IL VIRUS DI FIBONACCI

Numeri! Se ne discute, in questi giorni, qua e .
E i Wu Ming, come ogni anno, pubblicano i dati di vendita dei loro libri
aggiornati al 31 dicembre. Spiegando perché:

Tra gli scrittori
"idealisti" (nel senso filosofico, cioè che antepongono l’Idea di
Letteratura alla realtà concreta e terrena delle narrazioni) è uso fingere di
non auspicarsi il successo, negare che il libro sia anche (orrore!) una merce,
simulare disinteresse o addirittura disgusto per la prospettiva di vendere
tante copie… Peccato che tale posa di indifferenza sia in contraddizione coi
toni lamentosi usati dai medesimi nel descrivere la propria condizione di
"poco-vendenti", "poco-cagati", "relegati ai
margini", "incompresi" etc. Ecco che ci viene riproposta la
sbobba del genio-che-soffre, accompagnata alla tirata sul popolo infingardo e
bue. Ma perché soffre, ‘sto genio, e perché mai inveisce, se è riuscito nello
sbandierato intento di non vendere? Conseguendo l’insuccesso, ha avuto
successo, e allora che altro vuole? Se vendere è per i venduti, se sono i
lettori a non meritarsi certi libri, se l’ars è longa e la vita è brevis e sarà
la storia della letteratura a capire quanto vale il tale scrittore etc., allora
perché pubblicare in vita? Perché rivolgersi a un editore? Perché non lasciarlo
nel cassetto, il sudato manoscritto? L’unico valido interlocutore non è forse
l’archeologo che un giorno scaverà e troverà i resti della scrivania? Che senso
ha lamentarsi del fatto che altri vendano, se vendere è cosa ignobile e il
danaro è
stercum diaboli?
In realtà, pare banale dirlo, non tutti i libri che
vendono sono per forza banali o compiacenti o derivativi, e non tutti i libri
invenduti sono incomprensibili, elitari o – semplicemente – brutti. Eppure,
ancora troppa gente schifa chi vende solo perché vende ed esalta chi
"floppa" solo perché "floppa". Occorre un approccio più
laico e meno ipocrita. Se uno pubblica un libro è perché si auspica che altri
lo leggano, possibilmente molti altri, più ce n’è meglio è. Se lo pubblica
presso un editore, accetta che il libro rechi un prezzo in copertina e venga
scambiato con denaro. Se firma un contratto in cui gli viene accordata una
percentuale (bassa o alta che sia) del prezzo di copertina, vuol dire che si
auspica di guadagnarci qualcosa pure lui (e ci mancherebbe altro, è stato lui a
scrivere!). Quanti scrittori si sottraggono a questa trafila di loro spontanea
volontà? Non ce ne vengono in mente: di norma, gli scrittori che pubblicano un
libro vogliono anche venderlo. Quanti scrittori falliscono nel sottoporsi alla
trafila poi vanno in giro a dire che l’uva non è dolce, anzi, è pure guasta?
Troppi.
Quando parliamo di copie "vendute", c’è ancora
chi trova la cosa "inelegante", sconveniente, venale, poco artistica.
Dopo una presentazione di New Thing a Udine, un blogger si disse indignato per il fatto che Wu Ming
1 avesse usato la parola "vendite", ed è solo un esempio tra i tanti.
Non ci si rende conto che quelle vendite sono lettori, sono esseri umani in
carne ed ossa che desiderano leggere quel che scrive uno scrittore al punto da
recarsi in libreria e rinunciare a una parte del loro reddito pur di portarsi a
casa le sue parole.
Queste persone
compiono un piccolo sacrificio per noi, il minimo che possiamo fare è non
parlare dei soldi che hanno speso come se ci facessero schifo.
Noi, quindi, siamo contenti quando ci imbattiamo in
colleghi che snocciolano numeri come fossero olive nere, laicamente, senza
problemi né bigottismi. Incitiamo tutti i colleghi a rendere noto quanto vendono:
per trasparenza, per condividere informazioni utili coi lettori, per dare
un’idea di quanto si legga oggi in Italia, di quale sia la soglia oltre la
quale un libro è considerato "di successo" etc…

Ad esempio, lo sanno i lettori che la tiratura media di un
libro in Italia, best-seller compresi, è di 4.500 copie (dati AIE relativi al
2005), e che a tenere "alta" la media sono soprattutto i libri
scolastici? Questo dato specifico non lo abbiamo a portata di mano, ma è
notorio che la stragrande maggioranza dei libri pubblicati in Italia (circa
53.000 titoli all’anno) vende meno di mille copie (ovviamente non teniamo conto
dei libri allegati a giornali e riviste). Il lettore si trova esposto solo
all’occasionale cifra da capogiro, i due milioni di copie di Io
uccido
o le ottocentomila di Io
non ho paura
, e non riesce a farsi un quadro
della situazione. Forse, se sapesse quanto vendono davvero certi grossi nomi e
"mostri sacri" che se la tirano da mammasantissima e ras del
quartiere, comincerebbe a chiedersi come mai li vede sempre in tv o sui
giornali a cacare sentenze su qualunque argomento.

Ps. La vostra eccetera non ha
numeri da elaborare al momento. In compenso sta cominciando a darli, e ad
ogni risveglio pensa di vedere sopra di sé le pale di un ventilatore, di
sentire la voce di Jim Morrison che canta The
end-No safety or surprise-The end
e manca poco che si alzi dal
letto dicendo “Saigon…merda!”.

Pps. Due libri anti-caldo.
Di ferocia quasi pari a quella che vive il succitato
Willard: La casa vuota di Willem Frederik Hermans (postfazione di Cees
Nooteboom), Bur.
La assai benvenuta riedizione di Costretti a sanguinare
di Marco Philopat, Einaudi.

