LA CAPACITA' DI RESTARE SOLI

Lo so, qualcuno vorrebbe che si parlasse d’altro. In fondo è da una settimana che non si discute che di femminicidio, ma che noia. Non si potrebbe, per esempio, commentare le dichiarazioni di Jeff Bezos, oppure recensire un bel libro?
La risposta è no.
Si chiamava Alessandra, aveva 36 anni, una bambina di 6, un compagno di 59. Che l’ha scaraventata contro un comodino, e poi le ha preso la testa fra le mani e l’ha sbattuta a terra, una volta due volte tre volte. Finché non si è reso conto “di aver fatto un guaio”, e ha anche “cercato di rianimarla”, e insomma “era depresso”.
Così il Corriere della Sera. E’ morta, ma la vittima è lui, commenta Michela Murgia.
Che ci voglia un codice etico per i giornalisti che raccontano il femminicidio è cosa stradetta ma sempre più urgente: e, per favore, cerchiamo di essere unite nel chiederlo e almeno in questo caso non stiamo a salvaguardare gli orticelli.
Che ci vogliano molte, moltissime parole maschili è un altro fatto. Per questo, vi riposto l’articolo di Massimo Recalcati uscito il 5 maggio su Repubblica.
Con enorme tristezza.
“La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell’ umiliazione dell’ insulto e dell’ aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta.
Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, nonè una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà. Essa afferma che l’ umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’ umano è l’ esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c’ è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell’ altro. Per questo la condizione che rende possibile l’ amore – come forma pienamente umana del legame – è – come teorizzava Winnicott – la capacità di restare soli, di accettare il proprio limite. Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine.  Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l’ esterno come luogo di minaccia. Il passaggio all’ atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell’ unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà assoluto – di vita e di morte – sul proprio partner non è mai una manifestazione dell’ amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione.
Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per tee dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà non sono niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione). Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità umana dovrebbe essere passione erotica per l’ incontro con l’ Altro, mentre riducendosia pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell’ incontro viene rotto da un vandalismo osceno.
Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità di questa violenza. C’ è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l’ incarnazione del limite, ma è anche l’ incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente – simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine. Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull’ avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull’ appropriazione dell’ oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull’ “idiozia del fallo”, quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all’ ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente “etero”; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l’ incontro con questo godimento “infinito” dichiarandole “tutte puttane”. E’ un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riesconoa governare. Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell’ illuminismo assimilavano la donna all’ ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros.
E’ di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. E’ chiaro per lo psicoanalista che questa violenza – anche quando viene esercitata da uomini potenti – non esprime solo l’ arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un veroe proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell’ amore, quando c’ è. Non il rispecchiamento della propria potenza attraverso l’ altro. Per un uomo amare una donna è davvero un’ impresa contro la sua natura fallica,è poter amare l’ etero, l’ Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola”.

88 pensieri su “LA CAPACITA' DI RESTARE SOLI

  1. Loredana sono d’accordo. Di più che d’accordo. Io vorrei organizzare come dissi in riuinione con SNOQ degli incotnri con i giornalisti per un linguaggio rispettoso e consapevole verso le donne che subisono violenza. Si potrebbe cominciare a fare, a piccoli gruppi.

  2. Questo, dal punto di vista psicanalitico, ma è l’unico punto di vista? capisco che la cosa più semplice, da dire, e la più difficile, da fare, è quella di accettare che piacere e dolore vanno e vengono, così amanti e mogli e mariti non sono garantiti nella loro presenza e l’uomo deve accettare questo fatto naturale rinunciando al suo idolo pene che vorrebbe invece dominare tutto.
    Può starci, io sono fondamentalmente anarchico e mal mi adatto alle costrizioni così come cerco di non imporne, persino la mia presenza non vorrei imporla, ma a volte è inevitabile.
    Ma quali sono le condizioni in cui questo può avvenire, escludendo, voglio dire, la realtà borghese occidentale che si adatta a mille forme di accettazione perchè ha mille forme di compensazione edonistica o intellettuale?
    Capisco che mio padre ad un certo punto abbia incontrato una donna più giovane di mia madre che gli ha fatto leggere la crisi della famiglia e lui abbia pensato di mettere in discussione una struttura che lo opprimeva nella sua aspirazione a fare esperienze diverse.
    Mia madre invece che aveva messo in discussione altre cose, che si era avvicinata ad una presa di coscienza della condizione femminile, che dopo aver avuto i figli aveva deciso di iscriversi all’università, e aveva negato la struttura borghese della sua educazione, questo allontanamento non lo aveva accettato, e ha dedicato la sua vita a tenere insieme un contenitore e i suoi legami di relazione, non solo affettivi.
    Tutto questo, a parte le sofferenze che tutti abbiamo vissuto, ma anche gli affetti che non sono mai venuti meno, ha potuto succedere perchè l’ambiente era quello borghese, colto, educato, tanti libri letti, amici sensati, figli che sono tornati dal loro inferno personale perchè hanno voluto salvare tutto questo, che era un valore in tutti i sensi.
    Ma guardando le condizioni generali della vita dalla maggioranza delle persone, tutti questi margini di manovra non ci sono, se i figli si drogano è una tragedia, se un coniuge se ne va è una tragedia, se il comportamento dell’altro lo umilia è una tragedia, e le cose spesso finiscono in tragedia, difficilmente uno psicanalista potrebbe metterci una pezza.
    Mi ricordo una vignetta dell’Unità degli anni ’70; due parlavano e uno dice; quando i borghesi vanno di corpo scoprono il piacere anale, quando i proletari vanno di corpo ci vogliono le fogne.
    Ora, io non voglio buttare in burla un tema così triste e drammatico, ma se ci vogliono delle leggi per impedire o per mettere un deterrente a certi reati, è anche necessario che certe forme, certe strutture microsociali, come il matrimonio ad esempio, non vengano messi in discussione radicalmente, perchè la gente non è preparata a questo.
    Non mi riferisco a chi ha dei modelli di riferimento, che siano letterari, filosofici o scientifici poco importa, ma a chi nella sua vita deve contare su poche cose, il lavoro, che è incerto, sulla moglie che è incerta e sui figli che sono un problema.
    Considerando che l’immaginario che fa da cornice a questa esiguità è la televsione, credo che togliere delle certezze, anche se rozze e malcomprese sia un fatto più delicato e non basti citare Adorno.
    Certo, la violenza è una cosa tremenda e spaventosa, se i desideri sfrenati rendono l’uomo simile ad una bestia, l’ira e la violenza lo rendono simile ad un demonio, e dunque è il primo fronte su cui intervenire, la creazione di strutture indipendenti, che siano punti di riferimento per le donne sono a questo riguardo più che necessari, visto che l’istituzione latita e, francamente, mi sembra la meno idonea ad intervenire, e questi si stanno facendo, si possono e si devono fare.
    Il problema vero è l’uomo “non borghese”, (mi scuso se risulta obsoleto il termine, ma non me ne viene in mente un altro in questo momento, ne voglio dissociarmi da questa condizione che in fondo ha contribuito a formarmi), che vive un mondo di relazioni basate sul potere, e che non ha modelli alternativi di riferimento che non siano il ricordo di generazioni passate, che probabilmente fondavano la loro vita su valori diversi, più umani, ma confermavano con la loro vita la forma di convivenza più tradizionale.

