IL VIRUS DI FIBONACCI

Numeri! Se ne discute, in questi giorni, qua e .
E i Wu Ming, come ogni anno, pubblicano i dati di vendita dei loro libri
aggiornati al 31 dicembre. Spiegando perché:

Tra gli scrittori
"idealisti" (nel senso filosofico, cioè che antepongono l’Idea di
Letteratura alla realtà concreta e terrena delle narrazioni) è uso fingere di
non auspicarsi il successo, negare che il libro sia anche (orrore!) una merce,
simulare disinteresse o addirittura disgusto per la prospettiva di vendere
tante copie… Peccato che tale posa di indifferenza sia in contraddizione coi
toni lamentosi usati dai medesimi nel descrivere la propria condizione di
"poco-vendenti", "poco-cagati", "relegati ai
margini", "incompresi" etc. Ecco che ci viene riproposta la
sbobba del genio-che-soffre, accompagnata alla tirata sul popolo infingardo e
bue. Ma perché soffre, ‘sto genio, e perché mai inveisce, se è riuscito nello
sbandierato intento di non vendere? Conseguendo l’insuccesso, ha avuto
successo, e allora che altro vuole? Se vendere è per i venduti, se sono i
lettori a non meritarsi certi libri, se l’ars è longa e la vita è brevis e sarà
la storia della letteratura a capire quanto vale il tale scrittore etc., allora
perché pubblicare in vita? Perché rivolgersi a un editore? Perché non lasciarlo
nel cassetto, il sudato manoscritto? L’unico valido interlocutore non è forse
l’archeologo che un giorno scaverà e troverà i resti della scrivania? Che senso
ha lamentarsi del fatto che altri vendano, se vendere è cosa ignobile e il
danaro è
stercum diaboli?
In realtà, pare banale dirlo, non tutti i libri che
vendono sono per forza banali o compiacenti o derivativi, e non tutti i libri
invenduti sono incomprensibili, elitari o – semplicemente – brutti. Eppure,
ancora troppa gente schifa chi vende solo perché vende ed esalta chi
"floppa" solo perché "floppa". Occorre un approccio più
laico e meno ipocrita. Se uno pubblica un libro è perché si auspica che altri
lo leggano, possibilmente molti altri, più ce n’è meglio è. Se lo pubblica
presso un editore, accetta che il libro rechi un prezzo in copertina e venga
scambiato con denaro. Se firma un contratto in cui gli viene accordata una
percentuale (bassa o alta che sia) del prezzo di copertina, vuol dire che si
auspica di guadagnarci qualcosa pure lui (e ci mancherebbe altro, è stato lui a
scrivere!). Quanti scrittori si sottraggono a questa trafila di loro spontanea
volontà? Non ce ne vengono in mente: di norma, gli scrittori che pubblicano un
libro vogliono anche venderlo. Quanti scrittori falliscono nel sottoporsi alla
trafila poi vanno in giro a dire che l’uva non è dolce, anzi, è pure guasta?
Troppi.
Quando parliamo di copie "vendute", c’è ancora
chi trova la cosa "inelegante", sconveniente, venale, poco artistica.
Dopo una presentazione di New Thing a Udine, un blogger si disse indignato per il fatto che Wu Ming
1 avesse usato la parola "vendite", ed è solo un esempio tra i tanti.
Non ci si rende conto che quelle vendite sono lettori, sono esseri umani in
carne ed ossa che desiderano leggere quel che scrive uno scrittore al punto da
recarsi in libreria e rinunciare a una parte del loro reddito pur di portarsi a
casa le sue parole.
Queste persone
compiono un piccolo sacrificio per noi, il minimo che possiamo fare è non
parlare dei soldi che hanno speso come se ci facessero schifo.
Noi, quindi, siamo contenti quando ci imbattiamo in
colleghi che snocciolano numeri come fossero olive nere, laicamente, senza
problemi né bigottismi. Incitiamo tutti i colleghi a rendere noto quanto vendono:
per trasparenza, per condividere informazioni utili coi lettori, per dare
un’idea di quanto si legga oggi in Italia, di quale sia la soglia oltre la
quale un libro è considerato "di successo" etc…

Ad esempio, lo sanno i lettori che la tiratura media di un
libro in Italia, best-seller compresi, è di 4.500 copie (dati AIE relativi al
2005), e che a tenere "alta" la media sono soprattutto i libri
scolastici? Questo dato specifico non lo abbiamo a portata di mano, ma è
notorio che la stragrande maggioranza dei libri pubblicati in Italia (circa
53.000 titoli all’anno) vende meno di mille copie (ovviamente non teniamo conto
dei libri allegati a giornali e riviste). Il lettore si trova esposto solo
all’occasionale cifra da capogiro, i due milioni di copie di Io
uccido
o le ottocentomila di Io
non ho paura
, e non riesce a farsi un quadro
della situazione. Forse, se sapesse quanto vendono davvero certi grossi nomi e
"mostri sacri" che se la tirano da mammasantissima e ras del
quartiere, comincerebbe a chiedersi come mai li vede sempre in tv o sui
giornali a cacare sentenze su qualunque argomento.

Ps. La vostra eccetera non ha
numeri da elaborare al momento. In compenso sta cominciando a darli, e ad
ogni risveglio pensa di vedere sopra di sé le pale di un ventilatore, di
sentire la voce di Jim Morrison che canta The
end-No safety or surprise-The end
e manca poco che si alzi dal
letto dicendo “Saigon…merda!”.

Pps. Due libri anti-caldo.
Di ferocia quasi pari a quella che vive il succitato
Willard: La casa vuota di Willem Frederik Hermans (postfazione di Cees
Nooteboom), Bur.
La assai benvenuta riedizione di Costretti a sanguinare
di Marco Philopat, Einaudi.

51 pensieri su “IL VIRUS DI FIBONACCI

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