51 pensieri su “IL VIRUS DI FIBONACCI

  1. “Ecco che ci viene riproposta la sbobba del genio-che-soffre, accompagnata alla tirata sul popolo infingardo e bue. Ma perché soffre, ‘sto genio, e perché mai inveisce, se è riuscito nello sbandierato intento di non vendere?”
    Forse chi non è genio non potrà mai capirlo:-)
    Quanto a “Costretti a sanguinare”, al solito rinvio al mio blog: “Giallo e Noir in cronaca”…

  2. Il punto è questo, mi sembra:
    “Se uno pubblica un libro è perché si auspica che altri lo leggano, possibilmente molti altri, più ce n’è meglio è. Se lo pubblica presso un editore, accetta che il libro rechi un prezzo in copertina e venga scambiato con denaro. Se firma un contratto in cui gli viene accordata una percentuale (bassa o alta che sia) del prezzo di copertina, vuol dire che si auspica di guadagnarci qualcosa pure lui (e ci mancherebbe altro, è stato lui a scrivere!).”
    Quindi, chi non è interessato a vendere e considera volgare vendere, perché non pubblica senza contratto, senza diritti, senza niente? Sarebbe la prova del nove.

  3. Io son ben contento che si parli di trasparenza & copie vendute, perché il libro è anche merce oggetto prodotto, non solo ma anche,
    ben contento pure che vendano Camilleri Eco Busi Ammaniti, un po’ meno che vendansi altri , tipo MelissaP. o Melassa che sia e Mr.D.Brown;
    ben contento sarei se si vendessero più libri, in generale, in Italia,
    ben contento che uno si faccia soldi scrivendo narrativa piuttosto che far l’infingardo ladrone dietro una poltrona di stato, però col volto ligio e compunto di colui che serve il popolo….
    MarioB.
    P.S:
    Pure io sarei ben contento di vendere di più,
    ecco

  4. Il Italia è considerabile best seller un libro che vende 7.000 copie. Direi che questa notizia ridimensiona di molto l’ego di chi pubblica e di chi vorrebbe pubblicare.

  5. Stavolta sono moltissimo d’accordo con Wu Ming. Il libro, da un punto di vista merceologico, è merce. (Rin)negarlo è poco realistico e poco onesto. L’idealismo e la moralità stanno nel non scrivere libri-merce, accettando il paradosso che un libro per esistere deve essere “commerciato”. Oggi.
    Volgare, Alessandro, vuol dire innanzitutto popolare. Dunque chi considera volgare pubblicare considera volgare, nel senso di indecente, essere popolare. Alain Elkann dichiara cose come “Uno scrittore è il commesso viaggiatore di se stesso. Fa parte della responsabilità di un intellettuale incontrare il suo pubblico e conquistarselo di persona, con le parole, come fanno anche gli attori, i cantanti, i registi” (dal Magazine del Corriere di ieri). Personalmente credo che fa parte della responsabilità di un intellettuale essere il più onesto possibile con sé e col suo eventuale pubblico, anche se composto di venticinque lettori, mentre persegue il proprio progetto artistico, e questo si può certamente fare anche senza presentazioni-tournée, nel momento in cui sono crociate alla conquista del pubblico. Ma qui parla la mia misantropia, e la convinzione che tutto ciò che si ha da dire si può dire anche senza comparire (a rischio, appunto, di esistere o vendere molto molto meno).

  6. eppure , o Gemma Gaetani, io c’ho na senzazione strana o stramba, ovvero:
    che tu, nel voler precisare, hai fattto come colui che mette ‘o palo in fondo all’acqua e, gira gira, fa uscire la melma dal fondo e, comesisuoldire, intorbida l’acque, al momento, già solo semitrasparenti.
    Ma si sa, io penso male, hu hu, come penso male…
    MarioB.