  3. L’articolo dice cose molto belle e condivisibili finchè non la butta in psicanalisi, cioè in mitologia lacaniana.
    “E’ di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini”
    Questo dopo aver detto che la maturità umana so costituisce nell’esperienza del limite.
    Se ne deve dedurre che la donna è infraumana o più che umana, meravigliosa voragine sconfinata (siamo sempre alla “Sirena” omerica), rispetto alla quale solo una cosa è possibile: la remissione totale o l’esorcismo.
    Ma quando si capirà che queste perturbazioni ideologiche post-strutturaliste hanno fatto solo male al pensiero e alla cultura?
    Per arginare la violenza cìè una strada sola: educare alla maturità personale e al rispetto della libertà altrui, smettendo ci costruire illazioni psicologiche sull’interiorità che per definizione resta irraggiungibile dal concetto. Lacan. Pfui.

  4. Mi scuso in anticipo per il commento lungo, ma credo ci sia molto bisogno di confrontarsi. Apprezzo enormemente il lavoro fatto qui, mi mette in discussione. Il problema della violenza sulle donne è reale e va chiamato col suo nome.
    Nonostante questo, quando ho letto l´articolo linkato non sono riuscito a trovarlo veicolo (consapevole o no) di attenuanti. Sono il solo? Questo mi spaventa da una parte ma dall´altra mi fa riflettere: ho paura che in questa battaglia giustissima si rischi di perdere l´obiettivitá.
    Il fatto di leggere che l´uomo ha cercato di rianimare la vittima, o che soffriva di depressione, o che si è reso conto del gesto inconsulto (non mi sembra di aver trovato “guaio” da nessuna parte, e per me fa una grossa differenza) non mi fa sottovalutare il problema, che resta terribile. Ma perché non si puó scrivere? Perché si puó e deve parlare di femminicidio ma non si puó riportare un fatto, ovvero che quest´uomo aveva dei problemi o che ha cercato di rimediare quando era troppo tardi? Non me lo rende piú vicino, ma cosí sono andate le cose.
    Penso che nessuno sia immune dal lavoro tutto maschile, bieco e vigliacco fatto sull´immagine della donna da sempre. Ma non tutti ammazzano le donne. Essere depressi non sará una scusa ma è un problema vero e vastissimo, quindi per favore mentre ridiamo il giusto valore a certe parole non togliamolo ad altre.
    Riguardo la tutta femminile “vertigine di un godimento che non conosce padroni” e “quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo”, personalmente leggere queste cose mi fa incazzare a manetta. Imprese contro nature falliche per amare l´etero, certo, fantastico. Se posso dire la mia, il “terrore verso ció che non si puó governare” non penso conosca sesso, ed è alla base della violenza, punto.

  5. Mario Pandiani: il femminicidio alligna in tutte le classi sociali, tutte le età, tutti i livelli di istruzione, tutte le zone d’Italia. Qui troverarai l’incredibile vicenda del’ex direttore del teatro di Macerata che buttò la moglie in un cassonetto. Non so se conosci il fatto.
    Un direttore di un teatro è borghese? Non è borghese? Fa niente se non me ne importa molto all’alba del 2012?
    http://archiviostorico.corriere.it/2006/luglio/05/Bastonate_alla_moglie_poi_getta_co_9_060705115.shtml

  6. Rob: “Ho combinato in guaio” era sull’articolo di Repubblica di questa mattina (cartaceo). Nessuno minimizza la depressione. Ma il fatto che alcuni (una sessantina dall’inizio dell’anno) di coloro che ne soffrono uccidano, deve comunque far riflettere. In altri post, ho detto che oltre a potenziare i centri antiviolenza bisognerebbe creare situazioni in cui gli uomini che almeno intuiscono di essere a rischio possano trovare ascolto. Nessuna demonizzazione, ma neanche le attenuanti insistite.

  7. “La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi”.
    ma il codice etico non dovrebbe valere anche per chi esordisce in questo modo nel parlare di cose che evidentemente non conosce e in un modo altrettanto evidentemente slegato dalla realtà?
    La capacità di restare soli di chi è propria, non è forse vero che nel corso della vita ogni persona ha più relazioni?

