimenti è chiamato a fare una traduzione di semplice qualità, puntuale, competente, fluida.
ben detto, vecchia talpa!
Faccio il traduttore di testi tecnici e informatici per una multinazionale. Ufficialmente libero professionista, in realtà dipendente che si aggrappa ai vecchi clienti (da fare la notte) per non trovarmi nei guai nel caso la mia azienda decidesse di fare a meno di me.
Mi sarebbe piaciuto lavorare nell’editoria, ho fatto una tesi di fantascienza… purtroppo le uniche offerte per traduzioni in quel campo avevano per compenso… 0. Ovvero gratis. Neanche un rimborso spese.
Così sono passato ai testi tecnici… che almeno mi fanno mangiare.
Per Giuseppe Ierolli:
Hai perfettamente ragione. Alcune associazioni ci sono, ma la situazione non è semplice, forse a causa della natura stessa del lavoro del traduttore, ovvero la solitudine e l’isolamento. Ma è anche per questo che a un certo punto ho deciso di abbandonare questo lavoro, ho avvertito un clima negativo anche in questo senso. O si ha troppa paura di esporsi, oppure semplicemente c’è a chi sta bene così, senza pensare che accettando di lavorare a queste condizioni si continua a contribuire a un meccanismo perverso. La verità è che questo è un sistema che alimenta individualismo, dove ognuno è in corsa per se stesso, e io davvero non mi ci ritrovo. Speriamo che le cose cambino, intanto parlarne è già qualcosa.
E ovviamente sono con tutti quelli che hanno nominato anche altre professioni nelle stesse condizioni. Ce ne sono moltissime.
(a latere)
Siamo noi lettori, noi lettori a pretendere molto dal e per il traduttore.
Pretendiamo per lui rispetto e giusta visibilità.
Pretendiamo da lui cura, e il miracolo di ricreare un mondo in altra lingua, suggerendo i ritmi e le liturgie narrative originarie.
ancoa più a latere)
Ad esempio, sarà online a gennaio 2007 la rivista Buràn, che recupera in ogni parte del mondo storie (fiction e non fiction) scritte in lingue diverse, e le traduce mettendole e disposizone di chiunque avverta l’esigenza di dare ascolto alle Scritture Invisibili, alle Voci Fuori.
Accanto al nome dell’autore, quello dei traduttori (alcuni provenienti da Biblit) che rendono possibile il disvelamento.
Perché la rivista ha anche lo scopo di far conoscere i nomi dei traduttori.
Non (sotto)paghiamo i traduttori; la rivista nasce per amore di lettura e non ha scopo di lucro, l’unico compenso è la responsabilità di prendere una storia altrimenti invisibile e renderla testo nelle mani del lettore.
http://www.buran.it/
Molto a latere anch’io – ma forse non del tutto –, dopo aver letto sull’ultimo «Internazionale» (p. 5) l’editoriale Low stipendio, ripreso da «Libération» (autore Jean-Michel Thénard e traduttore Andrea De Ritis). Breve stralcio:
«Il low cost è ormai ovunque, accolto con entusiasmo dai consumatori. […] è la scelta più furba in un mondo dove tutto ci spinge a spendere. Da ciò il suo incredibile successo, che obbliga tutti i settori a sottomettersi alle sue regole e i suoi avversari più risoluti a imitarlo. […] ma quello che fa la gioia dei consumatori può essere fonte di guai per molti lavoratori. Per sopravvivere, infatti, le imprese low cost devono fare economie sia sulle prestazioni offerte ai clienti sia sulle garanzie concesse ai lavoratori. La logica ultima di una società low cost è quella di allineare il mondo del lavoro alle sue norme, finendo per imporre il low wage e il low social ai suoi dipendenti. Bisogna rendersi conto di questa logica schizofrenica. E chiedersi se la possibilità di spendere meno oggi non ci condanni a guadagnare meno domani».
E se andiamo a guardare bene, non è anche la logica di un po’ tutta l’editoria – traduzioni, comprese, quindi – che sta diventando low cost? (Se si pensa a tante piccole case editrici, in particolare, non le si può vedere come un tipico esempio di “imprese low cost”?) O la situazione è stata così quasi sempre e adesso si sta solo accentuando?
Fammi capire @effe lavorano gratis?
Questa tua frase:
“nasce per amore di lettura e non ha scopo di lucro, l’unico compenso è la responsabilità di prendere una storia altrimenti invisibile e renderla testo nelle mani del lettore”
è una frase che piacerebbe molto – e che forse dicono – quelle imprese low-cost di cui parla nazzareno, qui sopra.
vorrei giusto segnalare che sulla nostra rivista Sud appaiono in copertina tre distinte colonne di autori: dei testi
delle immagini
delle traduzioni
un abbraccio
effeffe
(pronto, qui Effe, un Effe solo, che non è il più noto effeffe, in duplex)
Alcor,
qui siamo sotto il low cost, per tutti – autori, traduttori, redattori, grafici, webmaster.
L’unico movente di tale mostruoso delitto è – incredibile a dirsi – la passione per la lett(era)ura.
Ma c’è una relazione tra “Restaurazione” e call center?….
@effe
Mi commuovo:–)
Ma allora non capisco il senso del post e del 90% dei commenti.
Senso del post e del 90% dei commenti?
Dico brevemente la mia, prima di tornare a una rilettura di bozze: c’è una certa differenza tra le traduzioni gratuite o quasi, fatte per passione o autopromozione, ma perlopiù volontariamente, e le traduzioni low cost, realizzate su commissione. Le prime hanno una loro ragion d’essere, una loro dignità (specie se contribuiscono a qualche meritoria rivista che non ha grandi mezzi né grande diffusione, oppure a una causa in cui si crede); le seconde, invece, se se ne può fare a meno è meglio.
more restoration
Less Restoration!
more restoration
Less Restoration!
more restoration
Less Restoration!
more restoration
A proprosito di visibilità del traduttore: sono rimasto sorpres*, visitando il sito delle edizioni francesi José Corti, di vedere che nella loro homepage accanto alla lista dei titoli e degli autori c’è quella dei traduttori… già il fatto di spingere gli editori per cui lavoriamo a rendere esplicita questa lista permetterebbe forse dei margini di contrattazione più vantaggiosi… ecco il link: http://www.jose-corti.fr/sommaires/traducteurs.html
Fatemi capire: si sostiene che il lavoro di traduzione non andrebbe retribuito perché l’Arte Non Ha A Che Fare Con La Vil Pecunia Stercum Diaboli etc.?
Fosse così sarebbe fantastico. Ben 48 commenti (49 col mio) per distillare una minchiata.
Con un criterio del genere, nessuno tradurrebbe più niente.
Inoltre, se percepisce soldi l’autore, come mai la traduzione, che è un lavoro di ri-scrittura e ri-facimento dell’opera, dovrebbe avvenire gratis?
No, qui il problema è che i traduttori non vengono riconosciuti come co-autori, quindi vengono pagati poco e, per usare un vecchio ma sempre attuale slogan del movimento operaio novecentesco, “a salario di merda lavoro di merda”.