L’OTTO MARZO CON LUCA RICOLFI: UNA RIFLESSIONE

Naturalmente, ognuna può vivere l’8 marzo come vuole. Partecipando, manifestando, parlando, scrivendo o addirittura ignorando: dal momento che la narrazione che sta passando è che alcune vogliono imporre qualcosa alle altre, è bene chiarire che non è vero, e che la libertà di scelta è una faccenduola che i femminismi hanno sempre difeso. I femminismi, per favore, perché sta passando un’altra narrazione velenosa, ovvero che il femminismo sia uno e uno solo.
Detto questo, esiste anche la libertà di critica. E si permetta a chi scrive un moto di stupore nel leggere l’annuncio di un convegno che sta circolando di bacheca in bacheca: è indetto dalla Fondazione Luigi Einaudi e ha per titolo I femminismi (meno male, ndl) di fronte alla cultura woke.
Ora, è interessante, e sconcertante, che si parli di “cultura woke” mentre si legge giorno dopo giorno cosa sta facendo l’amministrazione Trump per eliminare qualsiasi progetto di inclusione: dalla cancellazione delle donne nel sito Nasa (qui) all’annuncio fresco fresco del Dipartimento dell’Istruzione, che ha inviato alle scuole una lettera minacciando l’interruzione dei finanziamenti federali se avessero tenuto conto delle politiche di inclusione razziale nelle decisioni su borse di studio e assunzioni, ma anche solo accennato alla razza in “tutti gli altri aspetti della vita studentesca, accademica e del campus”. Qui l’articolo.

Ma torniamo al convegno. Cui partecipano: Lucetta Scaraffia e Anna Paola Concia in apertura e chiusura, Silvia Niccolai, Adriana Cavarero, Olivia Guaraldo, Edoardo Albinati, Claudia Mancina, Fabrizia Giuliani. E il politologo Luca Ricolfi, chiamato a intervenire sul tema “Il patriarcato è ancora un pericolo?”.
Ora, ripeto, ognuno trascorre l’8 marzo come vuole. Dunque anche in un convegno che, presumibilmente, andrà nella direzione di parte del femminismo della differenza, peraltro molto rappresentato da ultimo , che su alcuni punti e in alcune dichiarazioni è molto vicino a quella dichiarazione trumpiana “esistono solo due sessi” . Ci sta. E’ importante parlarne ed è anche bello che ci sia uno scrittore come Albinati che ne La scuola cattolica ha ragionato meticolosamente sul maschile.
Ma Ricolfi? Ricolfi, d’abitudine, interviene sul femminismo, al singolare, in due momenti dell’anno, a marzo e a novembre, nella vicinanza della Giornata Internazionale della donna e  della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Sostenendo sostanzialmente un paio di concetti.
Primo: le  transfemministe imbavagliano le altre. Scrive su  Repubblica, il 20 novembre 2021:

“Il caso di Stock (docente di filosofia dell’Università del Sussex, accusata di transfobia e costretta alle dimissioni, ndl) è solo l’ultimo di una serie impressionante di episodi di censura e di intimidazione che, specie nel mondo anglosassone e con crescente frequenza negli ultimi anni, hanno colpito la libertà di espressione nelle università, nelle scuole, nei giornali, nell’editoria, nella televisione, nel cinema, nello spettacolo”.

Quali casi? Gli risponde benissimo, chiedendogliene conto, Cristiana Alicata su Valigia blu 
E aggiunge:

“È come se a qualcuno venisse in testa di vietare il matrimonio tra uomini e donne perché ogni giorno un uomo ammazza la propria moglie (resta comunque statisticamente una minoranza di maschi, seppur drammaticamente numerosa) o come se qualcuno volesse vietare in blocco qualsiasi tipo di immigrazione perché “potrebbero arrivare i terroristi”. Non solo, ma nel pezzo e nelle affermazioni sull’argomento si perdono i riferimenti sui numeri delle persone trans che subiscono violenza in generale e per esempio, nello specifico, nelle carceri (quando costrette a stare in carceri maschili). È come se quel pezzo di femminismo, unito a questa parte di maschi che lo difende trasformandolo in vittima (vittima perché si vuole affermare che non è concesso loro di avere un’opinione e non che le si critica perché da quell’opinione discende la diffusione del terrore nei confronti delle persone trans), si sia dimenticato che la radice della violenza contro le persone trans è la stessa radice della violenza contro le donne”.