  8. Loredana – senza polemica – ma perché pensi che una eventuale depressione sia un’attenuante? A titolo personale – e su questo mi farebbe piacere avere un riscontro da Zauberei, che di psicologia ne mastica – mi urta parecchio l’uso della psicologia selvaggia. Anche la depressione si diagnostica e non attraverso un articolo di giornale. Tuttavia, per il pochissimo che ne capisco, mi sembra ovvio che alcuni assetti della personalità possano dare esiti omicidi, se non curati. E, sempre senza polemica, visto che gran parte di questi omicidi si consumano all’interno di una relazione è forse il caso di interrogarsi sulle collusioni, sempre psichiche, tra i due soggetti. E’ la relazione che è malata? Perché non si riescono a rompere le relazioni insane?

  9. D´accordissimo Loredana, come hai sempre detto un lavoro grosso dovrebbe essere fatto da e sugli uomini, e lí non ci piove.
    Il problema dell´informazione è un´altra cosa peró. So che è disastroso ma lo è in generale. Gli uomini uccidono anche altri uomini, e bambini, e il livello degli articoli non è che sia diverso mi sembra.
    Ho commentato nello specifico l´articolo del Corriere perché è quello che hai linkato e che viene commentato da Michela Murgia, che a sua volta rimanda a un primo tentativo di stilare un codice etico per la stampa in caso di femminicidio. Ora, io non lo so quale sia la strada piú giusta, ma ho qualche dubbio su questa (specialmente i punti 3 e 5). Evitare di abusare di stereotipi, ok, di voler a tutti i costi trovare le solite ragioni alla base della violenza. Ma queste ragioni ci sono, e se uno ha un disagio psichico e in piú ammazza la moglie io penso che le due cose in relazione ci si possano mettere in un articolo, senza per questo voler giustificare o attenuare. Che vada cambiato il linguaggio è necessario, forse peró bisognerebbe aggiungere e non togliere.

  10. —– mio padre si faceva di eroina, si faceva significa che l’ultima volta è stata un annetto fa. ma ha sempre lavorato, ora sta in pensione. in certi periodi, cominciavano le liti con mia madre, per altri motivi anche ma immagino soprattutto questo. in quei giorni credo d’astinenzi lui era un’altra persona, era cattivo e voleva essere lasciato in pace. mia madre insisteva con le recriminazioni, per carità tutte giuste ma inutili, fino a che lui non diventava violento. ho pianto per anni fino a che non sono intervenuto io per fermare mio padre in un frangente in cui pensavo potesse picchiarla. una volta le tirò una lampada da comodino in faccia, le uscì del sangue. in seguito le cose sono vagamente migliorate e il tutto credo grazie alla depressione di mio padre. per alcuni periodi non si alzava dal letto, non mangiava, è stato ricoverato varie volte al sim. adesso fa poche cose, si alza, compra il giornale, qualche volta fa spesa, mangia molta pasta, beve un po’. non si cura di niente. mia madre è esasperata, ma le volte in cui cerca di litigare io sto più tranquillo, tanto lui è depresso e non reagisce. mia madre chiede a me se non sia il caso di divorziare, io le ho sempre detto che l’avrebbe già potuto fare.

  11. “Depressione” è una parola che, usata dai giornali, vuol dire tutto e nulla.
    Riallacciandomi a Barbara, e a quanto già detto altre volte da Zauberei, a me sembra necessario un lavoro enorme per un cambiamento culturale del significato, portata e implicazioni giuridiche dei cosiddetti disturbi di personalità.
    Tutto ciò parallelamente al lavoro sul linguaggio. Gli articoli di cronaca che usano certi termini ancor prima che costruire una realtà distorta mi pare che ne mascherino una molto più complessa.

  12. Ringrazio davvero per essere stata chiamata in causa.
    Su questo articolo mi sento di dover fare chiarezza. Fate attenzione a Recalcati e al modo con cui usa le parole. Leggendo i commenti mi sono resa conto di questo comprensibile cortocircuito: Recalcati parla di depressione ed è psicoanalista e quindi giustamente voi ritenete che lui usi la parola depressione come categoria clinica, ma in realtà Recalcati la usa come categoria amplificata e generalizzata che indica un generico sentimento e percezione di se. Piace in questo dibattito perchè è quel tipo di psicoanalista che invoglia alla riflessione e che mette temi e concetti in termini filosofici e collettivi. Come i Garimberti, come Zoja. Dal mio punto di vista però manca l’occasione di fornire un vero parere competente e clinico sulla questione, e alla fine quello che è scritto qui da lui poteva essere scritto da molti intellettuali di formazione diversa.
    Per esempio, sinceramente io credo che siano proprio pochini quelli che ammazzano per depressione – nell’accezione condivisa dai clinici del termine e che non è quella linguistica generale usata qui da Recalcati. Per non poter sopportare la relazione e quindi la sua fine, per demonizzare l’oggetto della relazione al punto da doverlo violare bisogna avere compromesso ab ovo il sistema relazionale, il modo di stare con l’altro e fa bene a parlare Laura di disturbi della personalità è una chiave clinica molto più pertinente, e si tratta di una condizione clinica smodatamente diversa che può avere ANCHE e spesso e volentieri ha TRA LE SUE CONSEGUENZE un umore depressivo, ma è davvero la cosa meno grave di un assetto di personalità gravemente compromesso. E sul quale pià tardi si interviene e peggio è.
    Io comunque nell’articolo non leggo attenuanti, e ho la sensazione che basti parlare di psicologia che scatta la questione dell’attenuante. Ma se non si prende atto del sostrato psicopatologico della questione, delle condizioni materiali che lo producono non si muove un passo.