  7. Ora Cûk è tornato or-ora dal tuffo e ha ripreso a fare i conti con la morte-on-line e tristemente ha sbattuto lo capo sul solito difendere la propria capacità di vendità, il proprio insomma odioso esserci là-dove-ti-porta-il-mercato (qui un triplo bleack! con vomito acclamato e teatrale). Ma Cûk-Utitz, davvero, non acconsente e prorpio ora, tornato dalla clinica estiva marina, ecco dice la sua: Wu Mingghia, è certo, mai lesse Karel Teige sul mercato dell’arte (nell’epoca del capitalismo), su come funziona, cosa ne sta alla base e come si regolano le vendite. O – Cûk anche qui ne è certo – mai prese per mano libretto fondamentale di Fausto Curi, titolo: “Perdita d’aureola”. E potrei anche aggiungere il sospetto che lo sempre-caro-mi-fu-questo-venduto Wu (Chi?) mai intese le frecciatine di tale Heiner Muller sulla “letteratura da idioti” che il mercato, in ogni caso, eccezioni comprese, propone. Ma il discorso si farebbe lungo e tonto; meglio stare sui fatti, che poi sono gli atti e i comportamenti e le ginnastiche dell’esserci nel mercato rispondendo a ciò che il mercato accoglie (perché soltanto chi viene accolto – e dunque parla la lingua dell’accoglienza – vende e vende) … Ah, diomiodimenticavoavoavo: anche Giorgio Cesarano diceva la sua con forza diceva che lo mercato uccide l’arte uccide l’arte uccide l’arte … E Debord anche disse cose egregie sul fatto, invero banale, che il mercato-ato-ato sempre – e qui Cûk ci tiene a ribadire il SEMPRE – manifesta il potere proprietario, poiché nel meccanismo (produzione-pubblicità-distribuzione) è compreso il suo senso, ossia sempre passa l’idea che a investimento di denaro corrisponda profitto (do you remembere lo baco da seta?). Diventare artisti di successo puzza, diceva Marx. E diceva anche che la merce parla: parla la sua lingua (D-M-D); e diceva (Lineamenti), e poi Benjamin&Brecht hanno precisato, che pensare di parlarne un’altra senza immetere rivolta NELLA FORMA è fare il gusto dei mercanti. Tutti questi nomi-di-storia sono pensotonti? O fessuti artifalliti? C’è un esempio che, da solo, basterebbe a smerdare lo discorso saputello e pieno di vendita-di-sé del Wu: Emilio Villa si lamentava di non riuscire a “vendere”, di essere “poco cagato”, etc; e lo facevano per lui anche suoi amici e vicini di ricerca (Aldo Tagliaferri su tutti; Cfr. “Il clandestino”, Derive Approdi) … Se applicassi il fondo (attenzione: mi sto infatti riferendo al sensosommerso) del ragionamento del Wu-atleta-del-cuore-che-vende (che vende oleografia per il popolino-di-sinistra), ne dovrei dedurre che il Villa in questione è nullo di valore … Ma qui giova non equivocare: il Wu scrive “Quanti scrittori si sottraggono a questa trafila di loro spontanea volontà? Non ce ne vengono in mente” … Appunto, non gli viene in mente uno come Villa. Non gli viene in mente, eppure esiste. Che sia allora solo un problema di scarsa conoscenza di ciò che si agita ai margini? Altra frase esplicativa della incapacità di uscire dal pernicioso (e ormai sottoinstupidente) problema del vendere o non vendere: “Non ci si rende conto che quelle vendite sono lettori”: palle!!!! Quelle vendite sono prima di tutto gli editori, i manager, le analisi di mercato, la conoscenza del gusto pubblico medio, etc. etc (salute!); al lettore arriva ciò che il meccanismo decide di fare arrivare, punto e Marx a capo (piaccia o non piaccia è così: lo mercato strozza l’arte, impara e mettila da parte).
    Cûk-Utitz, del Club delle Scintille Nere
    PS: Più che i “dati di vendita” i WuMing dovrebbero fornire un quadro esatto dell’estrazione sociale dei loro lettori: e Cûk non intende solo la loro posizione nelle celle della divisione economica, ma anche i loro gusti musicali, quali pittori contemporanei conoscono e seguono, che tipo di teatro sono soliti vedere, quali altri autori, quanti saggi leggono all’anno … Cûk crede che che il risultato sarebbe MOLTO interessante, Cûk sospetta di evidente omologazione culturale … Ma qui alla prossima …

  8. Quando ho letto il pezzo di Wu Ming ho pensato che diceva cose tanto piccole esibendo i suoi numeri, che nemmeno serviva rispondere. Cuk ha pensato diversamente e ha risposto da persona che conosce le cose e anche usando molta sensibilità.
    Speriamo che non abbia perso tempo, che a qualcuno arrivino le sue parole. Ma – dico la verità – la vedo dura.

  9. Cara Lippe,
    se ti consola, ti dico che qua, con l’afa della bassa Pianura di ‘sti giorni, a volte nel dormiveglia ho perfino il terrore di essere prigioniero in qualche buca dei vietcong.
    PS Secondo me il modello delle CC, delle GPL, dei copyleft ormai è quello vincente, anche in termini economici; un po’ come quando nel mondo dei dinosauri comparvero i primi mammiferi, piccoli e pochi, ma alla lunga….

  10. Che il mercato strozzi l’Arte non è un assoluto; vi sono dei periodi storici in cui la impicca, la soffoca di più in altri meno.
    Ci sono dei momenti favorevoli in cui alcuni mercanti o editori hanno favorito o scelto artisti di ricerca anche a rischio di perderci.
    Non sto a far esempi che sarebbe barbosa.
    Adesso mi pare non sia quel momento…

  11. E’ bello ritrovare su Lipperatura la prosa un po’ ottocentesca, forbita e dalle risonanze armoniose, del grande Cûk. Inutile dire che ha ragione. Oltre a Emilio Villa, andrebbero ricordati Lorenzo Bitetti, troppo dimenticato, Maurizio Ottavio Pergola, Claudia Cavallo Del Bosco (di cui si cita solo “Le foglie” e si trascura il resto). Autori che non scrivevano per il pubblico e l’inclita, ma anzitutto per se stessi, e poi – solo poi – per autentici “sommeliers” della letteratura.
    E’ da lì, da Villa, Bitetti, Maurofiglio, Innocenzini che bisognerebbe ripartire per una riscossa del gusto.

  12. Sarà, ma non mi suonate convincenti, nonostante lo sperpero di pezze d’appoggio e lasciar-cadere-i-nomi (per far vedere quanto ne so). L’autore che “scrive solo per se stesso e giammai per vendere” mi sembra più una razionalizzazione ex post, del tipo di cui parla WM: l’uva non è dolce, perciò non l’ho voluta. Mah. Perché dovrebbe far schifo farsi leggere dagli altri, poi…

  13. Inoltre, la letteratura non dovrebbe aver bisogno di “sommeliers”. Credo che scrivere per un’élite di “degustatori” sia reazionario, tanto quanto abbassare la propria scrittura al minimo comune denominatore del gusto del “pubblico medio”.

  14. NOTA BENE: In nessun punto il wumingo sostiene che chi non vende non vale, come lo accusa di fare “Cuk” (e altri che si sono subito accodati perché tanto non costa niente). Dice anzi, in modo abbastanza chiaro:
    “In realtà, pare banale dirlo, non tutti i libri che vendono sono per forza banali o compiacenti o derivativi, e non tutti i libri invenduti sono incomprensibili, elitari o – semplicemente – brutti.”
    Nandropausa, del resto, è piena di recensioni più che positive di libri che non hanno venduto né venderanno.
    Non si capisce quali obiezioni sensate debba suscitare un passaggio come questo:
    “quelle vendite sono lettori, sono esseri umani in carne ed ossa che desiderano leggere quel che scrive uno scrittore al punto da recarsi in libreria e rinunciare a una parte del loro reddito pur di portarsi a casa le sue parole. Queste persone compiono un piccolo sacrificio per noi, il minimo che possiamo fare è non parlare dei soldi che hanno speso come se ci facessero schifo.”
    A voi i soldi fanno schifo? Benissimo. Allora non firmate contratti, rinunciate ai diritti d’autore, mettete i vostri libri scaricabili gratis ecc. ecc.

