INTERROGATIVI SUL VAMPIRO

Leggendo La messa di mezzanotte di Paul Wilson che Gargoyle manda in libreria fra una settimana (in questa pagina trovate anticipazione e booktrailer), mi vengono in mente un paio di domande.
Premessa: il romanzo è un sano horror vampiresco-apocalittico. Ovvero, i nonmorti approfittano della “fine del senso dell’utopia nella storia”, per dirla con Remo Bodei, o del cosiddetto crollo delle ideologie, per dirla in cronachese, e pian piano iniziano a sopraffare gli esseri umani. Naturalmente, utilizzano i loro stessi metodi (in fondo, i vampiri sono stati umani a loro volta) e assoldano gruppi di viventi ambiziosi, cinici o semplicemente disperati che durante il giorno fanno il lavoro sporco. A fronteggiarli, un rabbino, un sacerdote cacciato dalla propria chiesa con false accuse di pedofilia, una suora che si scopre feroce. La cosa interessante è che i vampiri sono, nei fatti, la scintilla che porta il gruppo di resistenti ad interrogarsi sulle proprie certezze precedenti, e a rivederle: siano esse di carattere religioso, esistenziale, intellettuale.
Mi fermo qui e passo alle domande. Mediamente, un horror di onesta fattura ha in altri paesi (America, soprattutto) un pubblico di cento-centocinquantamila lettori: questo è quanto mi raccontava tempo fa una persona che lavora in questo settore. In Italia, invece, gli editori tendono ancora ad essere diffidenti: come se l’horror (con alcune eccezioni, naturalmente) continuasse ad essere la zona del cosiddetto genere meno appetibile. Poi, certo, ci sono esperimenti da sostenere come quello della citata Gargoyle (che pubblica Simmons, McCammons, Yarbro, fra gli italiani pubblica e ripubblica Manfredi, per dire). Ma sembrano ancora essere nicchie. Buffo. Eppure Danse macabre ha ormai i suoi begli annetti…
Ah, la seconda domanda. Quasi superflua. A volte mi chiedo perché un medio horror venga regolarmente trascurato, nell’attenzione dei media, rispetto a un medio mainstream. Se volete i nomi, posso dire che ho letto l’assai celebrato Mentre mio figlio fa l’amore di Renate Dorrestein e mi ha lasciata non solo indifferente, ma vagamente esasperata (ancora! Ancora il piccolo universuccio femminile che va in crisi perché i figli crescono e le mamme imbiancano?).
Continuate a stare bene.
Ps. Una scrittrice tutt’altro che ombelical-claustrofobica è Veronica Raimo. Ho finito il libro ed è notevolissimo. Poi ve ne parlo.

19 pensieri su “INTERROGATIVI SUL VAMPIRO

  1. non ho letto il libro della Dorrestein – lessi qualche anno fa Album di famiglia che non era male per quanto riguarda l’argomento, un po’ meno per la forma – e mi stupisce che un’olandese possa scrivere romanzi su donne che vanno in crisi per figli che se ne vanno e genitori che hanno bisogno di assistenza.
    Piccola conversazione che mi è stata tradotta un giorno da un amico: “Quanto ti manca per liberarti di tuo figlio?” “Ancora un anno”. ” Che fortuna, a me due”.
    Credo che la politica di rinsaldamento della famiglia portata avanti dal Governo stia avendo un suo effetto se è stato scritto un romanzo del genere. E se a noi una storia del genere esaspera, per loro – loro Paesi del Nord- è una novità.

  2. giusto, ottima intuizione alessandra. spesso non avere pregiudizi aiuta a riflettere sul perché delle cose.
    in ogni caso, a prescindere dall’ombelico o meno (è una definizione così obsoleta, così sorpassata, non la usano più nemmeno nel cinema), ho iniziato anch’io la raimo, e devo dire che mi colpisce, che c’è roba interessante.

