IL SELF PUBLISHING, IL LETTORE E IL MEDIATORE

Gino Roncaglia ha scritto un gran bel pezzo, come al solito, per il Libraio, interrogandosi sull’utilità del self publishing. E, sempre come al solito, domanda e risposte sono sfumate, perché questa non è una partita di coppa, ma un cambiamento. In altre parole, non mi sento di saltellare per l’entusiasmo se Amazon ha aperto una libreria fisica, né di decretare la vittoria del libro cartaceo, appagamenti olfattivi inclusi. E neppure, evidentemente, di dire che il self publishing è la soluzione.
Perché c’è una questione, che suppongo verrà affrontata nel prossimo intervento di Roncaglia, che è ben sintetizzata in questo passaggio:
“Indubbiamente, il self-publishing ha un effetto inflattivo sull’offerta di libri fra cui il lettore può scegliere. Abbiamo visto che i difensori del self-publishing considerano la crescita nel numero di titoli disponibili come sostenibile (o addirittura desiderabile) alla luce dell’esistenza di nuovi strumenti di selezione ‘a valle’. Il filtraggio collaborativo, i social media, il web si trasformano in ‘discovery tools’ capaci di orientare anche in presenza di una offerta enorme di titoli, in molti casi di bassa qualità.
È davvero così? O si tratta di un desiderio, di una speranza alla quale non corrisponde (ancora?) la realtà degli strumenti che la rete mette effettivamente a disposizione del lettore?”
Al momento, la mia risposta è no, non è davvero così. Per un motivo banalissimo: troppa offerta, dove è quasi impossibile capire quale sia il titolo di qualità.
Se sommiamo i libri auto-pubblicati ai sessantamila e oltre che escono ogni anno nell’editoria tradizionale (ammesso che sia possibile davvero fare un calcolo) oltrepasseremmo le più audaci visioni di Borges: neanche il Thor dei lettori riuscirebbe a farvi fronte.
Certo, non si legge tutto e, certo, occorre fare una scelta. Ma come si compie quella scelta nel caso dell’autopubblicazione? Il filtro che il lettore professionale o comunque forte aziona nel caso dell’editoria tradizionale non è univoco: conta, indubbiamente, la casa editrice (per cui chi è affezionato ai titoli di, poniamo, L’Orma o Nottetempo o Nutrimenti, per citare tre editori medio-piccoli e non suscitare subito la levata di scudi “casta-casta”, tenderà a fidarsi delle nuove scelte: a volte con ragione, altre no). Conta il titolo, conta l’autore, se già è conosciuto, conta il poter sfogliare il libro e farsi un’idea nelle canoniche tre mosse (incipit, centro, fine: almeno per me). E dunque decidere di leggerlo tutto.
E’ un metodo evidentemente fallace, ma in tanta abbondanza anche chi dedica la maggior parte del proprio tempo alla lettura non può che metterlo in atto.
Dunque, ricapitolando: editore, autore, titolo, assaggio.
Conta la promozione? Sì e no, dipende. Ci sono articoli che ti sollecitano a cercare titoli (a me è capitato di voler leggere Ubicumque di Fabio Merlini dopo la citazione di una riga in un pezzo di Maurizio Ferraris, per dire). Ci sono, certo, persone di cui ti fidi che ti assicurano che quel libro è un gran libro (e mi è capitato con Breve storia di sette omicidi di Marlon James, per dire ancora). Poi ci sono quelli che ti finiscono fra le mani per caso ed entrano nella tua lista di prediletti: accade anche questo.
Ma con il self publishing? Ci sono casi in cui conosci la scrittura dell’autore, come per Fallire di Beppe Sebaste: ma Sebaste è uno scrittore già molto pubblicato, dunque teoricamente il discorso non vale.
Come fa un lettore e prima ancora un mediatore culturale ad avvicinarsi a un testo autopubblicato? Semplice, si dirà: attraverso il passaparola. Non è per niente semplice: perché, come accennavo ieri, lo strumento del passaparola è stato svilito e piegato a maldestre promozioni editoriali (ha venduto trecentofantastilionidicopie grazie al passaparola! Ammappelo!) e dunque diventa difficilissimo fidarsi.
Dovresti leggere. Magari cominciando dalle mail che inviano gli stessi autori autopubblicati. Verissimo. Non è possibile. Personalmente ricevo una media di dieci mail al giorno. Sono trecento in un mese. Se dovessi leggere anche solo gli incipit, la parte centrale e il finale, applicando dunque lo stesso principio del cartaceo, non avrei tempo per fare altro. Non potrei scrivere questo post (e sarebbe il minimo), non potrei leggere altri libri (e sarebbe un male), non potrei, probabilmente, mangiare altro che uno yogurt davanti all’ereader.
Dovrei, dunque, avere a mia volta un mediatore. Ma chi? Un ufficio stampa? Per esempio. Ma un ufficio stampa è un costo (sacrosanto), e chi magari ne fa le veci in caso di autori autopubblicati lo fa quasi sempre in modo maldestro, inviando mail copiaincollate (e sarebbe il minimo, anche qui) e proponendoti magari un libro che non ti interessa  (non me ne vogliano gli appassionati, ma un libro di cucina, o un’autofiction di esordio non sono esattamente quel che colpisce me: che non faccio testo, ma di me sto parlando. Così come non è automatico che ci sia un femminicidio in un libro perché salti sulla sedia: anzi, in genere salto, ma di incazzatura, perché mi puzza talmente tanto di promozione sulla pelle delle ammazzate che tendo a sospettare).
La questione del mediatore  è una questione chiave: occorrerebbe individuarne di autorevoli e, se posso, disinteressati. Perché nel proliferare di agenzie editoriali nel web non sempre si riesce a distinguere la promozione che investe davvero nella qualità del testo da quella che investe nella propria tasca. Tasca e qualità vanno insieme, evidentemente, come è stato e in parte è ancora nell’editoria tradizionale. Ma ancora non riesco a scorgere – e potrebbe essere un mio limite che sono pronta a superare – lo stesso fenomeno negli indies che scelgono di fare a meno del vecchio editore. Stiamo a vedere.