  15. Coincidenza, su 24sette viene ripescata una vecchia intervista ai WM dove tra le altre cose dicono:
    ” Il “libero mercato” è una fandonia, non è mai esistito: non c’è speranza che un libro pubblicato da un piccolo editore, per quanto buono o addirittura buonissimo, arrivi da solo nelle palle degli occhi di chi lo leggerà e lo amerà.”
    e dopo indicano una serie di possibili rimedi a questa situazione.
    L’è qui:
    http://www.24sette.it/contenuto.php?idcont=522

  16. EHi, proposta interessante questa!
    Più che i “dati di vendita” i WuMing dovrebbero fornire un quadro esatto dell’estrazione sociale dei loro lettori: e Cûk non intende solo la loro posizione nelle celle della divisione economica, ma anche i loro gusti musicali, quali pittori contemporanei conoscono e seguono, che tipo di teatro sono soliti vedere, quali altri autori, quanti saggi leggono all’anno …
    Grande, in nome dell’arte si passa alla schedatura di massa!!!!!
    UN DUE TRE, PINOCHET!!!!

  17. Ecco vedi Cûk, il tuo intervento non è servito a nulla, e sai perché? perché dall’altra parte fanno marketing. Non operazione trasparenza: operazione marketing.
    Non poesia come tu vorresti che gli autori facessero. Marketing. Non rispetto del pubblico calandosi verticalmente nella propria interiorità. Marketing. Loro chiamano un lettore che non ha gradito un loro libro (pseudodifficile, in realtà una cazzata) lettore che trova il libro indigesto. Anche loro vorrebbero il lettore sommellier, ma non lo dicono chiaramente perchè fanno marketing. Loro vorrebbero un lettore sommelier che non avranno mai perché i loro libri messi a confronto di libri belli sono esili, sono invenzioncine, e nessun raddrizzatore con la testa spaccata in due tra il marketing e il sommellier, potrà mai raddrizzare questa situazione della sua testa smottata di qua e di là.
    Lasciali in pace Cûk, è inutile, tu vuoi fare un trapianto a una rapa. E’ utile parlare di cose belle. Il confronto tra le loro cosine e ciò che vale viene da sé. Non dargli peso, calali nel dimenticatoio.

  18. Barbieri è sempre più divertente 🙂 Basta sventolargli davanti agli occhi un drappo con scritto “WuMing”, e quello non capisce più niente e si lancia avanti a cornate, poi conclude (invariabilmente) che non vale la pena e bisogna lasciarli perdere i WuMing, ignorarli, seppellirli nel silenzio, non dedicarci tempo, allontanarsi sdegnosamente…
    …e allora qualcuno per farsi due risate gli agita di nuovo in faccia il drappo rosso e d’un tratto scompaiono i buoni propositi, Andreino ricomincia, riaprendo le cateratte: AAAAAAAARRRRGHHJHH!!!! VADE RETRO MARKETING!!!! RESTAURATORI!!!! TUTTI LIBRI DI MERDA!!!! VIVA SCARPA!!!! NON SAPETE UN CAZZO DI FUMETTO D’AUTORE!!!! VERGOGNA!!!!! TUTTO IL POTERE AL PRIMO AMORE!!!! NAZIONE INDIANA 2 E’ UN SIMULACRO!!!!! TEMPERANZA E’ UNA CRIMINALE!!!!! E’ TUTTA UNA CRICCA!!!!! E’ UN COMPLOTTO CONTRO CARLA BENEDETTI!!!!! BASTARDI!!!! VOI NON SAPETE CHI SONO IO!!!!! IO CIUCCIAVO SURREALISMO DALLA TITTA!!!! I MIEI FREQUENTAVANO BRETON!!!! SONO UN ESPERTO DI MUNARI!!!! SOLO IO HO CAPITO LA GRANDEZZA DELLE SCIMMIE DI VOLTOLINI!!!! LUCIO ANGELINI E’ UN GOLPISTA!!!!! LA LIPPERINI MUOVE I FILI DI UNA GIGANTESCA COSPIRAZIONE DI MERCATO!!!!! SIETE TUTTI MARCHETTARI!!!! TUTTI!!!!! TUTTI!!!! TUTTI!!!! Ma non vale la pena e bisogna lasciarli perdere i WuMing, ignorarli, seppellirli nel silenzio, non dedicarci tempo, allontanarsi sdegnosamente.
    E allora qualcuno, per farsi due risate, gli agita di nuovo in faccia il drappo e lui riparte:
    AAAAAAAARRRRGHHJHH!!!!
    ecc. ecc.

  19. Cazzo ragazzi, se siete ridotti alla parodia idiota, come faceste con VMO, siete davvero all’ammazzacaffé!
    Ripeto il mio invito: lasciamoli perdere, è l’unica cosa che meritano e l’unica cosa che li fa davvero incazzare.

  20. Ah, è vero, dimenticavo VMO, l’altra ossessioncina. Emendo l’intervento e aggiungo:
    QUELLA MERDA DI VMO!!!!!! 🙂
    E un altro tratto divertente è che dice sempre “voi”, perché non concepisce che a ridacchiare delle sue manie possa essere il primo che passa:: deve essere per forza tutta la “cricca”, materializzata in un sol uomo.
    Invito la signora Lipperini a verificare il mio

  21. però è vera questa cosa che sui blog letterari chi ripete “lasciamo perdere questo, lasciamo perdere quello” è proprio chi questo e quello li tira in ballo di continuo. A chi lo sta dicendo, di lasciarli perdere? A se stesso?