  3. Facciamo un salto al cinema. Conosco (e conosciamo) critici cinematografici per i quali un film è degno solo se thailandese con i sottotitoli in mandarino. Critici che si sono quasi scusati con i lettori per essersi sorpresi a sorridere (poco, ci mancherebbe) guardando una pellicola di Woody Allen.
    Intellighenzie rigorose e intransigenti che amano solo quelle opere che ti fanno sentire un imbecille incapace di penetrare nella profondità del messaggio.
    Nei confronti della letteratura “horror” esiste, più o meno, lo stesso atteggiamento. Troppo spesso un libro più ti martirizza i testicoli e più meriterebbe il Nobel.
    Snobismo da quattro soldi, a mio avviso. Perchè scrivere un “horror” (di qualità ovviamente) presuppone doti ben più elevate che per narrare, ad esempio, vicende adolescenziali alla moda e senza costrutto. Frappè di aria fritta che strizzano l’occhio a un pubblico che prima o poi ne avrà la nausea.
    Un grazie a Loredana per aver avuto il coraggio e l’intelligenza di affrontare l’orrifico argomento.

  4. Il grazie va ad Enrico, intanto. E una precisazione.
    L’esasperazione della sottoscritta riguarda semplicemente la consuetudine di molte scrittrici a descrivere un mondo piccolo: quello degli affetti familiari (che può essere vastissimo, se ben affrontato) ambientato e circoscritto fra le pareti della propria casa.
    Mi rendo conto di quanto sia noioso e abusato l’aggettivo ombelicale: spiacente, al momento non ne trovo un altro che restituisca il senso di claustrofobia che, a mio personalissimo parere, provo nel leggere di crisi da prima/ultima/mancata mestruazione, rapporto conflittuale con padre/madre, abbandono di marito/amante/figli.
    Questione di gusti, naturalmente.

  5. verissimo. questione di gusti. io intendo solo che generalizzare non ha senso. se generalizzassi, non leggerei mai un horror, e sarebbe stupido. il romanzo della raimo è presentato come un ménage à trois, e uno lo vede e pensa: chepppalle. e invece poi c’è qualcosa dentro. qualcosa di diverso.
    inoltre, visto che gli abbandoni – di mariti, di figli, di amanti, dei gatti scappati dal balcone – fanno parte della nostra esperienza, ha senso che se ne parli.
    i rapporti conflittuali coi genitori possono essere un tema inutile e sputtanato, oppure possono dire qualcosa di come vanno le cose nelle nostre famiglie, invece di fare family day e contro-family day del cazzo. non è questione di voler rinchiudere la letteratura nelle case, o nelle stanze. è che la nostra vita è chiusa dentro case e dentro stanze. sempre. la nostra vita parte dal chiuso. lavoriamo nel chiuso, mangiamo nel chiuso, pensiamo nel chiuso, organizziamo attentati terroristici nel chiuso delle stanze, concepiamo figli nel chiuso delle stanze, non esiste separazione fra chiuso e fuori, fra pubblico e privato, fra corpo e società, fra politica e famiglia, fra scrittura e vita quotidiana.
    questo dico. punto. e le generalizzazioni per partito preso mi allarmano, prima di tutto.
    mi commuove di più “anche libero va ben” di kim rossi stuart (oddio, l’ho detto!) che un qualsiasi horror. c’è una casa dentro quel film. c’è una famiglia, vera. la vera – verosimile, intensa – ansia di un bambino verso suo padre, verso il dolore dei propri genitori. non è affatto un tema facile e non è nemmeno sputtanato. per ora mi interessa più della “notte del drive-in”, senza nulla togliere alla notte del drive in, per dire.
    lo trovo snobismo al contrario. questa ostinata sopravvalutazione del genere. questo voler attaccare l’etichetta intimista a tutto ciò che se ne separa. che non si inventa storie nuove, strabilianti, come non lo faceva carver del resto (ditemi: che storia c’è nel racconto “cattedrale”, che storia c’è dietro la poesia “mia moglie”?), che indaga semplicemente il reale, quello più a portata di mano, quello che dovrebbe essere scontato. ma che non lo è, non lo è. uccide quotidianamnete persone.
    io credo nel dolore come testimonianza. “ci credo fino alla fine della vita”.