  13. Ho giudicato l’articolo giustificatorio perché acclude alla notizia vera – cioè la donna morta ammazzata dall’uomo con cui viveva – anche una serie di informazioni sulla condizione psichica di lui che non sono basate su alcun riscontro oggettivo; poiché le condizioni d’umore dell’uomo non sono in sè una notizia, l’atto stesso di comunicarle le mette in relazione di causa-effetto con la morte di lei. E’ come se, nel dare la notizia di uno stupro, si precisasse che la donna stuprata portava la minigonna. Non è necessario esplicitare il legame: il lettore collegherà automaticamente il dato della minigonna all’accaduto e ne trattà una impressione di consequenzialità. In questo articolo la sensazione è la stessa: il quadro compassionevole in cui viene collocato l’omicida funziona empaticamente. Da un lato è un pazzo, un disturbato, un uomo ai margini, quindi rafforza l’idea che le donne muoiano solo per mano di borderliner. Dall’altra suscita una sensazione di ineluttabilità, come se la morte di una donna fosse la conseguenza naturale dello stare con un uomo con problemi personali, angosce e paranoie. Il risultato è evidente anche nei commenti alla notizia: “se stavi con un fuori di testa, un po’ te la sei cercata”. Esattamente come la minigonna, il disagio finisce per depotenziare la responsabilità del maschio.

  14. Magari Michela si parlasse di disturbi borderline di personalità, sarebbe ben più corretto. Per quanto mi concerne, non ho statistiche alla mano e quindi la mia è solo un parere personale, per quanto derivato da esperienza con famiglie con violenza di genere, ma si sono propensa a credere esattamente questo: le donne muoiono per mano di persone con un disturbo sull’asse due del dsm iv – quanto meno nel nostro paese. E non parlerei con tanta disinvoltura di angosce e paranoie, come se fossero cosette di cui un tanto al chilo di buon senso fa liberare. Perchè i disturbi di personalità sono una cosa molto grave e radicata per i quali ci vogliono trattamenti lunghi e integrati. In generale poi, e lo dico con una certa cognizione di causa si, se una sta con uno violento – che di rado si sveglia un mattino e da uno sganassone il resto della vita sono roselline – ha una psicopatologia di segno opposto che ben si incastra con quella del compagno. E entrambi condividevano e perpetravano una psicopatologia culturale. Sai che al telefono rosa le donne menate mi chiamavano dopo vent’anni di botte mica per le botte, ma perchè lui ci aveva un’altra. Allora tutti quanti facciamo uno sforzo nel trattare queste vicende con tutte le competenze necessarie e il meno qualunquismo possibile. Mettere sullo stesso piano il disagio psicopatologico grave con la minigonna mi sembra un’operazione dubbia molto superificiale, che fa torto alla tua consueta serietà.

  15. Zau, io non mi occupo di patologie, ma di narrazioni e delle loro conseguenze. Non sono io, ma il giornalista (camuffato da soggetto LA REDAZIONE) che ha scritto che l’omicida aveva una “depressione” e “una profonda angoscia”, senza niente per affermarlo tranne il pettegolezzo di un vicino di casa. E’ sempre LA REDAZIONE che lo ha descritto paranoico descrivendo che era convinto, senza avere ancora nessun riscontro medico, di avere una malattia grave. Queste informazioni non solo non sono verificate, ma all’interno dell’articolo non hanno nessun’altro effetto che quello di generare la minimizzazione del crimine e la sua iscrizione al registro dei “gesti inconsulti”. L’elemento narrativo “minigonna” all’interno del racconto di uno stupro ha esattamente lo stesso effetto: contestualizza il gesto in un contesto di “provocazione” e di fatto lo depenalizza.
    Narrativamente non c’è nessuna differenza tra la depressione e la minigonna: entrambi i dati ascrivono l’origine del gesto “inconsulto” a qualcosa di diverso dalla volontà dell’uomo lo commette.

  16. @ Michela Murgia
    a me pare che hai scritto un commento all’articolo fuori da ogni logica. Dall’articolo si apprende che una donna è morta e che è stata uccisa. Si apprendono anche i particolari dell’omicidio. non è possibile intendere invece che l’articolo parli di un’altra vittima, ovvero l’uomo. è una tua impressione. dall’articolo si apprende poi che secondo alcuni racconto l’uomo soffrirebbe eccetera. questi racconti servono a fornire un’ipotesi del perché sia successo il fatto; possiamo discutere sulla liceità di azzardare tali ipotesi ( possono essere verificate e non essere comunque causa del fatto ), ma il punto per te è un altro, ovvero in questo modo si vuole assolvere il colpevole. stai dunque affermando che il giornalista in questione e la redazione in questione vogliano assolvere l’uomo. ti pare sensato? non è sensato per una persona ignara di come stiano i fatti pensare che l’uomo abbia ucciso a causa dei suoi problemi piuttosto che per una volontà omicida rivolta contro le donne? non è umano pensare che anche quest’uomo susciti pena? la tua tesi di fondo è che c’è in Italia un fenomeno omicida collettivo che intende uccidere le donne in quanto donne paragonabile al nazismo?

  17. @Murgia
    Rovesciamo il problema. L’articolista fa la cronaca del delitto e omette qualsiasi notizia circa le condizioni psichiche dell’uomo (che non sono illazioni, visto che si parla di esami clinici in attesa di referto e di molteplici testimonianze in tal senso). Non sarebbe un’omissione grave per chi, oltre a registrare in una riga il fatto ha a disposizione un’articolo per descriverne le circostanze?
    Con tutta la buona volontà di chi ha a cuore la causa delle donne, questo modo di vedere in tutto una strategia femminicida condivisa o tollerata da tutto il genere maschile sa di paranoia e ottiene esattamente l’effetto opposto a quello che si propone.

  18. PS – “Narrativamente non c’è nessuna differenza tra la depressione e la minigonna”
    Niente affatto: calcare sulla minigonna vuol dire insinuare che lo stupratore è stato provocato e quindi rovesciare la colpa sulla vittima. Citare la depressione (beninteso: se ci sono elementi per farlo) significa dare un elemento di determinazione (non di assoluzione: trovare un movente non significa assolvere) al gesto altrimenti inspiegabile.