41 pensieri su “IL SELF PUBLISHING, IL LETTORE E IL MEDIATORE

  1. Il fatto che un libro sia in self-publishing temo sarebbe un deterrente per me: ne ricaverei l’idea che non avesse abbastanza qualità per meritare l’attenzione di una casa editrice – e dire che ce ne sono così tante… (Naturalmente questo discorso non vale se il self-publishing è una scelta diciamo politica, del tipo no copyright).
    Continuo a scegliere libri sulla base di criteri piuttosto ovvi: l’autore; recensioni su blog, riviste e supplementi; consigli di amici e librai; qualche pagina letta in libreria.
    Mi piace l’idea che ognuno abbia la libertà di pubblicarsi, ma – ora viene il pippone da matusa – condivido il timore che il self-publishing, per come è strutturato ora il mercato, non sia di aiuto alla circolazione di libri di qualità: rischia di intasare l’offerta rendendo più difficile la visibilità e la sopravvivenza dei titoli interessanti, che hanno già così poco spazio in libreria e così poco tempo per guadagnarselo: in definitiva, temo possa andare a discapito della famosa bibliodiversità – un esito quasi paradossale, dopotutto.

  2. Ieri in uno dei negozi della catena Il Libraccio qui nella capitale morale del Paese ho visto un Mediatore in Incognito al lavoro. Indossava guanti bianchi e sottili come certi domestici a caccia di polvere negli homes inglesi del secolo scorso ed è rimasto davanti alla pila dei reminders un’ora aprendo ora uno poi l’altro dei volumetti e leggendo , così mi è parso, l’incipit , la parte centrale e le ultime righe. Era come vedere Carlo Cracco davanti ad una pentola fumante che decide se la pietanza è commestibile annusandone gli effluvi. Quando è uscito, mi sono messo alle sue calcagna come in un polar in b/n, ma non sono Bebel e mi ha seminato dalle parti della Stazione Centrale. So goes life.