  6. Centomila lettori un horror qualsiasi in America? Ma chi hai consultato, Loredana, un pazzo, un ottimista o un geek brufoloso stile “qui in Italia non capiscono niente”? Quando va bene, il tascabile di un autore non proprio conosciutissimo vende intorno alle venti, venticinquemila copie (basta chiedere agli editor delle pochissime case che ancora hanno una linea horror). E pure negli Stati Uniti stanno parecchio attenti a etichettare il genere come tale, perche’, i soliti sospetti a parte (King, Koontz e compagnia) ben poco altro si smercia.

  7. Zohaira. Distinguo. Della Raimo non posso dire che bene. E, se noti, ho precisato che certo che sì: il fulcro dell’esistenza degli esseri umani è nel loro sentire e nelle loro emozioni. Dipende da come li racconti. Anche I Buddenbrook si svolge per moltissima parte in una casa. Negli ultimi tempi, io trovo narrazioni che si concentrano in pochi metri quadri: non è solo una questione di ambientazione effettiva. E’ una questione di mentalità. Di apertura mentale, meglio.
    Quanto allo snobismo. Come detto altre volte, tocca sopravvalutare il genere perchè abitualmente viene sottovalutato. E tocca ripetere che si legge molto più della crisi reale (ho citato appena nel post il conflitto dei protagonisti che devono rivedere le loro convinzioni più importanti, nel romanzo di Wilson) che in molti (non tutti, ovvio) romanzi non di genere. E ti assicuro che di dolore come testimonianza ne trovi parecchio, nei buoni horror.
    Per Fausto: eppure il mio interlocutore ne era assai convinto. E non mi sembrava affatto ottimista….:)

  8. Io che sono considerato uno scrittore di genere non ho problemi a difendere libri che vengono a raccontarmi storie piccole, claustrofobiche, tutte svolte nel chiuso di un appartamento. Con crisi generazionali, rapporto madri-figlie, tradimenti, etc. Così come non ho problemi a criticare romanzi noir zeppi di serial killer, o horror splatter sanguinolenti, etc.
    Semplicemente perché faccio la più banale delle distinzioni: scritto bene, scritto male. Che poi sia un’ode all’ombellico o un horrorfantascientifico mi interessa poco, davvero.
    Scritto bene, scritto male. Se è scritto bene parla delle umane sorti (anche se è la storia di due robot), se è scritto male finge di parlare delle umane sorti (anche se parla di un amore tradito) ma in realtà non parla di un bel niente.

  9. Biondillo ha ragione,quando uno scrittore stringe sempre più da vicino i nodi essenziali del suo pensiero così da arrivare a una “narrazione” BUONA,e auno stile che risalta, non ha senso parlare di scrittura ombelical-claustrofobica,o politica,o postapocalittica(com’è stato detto de La strada di McCahrty).Alla fine la letteratura è anzitutto qualità di scrittura, il resto sono chiacchiere…Anche “Meglio morti” di Fois,per fare un esempio,o “Uno in diviso” di Pierantozzi sono libri ombelical-claustrofobici che potrebbero essere etichettati come semplici “horror”in questo senso, senza arrivare a citare di Aldo Busi che della propria claustrofobia ombelicale ne ha fatto una poetica, però è la scrittura, sono le scritture che riassumono il talento con perentoria chiarezza.

  10. nel cinema la discriminazione tra generi è più rara.E parlando di desiderata vorrei invece che un Ken Loach nostrano sorgesse dal fango delle storie in ghingheri ma senza importanza per raccontarci veramente.Il noir è necessario come un uomo medicina per una tribù che ha scordato l’anima al cesso,ed è in viaggio verso “mete imprecisate”