  19. @Binaghi
    Fare esami clinici non significa essere malati e non è corretto dire che nell’articolo si parla di “molteplici testimonianze”, ma di “alcuni racconti” dei vicini.
    Le depressioni, le paranoie e gli stati d’ansia sono condizioni patologiche che possono essere affermate come tali solo da uno specialista. Se a farlo è un giornalista perché lo ha sentito da un vicino di casa non si tratta di notizie, ma di illazioni, voci di pianerottolo. Inserire nel pezzo informazioni cliniche certificate è completezza giornalistica, inserirci voci di pianerottolo è una scelta personale del cronista. Di questa scelta personale bisogna chiedere criticamente conto, se non si vuole che le voci di pianerottolo diventino la chiave di lettura di ogni violenza domestica. Dire OGNI SANTA VOLTA che l’assassino era in una condizione di a-normalità psichica, lavorativa o sociale inscrive il gesto in una condizione di normalità, perché “è ovvio” che se non sei stabile farai qualcosa di instabile.
    Mi domando: ma se a terra, al posto del cranio della donna, ci fosse stato quello di un bambino di sei anni, avreste trovato così “ovvio” che alla fine del pezzo si giocasse al piccolo psicologo?

  20. quando dicevo sopra che è necessario un cambiamento culturale nella nostra percezione dei disturbi psichici (mi scuso per l’approssimatezza del termine), intendevo proprio dire che, invece, non possono (non devono!) essere percepiti come una spiegazione “normalizzatrice” – al contrario, se ne deve approfondire la storia.
    Non vedo, mi scuserà Michela per la quale ho grandissima stima, nessuna equiparazione possibile con l’attenuante minigonna – che attiene ad un’esecrabile mentalità relativa ai costumi, mentre qui si sta parlando di fatti che, piuttosto che rimossi, vanno illuminati – consentendo un passo avanti nella coscienza collettiva.

  21. Come volevasi dimostrare, l’anonimo che si firma con il cancelletto scrive: “questi racconti servono a fornire un’ipotesi del perché sia successo il fatto”.
    Fermo restando che anche una comprovata patologia psichica come la depressione non spiegherebbe comunque l’assassinio – altrimenti dovremmo supporre che in tutti i depressi sonnecchia un omicida – resta ferma la lettura che ho dato: ipotizzare la patologia è il tentativo maldestro di stabilire un rapporto di senso tra conseguenza e causa. Dietro si nasconde il sottotesto: “non preoccupatevi, agli uomini senza patologie questo non può accadere”.
    Sembra impossibile ammettere che si possa uccidere per odio e desiderio di sopraffazione.

  22. Michela non mi convinci. Capisco cosa vuoi dire ma non mi convinci. E siccome mi piaci molto mi permetto di essere franca, ti trovo lievemente disonesta. Non nel senso di cattivissima e in pessima fede, ma in senso di forzare le cose per far funzionare una tesi.
    Se al posto del cranio della donna ci fosse stato un bambino stai serena che la psicologia entrava comunque, il fatto che fosse trattata a cazzo dipende dalla considerazione che ha nel settore la materia non solo dai giornalisti da te attaccati ma anche da te stessa per come consideri le categorie psicologiche e psicodiagnostiche è un problema della cultura tutta. La sensazione che dai non è che tu voglia un accertamento clinico perchè secondo te le condizioni psicopatologiche sarebbero una compresenza non una condizione che determina una struttura di pensiero una compresenza che si darebbe in alcuni casi e non in altri. Perchè il vero motivo è culturale! Il vero motivo è che il maschio è cattivaccio! A me il maschio cattivaccio mi serve esattamente quanto il maschio poverello quando lavoro in concreto. A niente.

  23. ma anche la “cultura” maschilista e discriminatoria da sola non spiega l’assassinio, altrimenti tutti gli uomini sarebbero assassini.
    Non possiamo permetterci di escludere nessun fattore dall’analisi, non devono restare macchie cieche.
    E soprattutto la maggiore conoscenza di certi disturbi dovrebbe portare molti/molte a sentirsi più a rischio, piuttosto che a “non preoccuparsi”: quante persone, dopo, realizzano che da certi segnali avrebbero dovuto “capire”?

  24. Zauberei, però, possibile che quando entra in campo la questione psicologica diventi aggressiva? 🙂
    Io sono d’accordo con Michela, com’era, credo, intuibile, avendo a cuore le narrazioni e non essendo una professionista. E la mia lettura, da profana, di quegli articoli, è perfettamente identica alla sua.

  25. La depressione ripeto è fuori luogo. I giornalisti la usano a cazzo, fomentati da un malcostume culturale. Invece Michela i disturbi di personalità producono spesso gesti pericolosi, quasi sempre anzi. Per se e per gli altri. Donne e uomini. Per fare però una diagnosi in quell’area occorrono perizie che concordo i giornalisti non possono essere in grado di fare. Ma se scrivono dell’ipotesi di un eventuale psicopatologia non ci trovo niente di male. Mentre trovo proprio strano considerare – nella nostra contestualità culturale e momento storico – che una persona semplicemente nevrotica o al tutto priva di problematiche possa avere il desiderio di sopraffare una persona fino a farla fuori. Questo desiderio è un desiderio che non può non nascere da un assetto relazionale distorto ab ovo.

  26. Si divento aggressiva lo so. Ma nei limiti della civile conversazione mi pare. E vedo che si continuano ad avere opinioni continuandosi a non informare con la cosa che tanto io so’ profano. E quindi ahò non sono d’accordo con tutte e due PPPP 🙂

  27. Mi pare che Michela Murgia introduca nel discorso un po’ di lucidità che si era persa di vista.
    Sono anche da far notare nel pezzo di recalcati gli accenni alla differenza sessuale basati, questa volta, sullo stregonismo psicologico.
    Se non ora quando ci si libererà di questa forma di sessimo chiamata differenza sessuale utile soltanto a creare gerarchie di discorso e a fondare la discriminazione?