Quando al patriarcato, è morto. Ricolfi lo ha ribadito ed è stato prontamente citato da Nicola Porro , sostenendo che ormai sopravviveva solo fra, uhm, i migranti. Era  il 25 novembre scorso:

“Siamo stati talmente martellati dalla tesi che la violenza sulle donne dipende dalla sopravvivenza del patriarcato che, per molti, negare il patriarcato suona come negare la violenza sulle donne. Eppure, se lasciamo per un attimo gli ardori ideologici dei credenti nel patriarcato, e ci concediamo il minimo sindacale di lucidità, non possiamo non vedere le ottime ragioni dei negazionisti. Che sono tante e solidissime”. Insomma, bisogna combattere il patriarcato dove  “sopravvive davvero, e cioè nelle enclave religiose e culturali che, all’interno delle società occidentali, ospitano famiglie davvero patriarcali, come quella di Saman Abbas, che ha pagato con la vita il suo rifiuto di un matrimonio combinato“.

Pochi mesi prima, il 18 marzo, aveva sostenuto che forse, oltre al patriarcato, era morto anche il femminismo, o quasi. Lo scrive sul Messaggero, ripreso da Riparte l’Italia

“Il femminismo è morto, come ha sostenuto qualche giorno fa la storica Lucetta Scaraffia? O invece è più vivo che mai, come le è stato prontamente ribattuto?”. Risposta:  “Probabilmente sono vere entrambe le cose: il femminismo è vivo, ma ha ben poco a che fare con quello storico”

Ora, fermo restando (e tre) che ognuna trascorre l’8 marzo come vuole, ci terrei a dire solo due cose: prima, che personalmente farmi fare la lezione da un sociologo su cosa siano il patriarcato e il femminismo mi fa un po’ impressione, conoscendo in dettaglio le sue opinioni. Seconda, che sarebbe ora di ricordare che il femminismo storico non coincide col femminismo della differenza. Se conoscete Lidia Cirillo, sapete che dall’interno quel filone è stato contestato nel famigerato secolo scorso, come scrive la stessa Cirillo sui preziosi Quaderni viola, qui 

“La cosa strana e paralizzante era che, negli spazi in cui con le nostre avversarie condividevamo la pretesa di rifondare il comunismo, degli antefatti colti del femminismo che ci dispiaceva si discuteva solo molto, molto raramente. Essi venivano piuttosto evocati a giustificazione e sostegno autorevole di un femminismo “pratica di parole” finalizzate alla creazione di un gruppo di pressione per quello che oggi si chiamerebbe empowerment ma che allora (forse più realisticamente) considerammo un esperimento in vitro della formazione di una micro-burocrazia femminile. Fu per questo che decidemmo di entrare nel merito, facendo leva sulle competenze di alcune di noi e dell’area limitrofa. Eravamo “politiche” e in teoria non avremmo avuto alcun dovere di conoscere le tecniche di decostruzione di Derrida, che cosa davvero sulle donne volesse dire Lacan e le differenze tra Irigaray e Kristeva”.

I femminismi sono plurali, lo ripeto fino alla nausea. Non esiste una sola visione: né, in questo momento storico terrificante, quella visione va imposta. Non quando bisognerebbe, invece, unirsi per contrastare i veri mostri che stanno uscendo allo scoperto.
Vengo in pace.

 

 

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