  11. Concordo ovviamente con Biondillo e con Tiger. Semplicemente, facevo notare, come altre volte in questa sede, una personale intolleranza alle scritture – specie, ahi, “femminili” – che si concentrano sull’intimismo…posso dire “di genere”? Senza che questa necessità si trasformi in colpo d’ala.
    In altre parole: per riuscirci, e decisamente non è da tutte, bisogna essere Anne Sexton.
    Una donna che scrive è troppo sensibile e sensuale,
    quali estasi e portenti!
    Come se mestrui bimbi ed isole
    non fossero abbastanza, come se iettatori e
    pettegoli
    e ortaggi non fossero abbastanza.
    Crede di poter prevedere gli astri.
    Nell’essenza una scrittrice è una spia.
    Amore mio, così io son ragazza.
    Un uomo che scrive è troppo colto e celebrale,
    quali fatture e feticci!
    Come se erezioni congressi e merci
    non fossero abbastanza; come se macchine galeoni
    e guerre non fossero già abbastanza.
    Come un mobile usato costruisce un albero.
    Nell’essenza uno scrittore è un ladro.
    Amore mio, tu maschio sei così.
    Mai amando noi stessi,
    odiando anche le nostre scarpe, i nostri cappelli,
    ci amiamo preziosa, prezioso.
    Le nostre mani sono azzurre e gentili,
    gli occhi pieni di tremende confessioni.
    Ma quando ci sposiamo
    ci abbandoniamo ai figli, disgustati.
    Il cibo è troppo e nessuno è restato
    a mangiare l’estrosa abbondanza.

  12. Loredana, a me pareva buffo due-tre anni fa che un romanzo disegnato non avesse per tantissimi la dignità per essere pubblicato da una grande casa editrice. Mi è sempre parso pazzesco che autori come Marco Corona, Gipi, Igort fossero tenuti in disparte rispetto agli ‘scrittori’ (e questo è ancora vero, addirittura Corona penso non lo conosca quasi nessuno; infatti poi se ne sono andati tutti e tre, come già era andato Mattotti). Poi si è scoperto il prodotto, e qualcosa è cambiato.
    Basta che le case grandi case editrici, cioè quelle a grande utile, capiscano che bisogna spingere il prodotto horror, e bum!, si materializzerebbero centinaia di pubblicazioni, i mediatori ci darebbero sotto per vendere questi nuovi prodotti.
    Dài tempo al tempo, ci arriveranno. Del resto la grande rivoluzione nelle strategie editoriali è recentissima, e esponenziale. Se uno esperto dicesse ai loro manager: abbinate a un libro horror, un abbonamento a Sky e un pacchetto di Nicorette, loro lo farebbero certamente. Se un esperto, un consulente dicesse loro, architettate un booktrailer (spot pubblicitario per libri) così: siete in un gabinetto pubblico, state leggendo un libro tenendo la testa dentro la tazza, insieme al libro, mentre sotto scorre la scritta ‘tizio ha scritto un capolavoro che si leggerebbe ovunque’, loro lo farebbero, farebbero mettere tutti i testimonial, tutti i manager, gli editor, gli scrittori con la testa nei gabinetti di tutti gli autogrill d’Italia, del mondo.

  13. Corona è in sudamerica. Mattotti, Gipi, Igort vivono in Francia. Igort ha pubblicato con Mondadori e Rizzoli, ma il più delle cose con Coconino Press che è la casa editrice che ha fondato, e una delle migliori al mondo per il fumetto.
    In Italia non c’è mercato per il fumetto d’autore, mentre in Francia addirittura esistono premi importanti indifferentemente per romanzi e romanzi grafici. Oggi su Nazione Indiana c’è un articolo sulla traduzione francese del libro di Sartori, Anatomia della battaglia. Credo che nessuno o quasi abbia menzionato, non solo la traduzione francese di Appunti per una storia di guerra di Gipi, ma nemmeno il premio che là ha vinto. Niente, niente di niente. Quando questi autori importanti se ne vanno perché qui non c’è ossigeno, va persa la possibilità di partecipare alla vita intellettuale, artistica del nostro paese. Dissipiamo i nostri poeti, perché questi sono poeti veri.