  28. Ricordiamo al pubblico che lo statuto scientifico dei ‘disturbi della personalità’ è una delle costruzioni più traballanti (stregonesche) della psichiatria.

  29. ma non è che c’è una sorta di rimozione collettiva del fatto che certi disturbi di personalità consentono una vita che all’esterno può apparire “normale” (salvo a posteriori riconoscere certi “segni”?)
    Se a me un’amica (che non è affatto una poverella o una sprovveduta) vi telefona in lacrime, dopo una storia di grande passione che dura da qualche anno, perché lui non vuol farsi lasciare e la minaccia – e mi dice “dovevo accorgermene che aveva degli aspetti pericolosi” non è che c’è veramente da capirne tutt* un po’ di più di certe patologie che non appaiono tali?
    è una cosa scomoda, lo so, ma finché non si affronta si continuerà a parlare di cose che non si conoscono senza toccare nodi cruciali.
    Il punto è non identificare questi disturbi con la follia, capire che possono essere anche nelle vite intorno a noi, credo. Da qui forse la rimozione….

  30. @Barbieri
    “questa forma di sessimo chiamata differenza sessuale”
    Cioè, pisello e patata sono la stessa cosa, Giulio Cesare è un numero primo e Aristotele era un coglione.
    Il mondo aspettava Barbieri per essere ri-ordinato fin nei minimi termini.
    Ma ripijate.

  31. Sentite, ma perché perché perché mi fate fare la maestrina dalla penna rossa? Siete grandi e grossi, ergo siete perfettamente in grado di autoregolarvi, no? Grazie per la cortesia.

  32. Sono d’accordo con laura a. che sottolinea quanto si diceva diverse settimane fa, ovvero l’importanza di educare le ragazze e i ragazzi a riconoscere i segnali di un atteggiamento pericoloso del proprio partner.
    se supportati da un gruppo di esperti, in vari ambiti, sapranno capire se si tratta di sintomi di un disturbo più grave che andrà gestito da professionisti (insomma qui entrano in gioco Zaub e colleghi) o “solo” meccanismi culturali riprodotti da scardinare (e qui invece entra in campo il lavoro di Murgia, Lipperini, Zanardo ecc sull’immaginario e la narrazione)
    Insomma credo che il problema vada attaccato su più fronti e che nessun approccio debba essere considerato secondario!
    scusate la fretta!