  22. IN RITARDO, UNA NOTA SULL’OBLIO, L’ANATEMA, ADORNO, MARX, BENJAMIN, LA MERCE, IL “POPOLARE” E ALTRE COSE
    Niente di nuovo. La solita discussione. Non vi si può lasciare soli un semestre. Avevo detto che su Lipperatura sarei intervenuto parlando solo di calcio (non era una boutade: io parlo quasi solo di calcio), ma non resisto alla tentazione di intervenire e mettere qualche punto fermo, senza alcuna fiducia che questo sia possibile.
    SULL’OBLIO. E’ il mio sogno, che certa gente mi lasci perdere, che si scordi di me, che si renda conto che noi WM facciamo cose diverse, con finalità diverse, in ambiti diversi, e quindi il loro pluriennale anatema non ha alcun senso.
    L’anatema si può scagliare solo tra correligionari, e la nostra religione è diversa, distante dalla loro quanto la santeria cubana dal giainismo.
    SUL “POPOLARE”/1. Io desidero scrivere narrativa popolare. Io cerco di muovermi nel campo delle culture pop, universo sempre più sfuggente e in via di “demassificazione”. Ci troviamo di fronte a un sempre più vorticoso brulicare di “nicchie”, il mainstream è sempre meno “main” e l’underground è sempre meno “under”. Io voglio stare lì dentro, starci con la testa e coi piedi, fare esperienza di queste trasformazioni, esplorare la “coda lunga” della domanda culturale.
    SU ADORNO, MARX ETC. Come molti, negli anni ho attraversato la Scuola di Francoforte, Adorno, la dialettica negativa, i situazionisti, Debord, Cesarano e la critica radicale italiana (mi sono anche sparato la “Critica dell’utopia capitale”), ma non ne sono rimasto entusiasta, anzi.
    Dopo attento rimuginare, ho concluso che quell’impostazione – legittima come qualunque altra – non faceva per me: vedere sempre e solo il bicchiere mezzo vuoto non mi dà alcun brivido di scoperta, non mi apre alcuno spiraglio di speranza, non mi fa capire cosa accade intorno a me. Ed è anche un atteggiamento molto poco marxiano, e poco umano. Essere umani, all’osso, significa stare nelle contraddizioni della vita. Marx, poi, non ha mai negato che quella del mercato fosse *anche* una spinta emancipativa. Il “Manifesto del Partito Comunista” contiene una apologia della globalizzazione che io sottoscrivo in toto, oggi più che mai.
    SU MARX, INFATTI… Andrebbe ricordato che Marx non faceva tirate moralistiche contro la merce, ma una critica concreta e fondata dei rapporti di produzione e di proprietà. L’accento su un aspetto più umanista/moralista lo ha posto chi si è concentrato sugli scritti riscoperti del “giovane Marx”, testi che lo stesso Marx sperava di aver affidato per sempre “alla critica demolitrice dei topi”.
    SU MARX, ANCORA. Marx seguiva e apprezzava la letteratura popolare e il romanzo d’appendice. Nel “Capitale” cita più volte Dickens, autore seriale per metodo di lavoro e modalità di pubblicazione, all’epoca considerato “basso”. Adorava Walter Scott, divorava romanzi storici. Inoltre si intendeva di canzone popolare e canzonacce da taverna. Della letteratura odiava (lo spiega in una lettera a Engels del 30 novembre 1873)”la iattanza, per le locuzioni di recente coniate, la falsa profondità, l’esagerazione bizantina, la civetteria dei sentimenti [e] la variopinta iridescenza”. Cioè tutto quello che oggi pare indispensabile per scrivere un libro di Vera Letteratura. De gustibus.
    MARX CANTASTORIE “A METRATURA”. Nel suo ricordo del padre [1894], Eleanor Marx scrive:
    “Era un cantastorie assolutamente di eccezione e inarrivabile […] Alle mie sorelle, io allora ero ancora troppo piccina, raccontava storie durante le passeggiate e queste storie anziché in capitoli si dividevano in ‘miglia’. ‘Raccontacene un altro miglio’, chiedevano le due ragazze. Quanto a me, di gran lunga prediligevo, tra tutte le meravigliose storie che il Moro mi raccontava, quella di ‘Hans Roeckle’. Andava avanti per mesi ed era formata di tutta una serie di storie…”
    Non vi è alcuna soluzione di continuità tra il Marx pubblico e questo Marx privato. Marx era un grandissimo narratore, qualunque mezzo espressivo, qualunque lingua e qualunque audience scegliesse.
    SU BENJAMIN. Tornando alla “dialettica negativa” e alla demonizzazione della merce che distrugge l’arte etc.: ritengo molto più feconda l’impostazione di Benjamin quando scriveva che sarebbe stato errato sottovalutare il valore per la lotta di classe delle tendenze che descriveva in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (riproducibilità, serialità, diffusione di massa ecc.): tali tendenze “eliminano un certo numero di concetti tradizionali – quali i concetti di creatività e di genialità, di valore eterno e di mistero -, concetti la cui applicazione incontrollata (e per il momento difficilmente controllabile) induce a un’elaborazione in senso fascista del materiale concreto”.
    SU BENJAMIN (CONTINUA). Nella nota 21 al suo breve saggio, Benjamin cita un lungo passaggio di Huxley, in cui si dice in soldoni che in ogni data società la quota di talento è finita e che se grazie alle nuove tecnologie si aumenta la produzione e la circolazione di “materiale letterario, illustrativo e sonoro” si finirà per produrre soltanto scarti “in senso assoluto come in senso relativo”.
    E’ una posizione che molti tengono anche oggi, senza sostanziali modifiche, di fronte all’estendersi della rete.
    Bene, il commento di Benjamin è lapidario: “E’ evidente come questo modo di vedere non sia progressista”.
    Sono d’accordo. Oggi, poi, è più reazionario di sessanta-settant’anni fa.
    CONCLUSIONE. Cionondimeno, io non scrivo letteratura popolare perché penso che sia più “progressista” che scrivere letteratura elitaria. Certo, la penso così, ma non è la molla che mi spinga a raccontare. Racconto perché mi piace farlo, perché le storie mi fanno vivere, perché so bene quanto sia bello sentirsi dire: “Ancora un altro miglio!”
    Accettate che esista chi si diverte così, e se volete l’Arte, la Letteratura, i Grandi Scrittori, cercateli altrove e non scagliate anatemi. Qui da noi troverete soltanto cinque cantastorie.
    Dixi.