  3. Cara Lo, scrivo di getto e quindi chissà quanti errori e refusi… Posso parlare di quello che conosco, e il punto di partenza teorico è quello che tu, Loredana, avevi citato nel recensire il mio “esperimento” (lo chiamo così), cioè il mio ultimo, pardon, il mio nuovo romanzo (“Fallire”) e le circostanze della sua pubblicazione: on line, precisamente solo nella piattaforma di Amazon, dapprima solo come e-book e poi, con CreateSpace (affiliata ad Amazon) anche cartaceo, print on demand, ottimamente stampato, aggiungo. Le circostanze della pubblicazione, interessanti di per sé, hanno rischiato di oscurare il romanzo stesso – e ora sento il bisogno che si parli del romanzo stesso, che politicamente e culturalmente, come tu avevi già intuito recensendolo, non sono distanti, anzi…).
    Dunque cosa aggiungere a quello che avevo già scritto nel mio blog sei o sette mesi prima di pubblicare il libro [http://www.beppesebaste.com/banlieue-o-prateria-virtuale-la-comunita-possibile-della-letteratura-un-annuncio/ ], e prima di Mondazzoli – ovvero la crisi, secondo me oggi micidiale, di autorevolezza degli editori e dei mediatori? Io aggiungerei quello che è il frutto della retorica annosa che ha istigato a “scrivere” come se fosse una cosa innocente, e come se fosse una soluzione alla disoccuppazione (come il successo della facoltà di “comunicazione” nel decennio precedente, come la baldoria passata del diventare tutti “giornalisti”); aggiungerei la mutazione antropologica dei giovani scrittori o aspiranti tali, il desiderio di essere scrittori nel senso di avere successo, a qualsiasi costo, indipendentemente dalla natura anarchica e irriducibile dello scrivere – scrivere non è diventare scrittori, avrebbe detto con pensosa ironia Deleuze, ma diventare altro, destrutturare ogni idea di diventare qualcosa, divenire sempre (cioè non diventare mai) e comunque destrutturando politicamente e poeticamente la propria esistenza e tutto l’esistente intorno. Un atto anarchico, coraggioso, rischioso, tutto il contrario della rivendicazione di maggior potere dei Tq (ricordate?). Ora, chi scrive ancora così? Chi è capace di riconoscere che letteratura non ha niente a che fare con “comunicazione”?
    Quindi il self-publishing come promozione di sé ai miei occhi è già abbastanza ripugnante, e sì, nell’assenza di mediatori, occorre inventarseli, occorre rivolgersi ad altri (l’alterità…); ma il ricorso alla possibilità di un distributore e supermercato oggettivo come Amazon (non amo invece i suoi imitatori italiani) è utile in assenza di mediatori per poter trovare appunto i giusti mediatori, per ricominciare forse da zero, per poter mostrare senza retoriche e senza infingimenti (con Amazon non spendi nulla, sia chiaro: al limite guadagni le royalties) quello che si è fatto, senza vergognarsi della propria povertà e solitudine o clandestinità… (Certo, io non dovevo neanche per scherzo diventare scrittore, lo ero già, ho pubblicato di qui e di là, ma scommetto sull’impubblicabilità di questo mio romanzo proprio perché non assomiglia quelli che sono pubblicati, e la somiglianza è diventato un criterio di pubblicabilità, nella micidiale semplificazione editoriale. Per me era eloquente, e anche divertente, la reazione del mio agente: è un libro per Adelphi, che significa, tradotto: è un libro molto letterario ?), ma anche molto nuovo (?) sorprendente, che non assomiglia a nessun altro, che non si sa proprio dove piazzarlo… Peccato che però anche Adelphi predilige i libri e gli autori già valorizzati da altri, già celebrati, statisticamente già deceduti…). Ecco, in questo caso, soprattutto nel mio caso, io pubblicare da Amazon non lo chiamo certo self-publishing, perché non cerco di diventare scrittore, ma produzione indipendente (“indie”) da parte di uno scrittore (come accade a un musicista, a un regista, etc.). Per me è un esperimento, non una teoria. Un invito alla riflessione e, successivamente, alla discussione. Ripeto, ho l’impressione che chi decida attualmente la scelta e la promozione dei libri nelle case editrici non sia una pluralità diversificata di persone che ama il rischio della letteratura, ma un gruppo assai omogeneo che segue logiche diverse, se non addirittura estranee, all’avventura e al gusto dello scrivere – anche se molti loro, con malcelato conflitto di interessi, sono “scrittori”). Forse detto così è un eufemismo. Pubblicando in modo “indie”, ovviamente senza nessun costo, volevo soprattutto dire e fare (come ho sempre detto e fatto): “viva la libertà”: libertà di non scrivere per inseguire modelli né per avere “successo”, libertà di non scrivere per diventare scrittori, ma per scoprire qualcosa di imprevisto e impensato…

  4. Non mi sento di criticare un editore xchè pubblichi autori statisticamente già deceduti xchè a me è capitato di leggere la Versione di Barney ed arrivare al penultimo capitolo proprio nei gg in cui statisticamente moriva l’autore. Ho vissuto una eterna intollerabile notte dell’Innominato e ho preso a leggere e rileggere Poe e Flaubert e Kafka ed altri tizi statisticamente altrove. Mai stato il tizio che corre al cinema x vedere l’Ultimo Lavoro Postumo e Non Montato dall’Autore, ma dai Collaboratori del Regista. Solo recentemente ho realizzato che non era colpa mia se Mordecai R. aveva scelto proprio quel momento x raggiungere gli altri Scrittori Adelphi. Se è vero che si scrivono libri solo per dialogare con altri libri – cosa avranno poi da dirsi quei cosi di carta totalmente incapaci di comunicare se non la loro impossibilità a diventare altro da quello che sono – allora considerato il numero elevatissimo di opere che restano sugli scaffali e nella memoria dopo il passaggio della Statistica Falce, tutta la faccenda è un messaggio simile a quello che dopo il crepuscolo si manda in cerchio davanti a quelle tavolette con lettere e numeri. Brr.

  5. Vorrei aggiungere che il caos o tutto ciò che respinge del supermercato on line di Amazon, sue retoriche commerciali comprese, non è diverso, né superiore, né peggiore, dell’effetto che mi fa entrare in una grande libreria (mettiamo, una Feltrinelli), così simile a un portale kitsch di Internet, dove le pile di libri esposti dalla natura ormai generalmente televisiva sono dissuasive dall’acquisto del libro che ho in mente, e che puntualmente cmq non trovo, fosse anche Montale o Tagore o Pirandello (giuro). Ma lo diciamo ormai da anni. Sarebbe invece importantissimo riproporre il discorso su mediatori culturali, sui mediatori editoriali, su tutti quelli che si assumono la responsabilità credo senza merito (del restio difficile da verificare) di veicolare e disegnare l’orizzonte di pubblicabilità e quindi leggibilità in Italia (e non solo; ma parliamo solo dell’Italia). Voglio ricordare che l’ultima volta che si messo il dito, sapientemente e coraggiosamente, su questa piaga, teorica e non solo, è stato dieci anni fa con i libri e con gli interventi critici di Carla Benedetti, di cui sento la mancanza. Il discorso è forse chiuso? Tutt’altro, è urgente riaprirlo…

  6. ho letto sopra un commento di un tal Crepascolo a una mia frase, del tutto incidentale e marginale, su Adelphi. Respingo l’idea che il mio commento sopra sia sintetizzabile a una critica a Adelphi, i cui libri leggo regolarmente, se Dio vuole. Che poi adelphiano abbia un significato anche metaforico, in Italia, è un dato (e un punto di arrivo di cui essere fieri). Ma cerchiamo, quando leggiamo, di rispettare la scaletta logico-argomentativa di un testo, invece di impigliarci alla prima cosa che ci stuzzica un po’. Punto.