  33. Zau, intravedi malafede e forzatura semplicemente perché stiamo parlando con due grammatiche simboliche diverse. Dal mio punto di vista è forzato trattare la patologia – quale che sia – come dato oggettivo, quando è con tutta evidenza un espediente narrativo con valenza significante.
    Io non mi sto occupando di questo caso come un caso “reale”, perché le ricostruzioni giornalistiche non sono la realtà: sono narrazioni con precise scelte di trama e deliberati (anche quando inconsci) percorsi di sviluppo. L’unica cosa reale e oggettiva è la donna morta sul pavimento: le spiegazioni del gesto, misteriose e mai completamente verificabili, obbediscono alle scelte dello storyteller.
    Dimenticati per un istante che c’era una donna vera morta sul pavimento. Prendi l’articolo come puro esempio scolastico di come si costruisce sul giornale la storia-archetipo intitolata “DONNA MORTA PER MANO D’UOMO”.
    L’incipit è all’americana, in medias res: “Le ha preso la testa e l’ha sbattuta ripetutamente sul pavimento. Così è stata uccisa una donna di 36 anni, Alessandra Cubeddo, nella sua abitazione di Villaricca, in provincia di Napoli.”
    Sappiamo che Alessandra Cubeddo aveva 36 anni, sappiamo dove viveva e sappiamo che adesso è morta. L’incipit ci dice che è stata uccisa in modo violentissimo da un soggetto non precisato, quasi sottinteso. Potrebbe essere un ladro che ha sorpreso in casa, un folle che si è introdotto nella sua abitazione. Non lo sappiamo ancora.
    La frase prosegue con un condizionale importante: “Ad ucciderla sarebbe stato il compagno, Michele Perrotta, un ex poliziotto in pensione di 59 anni originario di Marano di Napoli. L’uomo, che avrebbe perso il controllo dopo un litigio, è stato fermato dalle forze dell’ordine ed è stato interrogato dagli agenti del Commissariato di Giugliano in Campania.”
    Abbiamo adesso un presunto assassino, ma la scelta di porlo come presunto non è facile da capire, considerato che dal resto della frase si evince invece un’evidenza. Cosa sappiamo dell’assassino? Che è un pensionato di 59 anni che il giornalista qualifica come “il compagno” della morta. La sua narrazione inquadra l’omicidio in un preciso quadro di senso: l’uomo avrebbe “perso il controllo” dopo un litigio. Questa frase narrativamente dice due cose: la prima è che l’omicidio è stato compiuto da una persona che non aveva il controllo di sè. La perdita di controllo è un’assenza di coscienza, quindi una sospensione della responsabilità. Il giornalista ci sta dicendo che l’uomo quando ha ucciso la donna non capiva quello che stava facendo. La seconda cosa che ci dice è che questa perdita di controllo è la conseguenza di un litigio tra i due. Significa che l’omicidio è un gesto singolo maturato in un momento in cui a essere alterati erano entrambi. Non è un piccolo particolare: insinua nella narrazione un elemento di esasperazione, di violenza comune, di concorso in responsabilità nella perdita di controllo.
    L’articolo enfatizza questo elemento narrativo con il titoletto in grassetto: “IL GESTO DOPO UN LITIGIO – Quando sul posto sono arrivati i soccorritori, Perrotta era visibilmente scosso. Il litigio sarebbe avvenuto nella camera da letto e secondo una prima ricostruzione egli stesso, resosi conto dell’assurdità del gesto, avrebbe tentato di rianimare la compagna.”
    Il giornalista afferma che l’omicida era “visibilmente” scosso e lo fa in una frase categorica, priva di formule dubitative; quel “visibilmente” aggiunge al suo racconto la credibilità della testimonianza oculare, ma naturalmente lui non era presente al momento in cui sono arrivati i soccorritori. Chi erano i soccorritori da cui ha presumibilmente desunto questa informazione? Il seguito del pezzo ci dirà che ad arrivare per primo è stato il fratello dell’omicida. Quindi forse il fratello dell’omicida ha detto al giornalista che l’omicida suo fratello era visibilmente scosso. Una testimonianza quantomeno di parte, ma il giornalista al lettore la riporta come un dato di realtà di cui egli stesso è stato testimone. La morta è già sparita dalla narrazione e abbiamo invece davanti agli occhi la scena di un uomo “visibilmente” scosso, che “resosi conto dell’assurdità del gesto” – un gesto compiuto in stato di perdita di controllo è assurdo per definizione – cerca addirittura di rianimarla. Quello che ci viene descritto non è un omicidio volontario, ma un incidente, una disgrazia, una fatalità a cui lui ha cercato di porre rimedio troppo tardi, magari mormorando “non volevo, non volevo”.
    Il narratore precisa meglio la dinamica dei fatti: “L’uomo, così come faceva ogni mattina, aveva accompagnato la loro bimba di 6 anni alla vicina scuola elementare. Al rientro la compagna era in casa e tra i due sarebbe sorto un diverbio per motivi banali. Dalle parole ai fatti il passo è stato breve. Quando Perrotta si è reso conto di avere commesso un gesto inconsulto ha cercato di rianimare la compagna e poi ha chiamato i soccorsi, ma per la donna non c’era più nulla da fare.”
    Il narratore ci dice che l’omicida era un bravo padre: accompagnava la figlia di sei anni a scuola tutte le mattine. Al rientro però trova a casa “la compagna” – in tutta la narrazione il giornalista chiamerà Alessandra Cubeddo sempre così, come se la sua identità nella storia si consumasse tutta nella relazione con l’omicida – e ci litiga per futili motivi. Lui è un bravo padre, lei è una che litiga con lui. E’ la seconda volta che la presenza di lei viene associata al litigio. Volano parole. Il narratore a questo punto getta sul tavolo l’asso del disvelamento: “dalle parole ai fatti il passo è stato breve”, cioè l’omicidio è conseguenza del litigio. L’assassino non è l’uomo: è il litigio. L’uomo è lo strumento inconsapevole della violenza che lui e lei hanno scatenato insieme. Quella violenza dura un attimo e quell’attimo a lei basta per morire, ma lui subito si rende conto del “gesto inconsulto”: cerca di rianimarla (rianimare una donna con il cranio fracassato sul pavimento per il giornalista non è un gesto inconsulto) e poi chiama i soccorsi (cioè suo fratello).
    Questa è la storia e in questa storia il protagonista è lui. Lei è una sua conseguenza, sia nell’essere compagna che nell’essere morta.
    Ogni altra precisazione su di lui, compresa quella patologica, supporta e fortifica questo impianto narrativo giustificazionista.
    Non sappiamo niente dei due, di chi fossero
    Descrizione della scena.
    inserire il dato della minigonna (o della gelosia, o della nuova relazione di lei, o della disoccupazione di lui, o del degrado sociale del contesto) e inserire quello della (ipotetica) patologia hanno la stessa conseguenza narrativa: la colpa simbolica del gesto trasla su un elemento esterno alla volontà del femminicida, che da mero fattore scatenante diventa spiegazione centrale.

  34. uffa, alla fine ci sono due frasi in più che credevo di avere cancellato. Vabbè, quel che volevo dire l’ho detto. 🙂

  35. Scrive Binaghi:
    “Cioè, pisello e patata sono la stessa cosa, Giulio Cesare è un numero primo e Aristotele era un coglione.
    Il mondo aspettava Barbieri per essere ri-ordinato fin nei minimi termini.
    Ma ripijate.”
    .
    Binaghi tu bisogna che te ne fai una ragione: non capisci molto, sei piuttosto ignorante su questi temi (ma ferratissimo non dubito sul cristianesimo cattolico). Non hai nemmeno una particolare capacità di comprensione. Insomma la tua supponenza è del tutto ingiustificata e un po’ ridicola.
    Nessuno nega delle differenze biologiche che vanno dai caratteri sessuali, a una diversa conformazione del cervello, a diversi valori ormonali eccetera (seppure queste differenze vadano collocate su un continuum tra maschio e femmina, sia chiaro).
    Ma la cosi detta ‘differenza sessuale’ non è un discorso che resta oggettivamente su dati, ma li travalica (talvolta persino con lo strumento concettuale bizzarro del ‘marker’) per costruire binariamente due entità metafisiche, due essenze, due destini (chiamali come ti pare).
    La differenza sessuale non è il pene o la vagina, è il fiocco azzurro o il fiocco rosa, cioè le norme suntuarie, sono i discorsi strampalati sulla psiche, sono il determinismo dei neurosessisti ormonali, sono i comportamenti criminali sui corpi di bambini intersessuali.

  36. Mi sono rimesso a paro con i commenti solo ora. Non sono uno psicologo ma mi innervosisco tanto quanto Zauberei a leggere certe cose. Se vogliamo fare un discorso serio sulle parole, bisogna cercare di essere obiettivi. Si è detto “lo statuto scientifico dei ‘disturbi della personalità’ è una delle costruzioni più traballanti (stregonesche) della psichiatria”. Anche se fosse, almeno si parla di scienza; quale statuto scientifico supporta invece il concetto “le donne muoiono perché sono donne” punto e basta? E se invece fosse che le donne muoiono perché sono donne nella mente di uomini con disturbi seri? In questo caso a un´immagine giá distorta dello stare insieme si potrebbe sommare (ma non so neanche quanto) la visione del femminile che viene promossa dalla societá.