  23. Cûk non se la prende; s’è troppo rilassato tra le cosce del blumare per farsi irritare dalle piccole esplosioni di petinsulti. Però una cosa Cûk si sente di dire: dai, almeno, fratelli-amici-compagni, usate meglio la fantasia, scovate tra le vostre risorse fibrillazioni insultose diverse dalla confusa e gratuita accusa di schedatura-pinochet-effbiai … Potete farcela, ne sono convinto … Così sembrate ridicoli, oltre che dimostrare la vostra scarsa dimestichezza con i contenuti e con l’ironia … Ma in fondo Cûk preferisce evitarvi e stare sul bell’argomento … Tutto il primo capoverso del pezzo di Wu Ming è una sparata contro i tipi alla Emilio Villa, ossia contro scrittori che, pur avversando il sistema-letteratura, e avversandolo prima di tutto nella prassi scrittoria, non smettevano di “lamentarsi” per non essere “cagati”… E’ un po’ come praticare testardemente una serie di relazioni sociali “altre”, poniamo realmente democratiche, e al contempo lamentarsi della scarsa democraticità della situazione … Dov’è il problema? Certo, all’apparenza, come dice il “raddrizzatore” (un nick da inquisizione), WM non sostiene che chi non vende non vale … Però sostiene – di fatto lo fa – che chi vende vale di più. Lo dicono indirettamente, e in particolare lo lascia intendere proprio il fatto che si fermano con tanto scrupolo sui dati di vendita. Se così non fosse, perché dare tanto peso ai numeri? Guardate, sembrano dire, noi vendiamo molto di più di tutti quei pirla che appaiono in televisione e che si atteggiano a so-tutto-io … Sapete cosa pensa veramente Cûk? Che il pezzo di Wu Ming denoti una lunga coda di paglia, dovuta al fatto che i signori “vendono” e vendono bene. Sapendo loro (non essendo stupidi) che in tempi di mercificazione totale tutto ciò che è promosso dal mercato “puzza”, tentano una autodifesa, ma in realtà si arrampicano sugli specchi. Scrivono: “Quando parliamo di copie “vendute”, c’è ancora chi trova la cosa “inelegante”, sconveniente, venale, poco artistica”. Ma la questione è proprio questa: VENDERE E’ POCO ARTISTICO. Cûk Non lo dice così, tanto per dire. Come i migliori studi sul rapporto tra arte e mercato dimostrano (e sfido chiunque a smentire Cûk), le due realtà si escudono a vicenda: dove c’è profitto, non c’è arte. Più è pressante l’esigenza di valorizzazione economica, più cala l’artisticità del prodotto (ma davvero le analisi sulla “industria culturale”, poniamo da Adorno a Jameson & Harvey, non vi dicono nulla?). D’altra parte, il valore d’uso di una merce (la sua artisticità) è strettamente dipendente dal suo valore di scambio (la sua economicità): ma è il secondo che determina, direbbe il sempre utile Marx (e determina spesso anche le “forme” del primo, ossia determina COME vanno scritti i libri). Siccome, sino a prova contraria, siamo ancora nel capitalismo trionfante, è ovvio che girano le merci FUNZIONALI al meccanismo. Certo, essendo il meccanismo “contradditorio”, possono circolare anche merci – diciamo così – antieconomiche. Vero, verissimo. Ed eccoci ad un altro snodo del problema. Quali merci si distaccano dalla propria condizione di merce? O meglio: quale merce può ambire a far risaltare, più che il valore di scambio, il valore d’uso? Per me la risposta è proprio quella che Wu Ming (e Canzian et ultra) nega: SCRIVERE SOLO PER SE STESSO (per niente e per nessuno, diceva Beckett: “io scrivo per niente e per nessuno”). Solo quando la scrittura E’ UN FINE IN SE’ – il fine della scrittura è la scrittura – siamo nel campo dell’arte (questo passo è di Gadda). Ma su ciò Cûk sa bene che né Wu Ming né Canzian né altri “raddrizzatori” (ritorno all’ordine?) potranno mai concordare, essendo comunque, all fin fine, fautori di una letteratura che con la l’arte non c’entra nulla …
    Cûk alza i calici di veleno e brinda alla way of death