  7. Nemmeno la mia era una critica ad Adelphi. E nemmeno ho pensato che nel post del signor Sebaste si nascondesse una critica alla Adelphi. Ho la massima simpatia x rischia e pubblica e x chi ritiene di aver qualcosa da dire e magari la dice, da vivo o quando è statisticamente qualcosa di diverso, attraverso Adelphi o altro consimile veicolo.

  8. Come fa un lettore ad avvicinarsi a un testo qualsiasi, che sia pubblicato da Mondadori, da Feltrinelli o da Amazon, e fidarsi? Che cosa entra in gioco in questo avvjcinamento? Vogliamo decodificare e destrutturarlo tutto, questo processo, prima di chiedercelo soltanto per i libri on line (Amazon o non Amazon) dando per scontato che per il resto dei libri sia invece tutto ovvio e naturale? In libreria i libri li abbiamo sempre sfogliati, no? (Fu così che scoprii Borges a 15 anni scarsi nella seconda libreria Feltrinelli in Italia, quella di Parma). Amazon dà la possibilità di leggere estratti di un libro fino al 40% di esso. Un lettore non dico professionista, ma con esperienza, un libro sa annusarlo e valutarlo già dal suo paratesto (le stronzate pubblicitarie, la sinossi, la grafica, etc.).

  9. Credo che lo scrittore possa esser visto nel ruolo di lavoratore completamente autonomo. Come tutte le attività indipendenti, ogni elemento riferito a tale attività fa capo proprio all’autore. Sappiamo che la sua soggettività non gli permetterebbe di lavorare in modo oggettivo e razionale, per questo ha necessità di contornarsi di collaboratori, quali un editor e un marketer conoscitore del mercato editoriale. Si tratta dell’intenzione di lavorare seriamente quanto i grandi editori, senza soggiacere a logiche infruttuose che coprano i buchi di bilancio. Non tengo in considerazione, ovviamente, coloro che scrivono per motivi di altro genere, come vanità, condizionamenti sociali, bassa cultura o altro.
    Siccome, online abbiamo anche questo, il panorama delle pubblicazioni è sicuramente più ampio e richiede più tempo per una consultazione. E su questo siamo d’accordo.
    Purtroppo, però, i mediatori tradizionali hanno dimostrato di avere numerosi abbagli nel loro lavoro di scrematura, in quanto sono costretti a scegliere testi spesso molto scadenti. Da poco, ad esempio, mia figlia ha letto un libro per ragazzi pubblicato da una grossa edizione. A mio parere, il testo, estero e scritto a due mani, era tradotto in modo pietoso, con grosse difficoltà sintattiche. E non cito la letteratura spazzatura che va a coprire i buchi di bilancio dei grandi editori, che invade gli scaffali delle librerie rendendo ardua la caccia al bel libro. Se nel labirinto della libreria io impiego interi pomeriggi per cercare un libro che abbia una qualità decente (storia, incipit, lessico e corpo centrale), posso anche dedicare lo stesso tempo a internet. Ci sono comunità di scrittori online che permettono la lettura di estratti o che vendono i loro ebook a un prezzo bassissimo. Purtroppo, la difficoltà principale è quella di andare incontro a coloro che lavorano in modo approssimativo. Un grande editore obbliga lo scrittore almeno a scriver bene il suo libro. La pubblicazione self invece non ha questo vincolo, quindi risulta scoraggiante. A questo punto, la selezione al momento diviene spontanea solo in quegli ambiti dove lo scrittore mette a disposizione il suo estratto. Con il tempo, la figura del mediatore deve divenire anche online, dove figure professionali si assumono l’incarico di selezionare i lavori ben curati e depositarli in un luogo virtuale di facile accesso per il lettore. Il modello educativo scarso, che ha portato chiunque a credere di essere scrittore lo dobbiamo anche ai grandi editori che ci hanno permesso di credere che la scrittura è solo una voglia con cui ci alza dal letto (pensiamo ai nostri personaggi famosi che dall’oggi al domani sono divenuti “grandi” scrittori). Un saluto

  10. Rinnoviamo il patto sociale e partiamo dal presupposto che i ns rampolli sono allevati da tutta la tribù e non solo dai genitori e rendiamo + semplice il ruolo del mediatore chiedendo alla scuola di preparare il discente xchè sappia affrontare l’ostacolo della mole dei testi.