  14. Se fosse vero che è il marketing a fare vendere i libri, le grandi case editrici sarebbero a posto. Basta investire tot in pubblicità e vendi tot libri. Non è così, e per capirlo basta vedere che i libri che funzionano sono quelli che incontrano, semplicemente, i gusti del pubblico. La Casta, Moccia, il Codice da Vinci, piacciono a chi li legge, semplicemente. Il pubblico fa l’unico “marketing” che funziona, il passaparola. Certo, le major possono aumentare le vendite di un libro, investendo in pubblicità, ma sempre meno di quanto spendono. Se non si innesca il passaparola, non succede niente e ne abbiamo la riprova tutti i giorni, perché ogni giorno su qualche giornale esce una pubblicità a piena pagina di un capolavoro. O una locandina in libreria che strombazza il meglio del meglio.
    Per quanto riguarda l’horror, anch’io credo che le cifre di centomila copie a titolo, negli Stati Uniti, siano esagerate. E in Italia questo genere funziona poco perché gli appassionati sono una nicchia che non cresce. Anche King, che è universalmente considerato il maestro contemporaneo (a ragione o a torto, se ne può discutere), vende molto meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Tutte le grandi case editrici hanno qualche titolo horror in catalogo, e sarebbero ben contente di vederli andare in classifica. Ma non capita. L’unico successo recente degno di questo nome è stata la serie Twiligt, ma perché mescola l’horror con il melò adolescenziale. Tipo Buffy l’Ammazzavampiri.

  15. le parole di dazieri qui sopra sono talmente “ovvie” da risultare sacrosante. Soprattutto di questi tempi – e mi pare che qui lo si sia ribadito più volte – consolarsi col complottismo da marketing, in un senso o nell’altro (libri che vendono tanto perché spinti bene/libri che vendono poco perché non spinti adeguatamente o addirittura, vai a capire perché, boicottati) è una scappatoia troppo facile, per quanto – intendiamoci – esistono a mio parere casi in cui effettivamente una maggiore o minore pressione in termini di visibilità può fare la differenza.
    Riguardo l’horror, non so: è un genere dalle enormi potenzialità, ma a mio parere si è impantanato da troppo tempo in una serie di cliché che ne bloccano tanto gli sviluppi quanto la presa, sia nei confronti delle case editrici che (soprattutto) del pubblico. Negli anni ’90 ci fu una certa aria di riscoperta, non so se ve lo ricordate, poi boh, più il nulla. Sarei curioso di leggere il libro di Francesco Dimitri sempre su Gargoyle: ormai è uscito da un po’ e se ne dice bene.
    Sul fumetto d’autore, tema caro al barbieri, ho le mie idee, ma non credo sia il caso di approfondire qui. Dico solo questo: nel ribadire che Corona tecnicamente non si è trasferito in sudamerica se non per motivi contingenti (ma qui si scade nel gossip), credo che gli stessi atteggiamenti dei fumettari non aiutino granché. Sentire che Igort se la prende con Maicol & Mirco (grandissimi) perché non sanno disegnare e perché le storie non gli piacciono (a lui), con tanto di anatema lanciato in pubblico, mi fa solo tristezza. E mi fa sposare incondizionatamente la risposta degli stessi Maicol & Mirco: “Hai campato pe’ vent’anni colle siringhe di Pazienza!”. Tutta la mia stima a Igort e al lavoro che fa, ma la replica è stata da applausi (divertiti e non maligni, tanto per mettere le cose in chiaro).