  24. Caro Cuk, il contesto è un altro e, visto che non lo conosci, lascia che te lo spieghi.
    Noi, ai nostri lettori, rendiamo conto di tutto, di ogni nostra scelta, di ogni firma di contratto, di ogni esito (commerciale e non), della riuscita o della non riuscita di ciascun progetto, in Italia e all’estero.
    Per sincerartene, ti basterà navigare il nostro sito.
    In passato, prima di compiere scelte strategiche, abbiamo anche chiesto lumi alla comunità dei lettori.
    Spesso abbiamo trasformato le presentazioni in momenti assembleari, per avere pareri su progetti appena avviati o addirittura da avviare. Rendiamo conto anche degli scazzi con gli editori.
    Da tre anni pubblichiamo i dati di vendita, alti o bassi che siano (alcuni sono medio-alti, altri sono bassi, alcuni titoli vendono poche centinaia di copie all’anno), per i motivi spiegati sopra e che Loredana ha riportato. Laicità, trasparenza, informazione.
    Non ci sembra una cosa granché sovversiva, e in fin dei conti… son cazzi nostri. Eppure ogni anno scoppia l’inferno. Se uno scrittore rivela quanto vende, pare quasi stia “dissacrando”.
    In realtà il problema è un altro: si è concordata, tra gli scrittori, un’omertà sui dati di vendita che – questa sì – lascia i lettori in balìa del commerciale. Se non si dà al lettore un’idea precisa di quanti libri si comprano in Italia, titolo per titolo, autore per autore, gli unici dati di vendita che circoleranno saranno quelli “dopati” degli articoli-marchetta e delle fascette di copertina. I colleghi potranno continuare a fingere di pensare che pecunia olet ed è estranea all’arte, tanto il “lavoro sporco” (sparare balle su quanto si vende) continueranno a farlo altri, e il lettore non avrà la percezione di cosa succede.
    Chi vende mille-duemila copie di un suo libro (risultato non disprezzabile, oggi, e addirittura sbalorditivo se si parla di piccola editoria) verrà considerato – e si considererà – un “fallito” perché la Fallaci vende un milione di copie, Faletti ne vende due milioni, Melissa P. ci va vicino ecc. Vai poi a capire se è vero. Queste scoraggianti “bolle” si formano indisturbate anche perché parlare dei dati di vendita reali è ritenuto contrario al bon ton.
    Questa ci pare una consuetudine ipocrita, e continueremo a violare l’etichetta, anno dopo anno.

  25. sì, d’accordo, ma io non volevo mettere in dubbio la vostra “onestà” di fondo, lungi da me. Credo si capisca che mi interessa porre altre questione, che poi sono quelle che tu stesso poni nel precedente post, di cui
    condivido il primo capoverso e la conclusione, meno il resto. I tuoi libri – i vostri come entità collettiva – non sono “letteratura”, per lo meno non per come la intendo io. Tu la chiami “letteratura popolare”, e può anche andarmi bene; per lo meno se presa alla stregua della differenza che viene fatta in musica tra musica colta e pop. Solo che il sottoscritto crede deleterie entrambi. E a Bruce Springsteen o a Salvatore Sciarrino preferisco John Zorn. Credo che ciò possa bastare, anche perché sul resto che non condivido si finirebbe a fare gara di citazioni, tirando Marx (o Benjamin) ognuno dalla propria parte; non mi pare il caso. E poi ti dirò in tutta franchezza: alle chiacchiere sulla letteratura preferisco anch’io parlare di calcio. E pensa che, da tifoso leningranata, sto ancora festeggiando la retrocessione dei gobbi (mentre niente festeggiai per il delirio popolar-fascista della nazionale) …
    Cûk

  26. Vedere riconosciuta la nostra “buona fede” (espressione che peraltro detesto) è già un bel passo avanti, comunque vada.
    Che tu ci creda o no, anch’io – che pure non sono torinese né torinista – ho festeggiato il ritorno in A del Toro. Ho amici granata, e so quale perseveranza e forza d’animo sia occorsa in quest’ultimo trentennio per continuare a tifare granata all’ombra della Juventus più arrogante di sempre. La Juve in B e il Toro in A… GRANDE NEMESI.
    Invece sul fatto che John Zorn (attenzione, qui parli con un patito di free jazz) non faccia parte del “popular” si potrebbe disquisire: ha inciso album di speed metal insieme al batterista dei Napalm Death, ha riarrangiato colonne sonore di film western, ha dedicato una composizione a Mickey Spillane (autore “basso”, bassissimo), ha attinto dall’immaginario dei film di gangster e di spionaggio…
    Oggi il “popular” non si identifica col mainstream: come dicevo prima, è un proliferare di nicchie. Alcune molto grandi, altre molto piccole. Non è un’immediata dimensione di massa a caratterizzare il popolare: sono le modalità produttive e di messa in circolazione, è l’approccio non pregiudiziale né snob ai materiali da utilizzare, è la dinamica con cui si crea una comunità intorno all’opera e alla sua fruizione, è la quantità di “rimbalzi” che l’opera ha nelle reti e nell’immaginario ecc.
    Ma stiamo per andare alla deriva. Mi fermo qui e torno al lavoro.

  27. “dove c’è profitto, non c’è arte”, dice Cuk,
    ed io la trovo emerita sciocchezza anche l’avesse detta il buddha Sakyamuni riapparso a Rivoli o a Trofarello,
    è emerita sciocchezza italica gonfiata di quella sete di assolutismo e di bionconerismo dicotomico che tanto va sempre di moda quaggiù ,paese tanto cristiano di inferni o paradisi,
    Trovare il canone di bellezza, o 0, o 10, mai una misura mediana.
    Est modus in rebus.
    Non è che ci sia un poco di arte anche in qualcosa che vende?
    Si potrebbero far elenchi, ma è una perdita di tempo, qui.
    MarioB.

  28. sì, certo, caro MarioB., la frase è assoluta; ma se inteso bene quanto da me scritto sta a significare: il valore d’uso (l’artisticità) è succube del valore di scambio (l’economicità). And stop.
    Per WM 1: io ho fatto il nome di John Zorn proprio perché non è ascrivibile né alla musica colta né a quella pop, per il semplice fatto che non ha senso – e la sua pratica lo conferma – questa distinzione. Il problema è il tipo di percezione che viene attivato, e su questo sarebbe importante stabilire quanto confermi lo stato di cose o quanto possa aprire spazi di crisi …
    Cûk

  29. @ Canzian
    Poldo cita:
    Lorenzo Bitetti Maurizio Ottavio Pergola, Claudia Cavallo Del Bosco (di cui si cita solo “Le foglie” e si trascura il resto) Maurofiglio e Innocenzini
    Non è che “lascia cadere i nomi”
    li “dà” proprio;–))