  11. Rispondo a Laura. A fronte, però, del singolo testo letto dalla figlia, potrei citarne molti altri di enorme valore: sinceramente, non ci si può basare su un solo caso. Quanto alla figura del mediatore on line, è esattamente quello il punto che provo a sollevare. E le comunità di lettori on line non sono sempre affidabili, perché a) è facile infiltrarsi e fare propaganda al libro proprio o dei propri amici b) a volte sono viziate dall’essere composte da lettori che sono scrittori a propria volta, e dunque ansiosi di tributare riconoscimenti per ottenere un favore.
    Libreria e rete non sono assimilabili, secondo me. Perché la ricerca del testo in rete è più complessa, non fosse altro per la quantità dei testi.
    Infine, no, io non credo che la responsabilità sia dei grandi editori: perché, ribadisco, a fronte di non poche scelte di bassissima qualità, ne restano molte di qualità alta o altissima, che però non vengono mai citate. Come dice King, è possibile diventare uno scrittore buono o accettabile lavorando su se stessi, ma non è possibile diventare grandi scrittori se non lo si è già. E questo piccolo particolare non viene digerito. Il talento è e resta ingiusto e antidemocratico, sorry.

  12. Ps. Per Beppe. Aggiungo che non a caso ho citato tre case editrici piccole: L’Orma, Nottetempo e Nutrimenti. Non esiste solo Mondazzoli. Perché molto spesso gli stessi autori rifiutano di pubblicare con i piccoli e di qualità. E allora, però, che si fa?

  13. @ Loredana: Anche il mio riferimento a Mondazzoli era marginale. Il discrimine tra editori non credo sia quantitativo, tra piccoli e grandi, ma qualitativo, nei criteri (e troppo spesso i piccoli sognano di essere grandi). Per ora rivendico il mio esperimento come esperimento, tuttora in corso. Chissà che non sia per un milionesimo anche per esso che si parla di queste cose, e si problematizzano i mediatori (o decisori) editoriali

  14. Sono d’accordo sul fatto che esistono grandissimi scrittori che proprio grazie agli editori vengono conosciuti. Il libro di mia figlia era un esempio, non un assoluto. Che scrittori si nasce e non si diventa sono d’accordo. Casomai si diventa impiegati della scrittura 🙂
    Credo, però, che non si possa demolire una realtà solo perché non si sa come gestirla.

    1. Laura, perdonami, io non sto demolendo nulla. Ho premesso nel post di non credere alle contrapposizioni: resta aperta però la questione che pongo e vale nei due sensi: è sciocco, da parte dell’editoria tradizionale, svilire il self publishing, è altrettanto sciocco difenderlo ciecamente senza fornire soluzioni, e anzi non giova alla causa perché puzza di risentimento. La questione del mediatore è centrale, e se hai la bontà di leggere il link di eFFe la trovi molto ben argomentata. Non si può semplicemente dire che il mediatore deve piazzarsi a leggere tutti i testi autopubblicati: perché non ha modo e tempo materiale per farlo. Allora, chi media? Chi filtra? Chi valuta? Chi prende il ruolo che nella casa editrice tradizionale è quello del lettore professionale o dell’editor? Nessuno, magari. Ma resta il problema di come far arrivare quei testi agli altri lettori, tenendo molto presente che le classifiche di Amazon non sono affidabili, perché esperimenti su esperimenti hanno dimostrato che basta comprarsi da soli dieci testi e si schizza in vetta, per un po’. Il passaparola funzionerebbe se scremato da personalismi o manipolazioni. Deve pur esistere una terza via: ma qui si tratta di cercarla, perché se si continua a dire editore-tradizionale-cattivocattivo/autopubblicati-buonissimi (o viceversa) non si va da nessuna parte.

  15. Permettimi di farmi capire. Non ho una posizione assolutista. Leggo libri di entrambe le parti. Se il mio esempio di soluzione è parso ingenuo, dipende dal fatto che non ho ancora meditato a fondo sulla questione, quindi è stata una proposta veloce. Con questo volevo solo dire, che la soluzione si può trovare, sviscerando ogni elemento e trovando un compromesso. Le problematiche non riguardano solo il self, ma la valorizzazione dei testi da parte di figure professionali, sia nell’ambito dello stesso self che in quello dell’editoria tradizionale.
    Purtroppo, l’inaffidabilità delle fonti la troviamo in tutti gli ambiti, non solo letterario, e dobbiamo farci i conti. Insisto sui professionisti, che giustamente non possono leggere tutti i libri pubblicati self. La figura che si occupa di scremare il panorama esteso dell’online, può trovare un modo per farlo. Sta poi alla capacità di noi lettori, capire quali sono le figure di riferimento (evitando la promozione coatta degli scrittori e i loro amici). Nello stesso modo in cui riusciamo a fidarci di un critico, di un editore, di un nome famoso, ecc. Fiducia, tuttavia, sempre relativa e oculata. Sono le modalità che cambiano, pur rimanendo fermi sulla base del concetto, cioè il valore del testo.
    Le modalità non so trovarle adesso in questo post. Sono conseguenze di una meditazione sul problema, finalizzata ad una soluzione.
    In ogni modo, le discussioni sorte sul self/tradizione dimostrano una grande vivacità dei due settori. Sono d’accordo con te sul fatto che è necessario trovare un modo per condurre il lettore verso una più agile scelta. La mia è solo la fiducia che venga trovata una strada diversa, ma non è per niente cieca. Questo cambiamento si è preannunciato da anni e ora dobbiamo imparare a gestirlo. Come? Ci riusciremo nel tempo, continuando a discuterne insieme a editori (grandi e piccoli), giornalisti, editor, scrittori, ecc.