  16. Sandrone Dazieri ha in linea di massima ragione, ma quello che sostiene non è assolutamente in contraddizione con quello che sto dicendo qui. Ragioniamoci un attimo.
    Il marketing è cruciale per vendere i libri, ma le case editrici difficilmente investono in un esordiente. I soldi sono disposti a spenderli per moltiplicare le vendite di un libro che già marcia da sé. E’ allora che arrivano le mille ristampe, le mille edizioni, le mille recensioni, i mille box pubblicitari, i mille premi (avrete notato che nella categoria marketing includo tutto quello che dà visibilità al libro, anche la decisione di stamparne una tiratura da grattacielo in libreria).
    I manager puntano su ciò che marcia, e su libri nuovi di autori che hanno girato bene in precedenza.
    Stanno attenti alle piccole case editrici, che fanno scouting al posto loro – rischiando e spendendo -, e se il libro ha venduto fanno un fischio all’autore.
    Ma questo è vero anche per un’esordiente come Pulsatilla: ricordate le megapubblicità su La Repubblica nazionale, e l’ufficio stampa di Castelvecchi che ha fatto un lavoro certosino e capillare (trovavo trafiletti ovunque, anche nei giornali che circolano sui treni). Pulsatilla era appunto un esordiente, ma aveva un blog seguitissimo che faceva presagire ottime vendite (infatti si partì con una tiratura molto alta se ricordo bene).
    C’è stato un momento in cui l’editoria puntava a rullo compressore sulle scritture dei blog più che per l’innovazione nel linguaggio, per il fatto che forme ‘facili’ e ‘fresche’ erano per così dire collaudate sulla platea – a volte davvero vastissima – dei lettori del blog. Erano libri che avevano appeal e un bacino minimo di compratori già assicurato.
    Un caso contraddice tutto questo. Castelvecchi ha utilizzato la macchina pubblicitaria di Pulsatilla senza avere per le mani un’autrice già conosciuta. E’ stato il caso della Sherman, che infatti, dopo una passaggio su La repubblica nazionale a pagina intera è scomparsa dalle classifiche (correggetemi se sbaglio).
    Vorrei anche far notare a Dazieri che sono sempre più frequenti costosi box pubblicitari – per esempio su TTl – che sanciscono il successo di certi libri.
    E poi basta andare su Vibrisse e cogliere tutto nel post intitolato da Mozzi: ‘Un (solo) libro per tutti’.
    Quindi il panorama è: marketing alle stelle, ma solo per aiutare chi già vende, e vende chi va incontro ai gusti del pubblico, quindi vengono stimolate scritture che clonano successi.
    Dall’altra parte si saccheggiano i talenti delle piccole case editrici, si invadono le librerie con tonnellate di volumi col medesimo titolo, si recensiscono solo libri che vendono, si scoraggia la ricerca, o meglio si ammette solo la ricerca sulle spalle segaligne delle piccole case editrici, che finiscono per spezzarsi.
    Dico tutto questo col massimo rispetto per autori notevoli come Dazieri, Lucarelli, De Cataldo ecc. Sono persone di valore e hanno un successo meritato. Ma ciò non toglie che l’editoria, intorno a loro e non certo per colpa loro, si sta trasformando in un supermercato che polverizza la qualità.
    Su Marco, Volta, invece il discorso è un’altro. Certo che è andato in Colombia per farsi i cavoli suoi, ma il problema è che se in Italia ci fosse un ambiente favorevole, attenzione e mercato, io credo che difficilmente un autore se ne vada. A me dispiace sempre quando un autore se ne va, perché ci si impoverisce un po’. Del resto se pensi che qui l’attenzione dei media ricevuta da Gipi ha portato – oltre a qualche articolo sentito di Fofi – il lavoro per Repubblica che quando non consisteva nel fargli disegnare facciazze di scrittori, si risolveva nel montargli con sequenze sbagliate le tavole delle storie e nel cambiargli i colori… Voglio dire, Volta, questo è ‘terzo mondo’ culturale e allora tanto vale andarsene in Colombia dove ci sono le donne più belle del mondo! 🙂
    E comunque a me Maicol & Mirco piacciono. Sono anche un felice abbonato della rivista Inguine.
    Però, quello che penso è che non devi aspettarti da un autore che ti sia indicato un orizzonte di ricerca completo. Ogni autore ha le sue idee e tira l’acqua al suo mulino (detto in senso buono naturalmente). Sono i critici che ricostruiscono l’orizzonte artistico. E se tu ti rivolgi a Igort per ottenerlo, o a Maicol & Mirco, è perché non esistono critici del fumetto, tolti pochissimi pionieri.

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