  30. Forse non è chiaro cosa significhi “pop”, contrazione di “popular”.
    “Popular” non è il contrario di “colto”. Frank Zappa, per fare uno solo tra milioni di nomi possibili, è “popular music” (per quanto di nicchia), e si tratta di uno dei musicisti più “colti” del Novecento.
    “Popular” è la cultura che si forma e riforma nell’immaginario creato dalla perdita dell’aura di cui parlava Benjamin. E’ la cultura nata dalla democratizzazione dell’accesso a “materiale letterario, illustrativo e sonoro” tecnicamente riproducibile che Huxley stigmatizzava. Libri, fumetti, cinema, musica, giornalismo, fotografia, televisione, moda, software, videogiochi e chi più ne ha più ne metta. Queste non sono affatto espressioni “incolte”. Anzi, deve gestire molta più informazione e “cultura” chi programma un videogioco di quanta ne serva per suonare un notturno di Chopin.
    Capisco da dove trae origine l’equivoco: “popular” = “popolare” nel senso di folk. Ma la dimensione “popular” non coincide con quella “folk” preindustriale, e comunque nemmeno il folk era “incolto”. Aveva, molto semplicemente, una cultura diversa, riottosa alle classificazioni (scala temperata semitonale ecc.) tipiche della cultura che si era (ideologicamente) autodefinita “colta” (cioè la cultura delle classi alte europee). Siccome sul pentagramma non erano visualizzati i quarti di tono, i musicisti “colti” dicevano che i cantanti folk erano “stonati”, cioè un’élite dalla mentalità ristretta rovesciava la propria ignoranza e limitatezza in autorappresentazione di superiorità.
    Un tempo la “popular culture” era chiamata “cultura di massa”. Oggi che il mainstream è in via di frammentazione e la rete sta rivoluzionando i modelli produttivi – estendendo l’area del do-it-yourself e trasformando tutti in “prosumers” (consumatori che sono a loro volta produttori) – è un’espressione che ha ancora senso, ma meno di un tempo.

  31. @ Cesare Musatti
    a,b, ha detto che sono una criminale?
    Ma non ci credo proprio, non fa parte del suo linguaggio.
    Mi ha solo detto che ho un ego come una mongolfiera. E non mi è dispiaciuto, vuol dire che veleggio sul paesaggio:–))

  32. @ Poldo. Sono buoni tutti di fare una lista di nomi, basta aprire l’elenco telefonico a una pagina a caso e trascrivere. Ecco le occorrenze del cognome “Fantini” sull’elenco di Gorizia:
    Fantini Cibej Mafalda
    Fantini Elio
    Fantini Emma
    Fantini Fulvio
    Fantini Laura
    Fantini Marco
    Fantini Paolo
    Fantini Raffaella
    Fantini Silvano
    Fantini Stolli Nella

  33. a.b. a Temperanza, su Vibrisse:
    “Questo che tu consumi è il solito delittuoso spettacolino internettiano in cui si dicono cose immondamente esili con un ego gonfio come una mongolfiera”.
    delittuoso = criminale. O no? :’)

  34. @ Musatti
    Son d’accordo con Assaggioli, tra dire che ho consumato “un delittuoso spettacolino internettiano” e dire che sono una “criminale” c’è una grande differenza.
    Se poi a.b. usa toni sopra le righe non mi turba, riguarda lui, e per di più sono commenti su un sito. Se ci fossero anche incroci umani, dietro, potrebbe infastidirmi, così no.

  35. Il problema è questo: Temp ha scritto su vibrisse una cosa che a mio parere è facilmente interpretabile come mia mancanza di sensibilità che mi renderebbe sordo all’Altro. Siccome il discorso era diverso e mi aspettavo che Temp mi seguisse le ho risposto sopra le righe. Temp è una persona colta e dotata di senso critico ma pregiudizialmente è contro la “visione”. Mi chiedo come si può essere contro la visione e commuoversi per l’espressione artistica che è sempre originata da visioni?
    E’ questo il delitto: che chi è intelligente caschi su queste cose. Mi immagino una Temp diversa e lei non si sforza di corrispondere alla mia visione. Desidero questa metamorfosi come Picasso desiderava che la Stein di sforzasse di assomigliare al suo ritratto! Sensa visione l’arte non è arte, cioè non è qualcosa di potente che fa rollare e beccheggiare l’anima fino al mal di mare.
    Visione picassiana di Gertrude Stein o il cammino di Temperanza

  36. a.b.
    dopodomani vado miracolosamente in vacanza anch’io e non potrò più rispondere, dunque cercherò di essere chiara e mi scuso se vado OT rispetto a questo post.
    Se tu leggi il commento di Mozzi su vibrisse al quale mi sono associata parlava di “visione condivisa”. Io non sono pregiudizialmente ostile alla visione, come potrei, su questo hai ragione. Ero solo d’accordo con Mozzi che ognuno ha la sua e di rado, anzi, mai, gli artisti condividono le loro, magari condividono un programma, uno spirito del tempo, molto di rado si condividono visioni.
    E’ più facile condividere visioni politiche o programmatiche o ideologiche, perché non sono proprie, ma nascono in altro modo e qui non occorre che mi dilunghi:–).
    Mi pareva che dicendo “io non ho una visione condivisa” Mozzi parlasse come scrittore, che ha la propria, grazie a dio.
    Con chi Kafka condivideva la propria? Con Brod? Ovviamente no, Brod però era sicuro di sì, e in nome di quella condivisione si è autoeletto interprete di Kafka.
    Tutto qui.
    Cmq, voglio che tu sappia, che quasi sempre capisco cosa intendi dire. Poi, certo, non sempre condivido.
    Ciao

  37. Non so se sono nel posto giusto…volevo sapere i nomi dei geni incompresi della letteratura, cioè quelli che hanno trovato prestigio solo dopo la loro morte. Se mi potete aiutare…ne sarei felice!
    Grazie mille…

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