    1. Il problema, cara Laura, è che finché il self si configura “in opposizione” all’editoria tradizionale, non ne usciamo. Perché sarò anche noiosa, ma non è vero – e posso non solo giurarlo su venti Bibbie, ma produrre esempi su esempi- che l’editoria tradizionale sia dedita all’immondizia. Ripeto: oltre alcune vetrine di alcune catene di librerie esiste molto altro, e nel giro di una sola settimana escono libri (di case editrici grandi, medie e piccole) che valgono il tempo e la spesa e che vengono sommerse in quel mantra, con sue ragioni d’essere evidentemente, “è tutto in mano al mercato”. Vero in parte ma nient’affatto del tutto. Stessa faccenda per il self: quintali di immondizia e di certo ottimi testi. Quando si troverà il modo di arrivare a quegli ottimi testi avremo due strade che vanno a integrarsi e non a escludersi. Ma, fin qui, io figure di riferimento autorevoli non ne intravedo. Perché sono la prima a cercarne e volerne nel mondo del self: ma fino a oggi sono incappata (se si esclude Sebaste, ma qui ho giocato facile) in autori e autrici che non proponevano strade diverse ma usavano l’autopubblicazione per ricalcare gli stessi modelli che esecrano nell’editoria tradizionale.
      In poche parole, i due mondi diffidano l’uno dell’altro, e tutti e due con ragioni. Ma, appunto, siamo in stallo.

  16. Su questi punti siamo d’accordo e mi pare chiaro nel mio post precedente. Rimango dell’idea che una buona meditazione può produrre una soluzione equa che preveda, come dici tu, un’integrazione fra i due tipi di editoria. Uno scrittore non dovrebbe ricorrere al self perché “non lo pubblica nessuno”, ma perché sceglie una logica diversa di lavoro. La figura autorevole, mi pare, che sia comunque l’editore, considerando gli autori self pubblicati poi per via tradizionale. Quindi, siamo ancora all’inizio del cambiamento. Abbiamo molto a cui pensare, per creare una strada fruttuosa e qualitativamente sostenibile. Detto questo, si accettano proposte per una nuova editoria!

  17. Io amo leggere. E il mio mestiere è leggere. Leggo su carta e su byte. Leggo opere che poi, da editor, trasformo in libri. Leggo opere per nutrirmi. Altre per necessità. Alcune le imparo a memoria e le porto in giro come parole da condividere: sono una persona-libro, a volte per promuovere proprio quel libro (tutto) a volte per contribuire a un discorso-relazione con chi ascolterà, per il piacere di condividere e basta. Faccio testi e dico testi. Li cerco ovunque. Eppure non ho tempo. Mai abbastanza per una lettura che sia anche rilettura. Per una lettura che non sia sempre giudizio ma piacere. In epoche lontane c’erano biblioteche private, domestiche, che avevano tutti i libri che erano stati pubblicati. Ora sarebbe impossibile. Ogni minuto nascono libri. Ogni minuto ne muoiono altri. Molti non arriveranno mai al lettore. Contribuiamo al macero non quando non scegliamo di leggere un libro ma quando nemmeno sappiamo che esista. Come se ne esce? Ho una fitta allo stomaco: mi manca una critica del gusto. Qualcosa che mi aiuti a costruire un orizzonte di senso da cui far emergere l’identità letteraria, la differenza, sottile, tra scrittura/e e bene culturale. Tra libri-prodotti e letteratura. Mi manca un contesto, una visione più ampia che non sia mercato. Mi manca un discorso sui discorsi. Su ciò che è lettura. Su ciò che è letteratura. Vorrei salire su un promontorio e comprendere la figura che tutto questo caos sta disegnando. Guardarci dall’alto. Cambiare prospettiva. Ripensarci antropologicamente come produttori di storie. Ritrovare il senso di una domanda: perché leggo? e attraversarla insieme per vedere dove porti. Magari tutti questi libri, qualunque sia il loro formato, non ci servono.

  18. Mi sembrano due ottime domande : 1) xchè si legge ? e come corollario 2) servono davvero tutti questi libri ?.
    Non so se siamo tutti/e persone libro, ma sicuramente siamo persone storie. Macchine programmate per propalarle. Anche il clochard che proprio non riesce a capire la signora con i sacchetti pieni che corre dietro al filobus mi racconta una/la sua storia con l’occhiata che le lancia.
    Nascono continuamente nuovi veicoli x la diffusione delle idee . Forse aumenterà il numero di persone che non sa la risposta alla domanda numero uno e dice un convinto no alla seconda.