  37. Sembra impossibile ammettere che si possa uccidere per odio e desiderio di sopraffazione.
    Postato mercoledì, 9 maggio 2012 alle 8:43 am da Michela Murgia
    – – –
    §
    Sinceramente a me sembra impossibile che Murgia non prenda in considerazione il fatto che alla base del “desiderio di sopraffazione” ci sia sempre una colossale perturbazione psichica che nasce nell’infanzia e nell’adolescenza del futuro individuo adulto disturbato. O crediamo forse nel male assoluto? Che cos’è la misoginia se non un complesso di conflitti psichici? Crediamo forse che un bambino cresciuto in una famiglia equilibrata dal punto di vista degli affetti sviluppi l’odio nella donna frequentando scuola e televisione? Vogliamo parlare di “cattive compagnie” come facevano i parroci quando da piccoli tentavano di spaventarci? Semmai è vero che il danno psichico subito in tenera età non trasformi per forza di cose un individuo adulto in un carnefice. Altrimenti qui il massacro sarebbe nell’ordine delle decine di casi al giorno.
    §
    Viviamo in una società cattolica e vetero-fascista dove il ragionare psicoanalitico è stato storicamente occultato per volontà ideologica (discutessimo di questo, magari…). Il motivo per il quale si legge in termini di “assoluzione” e “attenuante” il fatto psicologico che al contrario determinerebbe via via la presa di coscienza critica all’interno dei casi di femminicidio è il frutto della rimozione culturale dei processi psicoanalitici intesi qui come strumenti d’analisi. Il desiderio di vendetta inconscio (ma comprensibile) dell’osservatore, prende il sopravvento sulla natura stessa dell’aggressione, ritenendo quindi che se l’assassino (o anche lo stupratore) ha avuto una vita infernale durante la sua infanzia, s’inneschi un meccanismo di compassione umana, che vada poi a influire negativamente determinando livelli di disonestà in chi produce leggi e formula condanne (ma ci sarebbe un livello di rifiuto ancora più profondo). E già questo è un enorme conflitto psicologico sociale. Lei, Murgia, avrebbe parzialmente ragione nella misura in cui spiegassimo che il “chiacchiericcio psicologico” (nella fattispecie quello giornalistico, e come tale frutto della rimozione culturale di cui sopra) venga usato, a seconda dei casi, inconsciamente o deliberatamente dalla redazione di un giornale, per occultare il disagio collettivo dello scrivere e del sentire pubblico sulla tematica del femminicidio (che poi è la stessa dinamica intellettuale che determina il rifiuto della parola stessa “femminicidio”). Ma come vede dovremmo sempre ragionare per categorie psicoanalitiche. Cosa che invece non si fa, da decenni.

  38. Rob però l’approfondimento/intervento psicologico non deve sostituire quello culturale-sociale-discriminatorio ma integrarlo, non dandosi compartimenti stagni tra uomo e società.

  39. @ Michela Murgia
    La tua analisi dell´articolo secondo me non è obiettiva. Perché se leggo che l´uomo portava a scuola la figlia dovrei automaticamente avere l´impressione che era un buon padre? Dove sta scritto che se leggo di un litigio devo avere l´idea di un concorso in responsabilitá nella perdita di controllo di lui? E potrei andare avanti su ognuno dei punti che fai, li trovo davvero una lettura forzata. E poi se anche avesse detto davvero “non volevo, non volevo”? Se non fosse stato visibilmente scosso etc. etc., avremmo letto sui giornali del mostro senza rimorso. Quello che capisco io è che una persona con una vita apparentemente normale ha ucciso. E l´assassino resta l´uomo, altro che il litigio.

  40. @Barbieri
    Vai a dire queste cose alle femministe della “differenza” e vedi un po’ dove ti invitano a metterti la tua “scienza”
    Qiuanto a sentirmi dare dell’ignorante da un comico involontario, non so se ridere o piangere.

  41. Il problema del discorso sui ‘disturbi della personalità’ non è soltanto il giustificazionismo del violento/omicida.
    Chissà quale ‘disturbo della personalità’ potrebbe essere riconosciuto anche nella vittima, in questo caso il problema diventa la colpevolizzazione.
    Da qui la perplessità di risolvere una violenza originata da una gerarchia tra classi sessuali istituendo una gerarchia di altro tipo, quella tra il supposto ‘professionista’ con in mano il sapere ben poco scientifico dei ‘disturbi della personalità’, e il supposto ‘malato’.

  42. Scrive Binaghi:
    “Vai a dire queste cose alle femministe della “differenza” e vedi un po’ dove ti invitano a metterti la tua “scienza”
    Qiuanto a sentirmi dare dell’ignorante da un comico involontario, non so se ridere o piangere.”
    .
    Soltanto a te può suonare strano quello che scrivo. All’interno del femminismo il dibattito è attualissimo. Hai perso un’altra occasione per tacere.

  43. Scrive Rob:
    “La tua analisi [della Murgia] dell’articolo secondo me non è obiettiva. Perché se leggo che l´uomo portava a scuola la figlia dovrei automaticamente avere l´impressione che era un buon padre?”
    .
    Perché un buon padre si prende cura dei figli portandoli a scuola. Non è un’impressione o un’interpretazione, è oggettivamente un comportamento che rientra tra i doveri di un padre.

  44. @ andrea barbieri
    Se andiamo sul filosofico non ne usciremo mai. Potrei farti mille esempi di come un padre puó portare un figlio a scuola senza essere per questo un buon padre. Non è questo il punto del mio commento.

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