  19. Forse non ho letto con la dovuta attenzione tutti gli interventi, ma ho l’impressione che qui si parli prevalentemente o solo di narrativa. C’è da prendere in considerazione anche il mercato della saggistica, che è al suo interno ben più frastagliato e settoriale e dove l’operazione di filtraggio da parte dell’editore è certamente più selettiva. Per non dire poi dell’area di coincidenza tra saggistica di “varia” e produzione destinata all’uso in ambito universitario, sempre più limitata per il diffondersi incontrastato del modello manualistico in ambito didattico (cosa disastrosa per il futuro degli studi, soprattutto in ambito umanistico). Lì il self publishing potrebbe trovare terreno più fertile, e pure sperimentare soluzioni nuove, sia pure artigianali, quelle che l’editore non si sente (sbagliando) di provare. In ogni caso, chiunque produca una saggistica in una forma minimamente accettabile di self publishing metterà in circolo ebook più dignitosi sul piano formale di quanto non faccia quell’editoria di nome che non ha ritegno a riprodurre automaticamente in digitale le versioni cartacee dei libri (con tanto di link non attivi e indici analitici).

  20. Nel mio caso, sì, ho parlato solo di narrativa. Nel caso di testi che necessitano fonti certe, il filtro è quasi un obbligo. La mia ignoranza ha creduto che in ambito universitario (o comunque scolastico) ci fossero dei controlli da parte di autorità pubbliche.

  21. Amazon è la nemesi di tutto il comparto editoriale (l’80% in Italia) che ha scambiato il libro per un prodotto e da anni non ha più uno straccio di piano editoriale. Non sarà la fine del libro ma dell’editoria così come la conosciamo, mi auguro presto.

  22. La posizione di Angus è suicida, se posso. Crollando l’editoria come la conosciamo crollerebbe anche il self publisher almeno così come si configura oggi (quanto all’ottanta per cento, mi piacerebbe su quali basi si forniscono cifre così nette, ma pazienza).
    Certo, Roberto Maragliano ha pienamente ragione: si sta parlando di narrativa, ed è un errore identificare editoria con la medesima. Dal punto di vista della saggistica, la questione potrebbe essere molto più semplice e percorribile in modo agevole.

  23. Maragliano grazie! Vedi com’è facile generalizzare. La saggistica è un terreno delicato che rischia di morire sulla carta proprio per mancanza di coraggio editoriale. Il byte potrebbe essere una soluzione ma non esula dal problema centrale: la cura, la selezione, che non è controllo. Io spero in un’editoria digitale che si affranchi dalla mera imitazione del libro di carta e che azzardi prodotti inediti. Lo spero da anni. (E comunque almeno come persona libro le parole che imparo non sono solo narrativa).

  24. @lipperini La posizione di Angus è ottimistica e attesta quanto giá accade… quanto alle stime è una valutazione personale condivisa da molti operatori, quelli ancora non affetti da miopia… pazienza invece che nessuno voglia spiegarci qual’è il progetto editoriale delle medie e grandi case italiane negli ultimi 15 anni, sarei curioso… (tranne Adelphi ovviamente e poche altre) L’editoria è un ramo minore dell’industria e non saranno certo gli AD a pagarne le spese.

    1. Scusa Angus ma non si capisce cosa dici, e certamente è un limite mio, che miopissima sono. Primo: quali sono gli operatori che citi (fonti, grazie)? Secondo: che ci sia un traballare di progetti è verissimo. Ma non per tutti. E il distinguo non vale solo per Adelphi. Insisto nel dire che ho citato tre case editrici medio-piccole di qualità e in molti insistete a citare Mondazzoli o comunque colossi: qual è il (vostro) problema? Quanto al ramo minore dell’industria: è vero, e infatti le spese le pagheranno i dipendenti, e non solo loro. Detto questo, io mi rifiuto di ridurre una questione che riguarda la vita culturale (e non solo) del paese a “mi è stato rifiutato il manoscritto”. Perché questo svilisce esattamente ogni possibile discorso serio sul self publishing. Saluti.

  25. Scusa lipperini ma il riduzionismo che mi attribuisci te lo lascio tutto perché io parlavo di altre questioni… quanto alla “vita culturale” del “paese” dovremmo intenderci cosa sia vita culturale e cosa sia paese oggi nel 2015. Vedo che mi dai ragione quasi su tutto… le fonti dici, prendi i cataloghi degli ultimi 30 anni, delle 30 case editrici più importanti del paese, e guarda cosa è successo… (consulta anche le stime del volume di vendite, parla con redattori e non solo… il malcontento che c’è lo conosci bene… malcontento non per la crisi etc etc c’è pure questo, intendo il malcontento riguardo a cosa è diventato oggi pubblicar libri). La questione del self publishing è molto importante certo, talmente importante che Amazon lo ha capito bene e soprattutto ha capito che l’accidia è il peccato capitale dell’umanità (ricordando che per Amazon il settore editoriale rappresenta solo il 10% del volume dei suoi affari). In Italia non sarà il Leviatano di Bezos a buttar giù il sistema, si autodistrugge benissimo senza problemi, visto che nessuno fino ad ora ha voluto realmente affrontare il problema (mi riferisco soprattutto a chi ha la direzione dei due gruppi importanti). Nei fatti sai cosa vedo ? L’editoria nostrana arrancare dietro a tutto quello che crede possa essere utile per vivacchiare (e non fare cultura, che è un po’ diverso, perché a quel punto delle domande uno dovrebbe pur farsele e questo non lo vedo proprio) statistiche, mode del momento, internet come piazza del mercato, inventarsi un festival dopo l’altro, pubblicare quintalate di titoli che se va bene hanno al massimo un mese di vita.
    (Nota senza polemica: la “miopia” del precedente intervento non era rivolta a te, visto quello che mi dici, ora è rivolta anche a te. Se non desideri che nel tuo blog si possano esprimere opinioni, argomentate, contrarie al tuo modo di pensare dillo chiaramente così non sprechiamo tempo.)

    1. (diochenoia. Intendo: la noia di chi viene contraddetto e dunque ritiene che non possa polemizzare. Polemizza pure, ma io avrò o meno il diritto di replicare? Nota esasperata)
      Quello che intendevo evitare con il post, Angus, era esattamente la contrapposizione: di qua il self publishing che salva l’editoria stracca, di là l’editoria stracca che si oppone al fiero indipendentismo dei self publisher. L’editoria nostrana sta messa male, e sia. Ma da qui a dire che la stragrande maggioranza di quanto pubblica è cacca, no, è semplicemente un falso. Semmai si può dire un’altra cosa: che vengono premiati dalle vendite testi che in buona parte sono, a essere generosi, esili. E sono d’accordo sul fatto che la crisi NON venga da Amazon, ma sia in parte interna, in parte dovuta a una fuga di lettori che scappa non per la cattiva qualità e neppure perché c’è Amazon, ma perchè semplicemente fa altro. Nonostante questo, però, insisto sul fatto che a forza di guardare solo la pessima qualità e resettare su quella buona e anche ottima, non si sia d’aiuto a nessuno. Perché romanzi come “Gli anni”, “Le cose semplici”, “Breve storia di sette omicidi” (e ne cito tre soltanto) sono di altissima qualità, invece. Perché non ne parla nessuno? Forse perché è consolatorio ripetere “pubblicano tutte schifezze e PER QUESTO non pubblicano me”?

  26. ma ultimamente quanto tempo hai dedicato a parlare di buoni romanzi e quanto a parlare di discorsi inutili sul self-publishing? Serve parlare di self-publishing? questo dovresti chiederti e con te anche Roncaglia, prima di imbastire un discorso a partire da una domanda come “serve il self-publishing?”. Perché nei fatti sei tu che produci questa contrapposizione, dal momento che non c’è nessuna questione sulla quale riflettere. Il self-publishing è una possibilità, serve a pubblicare e basta. Se ti interessa capire come orientarsi per scegliere e quali forme di orientamento esistano, magari è il caso di parlare solo di questo. Per evitare questa contrapposizione basterebbe evitare di parlarne in un certo modo.

  27. @lipperini Replica e polemizza quanto vuoi, basta che non mi metti in bocca cose che non dico e penso tipo “Ma da qui a dire che la stragrande maggioranza di quanto pubblica è cacca” mai detto questo, ti chiedo cortesemente di autoattribuirti il riduzionismo. Non ho capito poi perché insisti su questo “Forse perché è consolatorio ripetere “pubblicano tutte schifezze e PER QUESTO non pubblicano me”?” che c’entra con il discorso che stiamo facendo ?
    Io non vedo nessuna contrapposizione, forse ti sfugge, io vedo solo un problema di fondo di cui nessuno vuole occuparsi, e che ogni tanto saltino fuori delle buone pubblicazioni non è un sintomo di qualità e vitalità, si discorreva infatti sulla mancanza di una progettualità, ma se questo discorso non ti interessa o non lo vuoi vedere non dioannoiarti con cose che nessuno sta affermando.

    1. Ehm, Angus, tu hai affermato che l’80% del comparto editoriale non produrrà cacca, ma robaccia, mi par di capire. Sulla mancanza di progetto in molti casi e non in tutti, concordo e guarda un po’, me ne occupo pure. E neanche io vedo una contrapposizione, peraltro.

  28. @lipperini l’80% del comparto editoriale non ha più, nei fatti, una vera progettualità e/o identità culturale, i piani editoriali li fanno tutti ovvio, ma non di questo stiamo parlando, ma di politiche culturali. Sarebbe interessante un giro di interviste agli editori che ci spieghino in due paginette cosa stanno facendo e cosa intendono fare riguardo alla crisi dell’editoria nel nostro paese invece di dare sempre “colpa” ai lettori, che fuggono, che leggono poco etc etc (sui lettori a dopo nel nuovo post)

  29. Bene, contatta Obrist e Elisabetta Sgarbi e realizzate un bel Panta Editoria, 100 interviste a 100 editori. Quando esce lo acquisto subito 🙂

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