Wu Ming 4 su Repubblica interviene su Tolkien e, fra le altre considerazioni, centra un punto che riguarda la narrativa fantastica, e su cui a lungo si è battuto: è l’equivoco, se vogliamo, di fondo, che ha creato centinaia di epigoni tolkieniani che si riappropriavano di territori e personaggi ma non del pensiero che aveva portato alla creazione di quei territori e personaggi. Come se scrivere fantastico fosse più semplice rispetto alla scrittura “non di genere”. Come se fossero sufficienti gli attrezzi tecnici del mestiere e non quelli che non chiameremo etici per non suscitare mancamenti, ma emozionali, progettuali, in grado di dare senso a una storia.
Leggete, comunque.
“Sono trascorsi tredici anni dall’uscita nelle sale del primo film tratto dal Signore degli Anelli. Mentre incombono le anteprime dell’ultimo capitolo della trilogia (molto liberamente) tratta da Lo Hobbit, si può fare un bilancio di quanto nel frattempo è successo in Italia intorno a J. R. R. Tolkien. Se nel secolo scorso la scena tolkieniana era considerata un ghetto per nerd, o tutt’al più per conventicole dell’ultradestra, la penetrazione nell’immaginario pop tramite la settima arte ha avviato uno smottamento che ha travolto quell’ambiente asfittico.
E al tempo stesso ha stimolato forme di reazione creativa all’invasione hollywoodiana. Mentre la dimensione d’intrattenimento (cinema, giochi e videogiochi) faceva debordare l’interesse per la Terra di Mezzo ben oltre la sottocultura fantasy, una nuova generazione di appassionati, studiosi, artisti, ha messo in crisi i luoghi comuni di un tempo. Così da un lato lo snobismo dell’accademia è stato pesantemente scalfito, e dall’altro le letture delle vecchie vestali nostrane sono state ridimensionate (o piuttosto ridicolizzate) grazie a un’attività pubblicistica, su carta e su web, prodotta quasi sempre dal basso. Si è trattato di un lavoro certosino e spesso disconosciuto, che ha prodotto gli anticorpi alla saturazione dell’immaginario seguita all’enorme successo dei film. Per paradosso, senza i kolossal di Peter Jackson non avremmo avuto la collana tematica “Tolkien e dintorni” dell’editrice Marietti 1820, che dal 2005 a oggi ha tradotto i più importanti saggi critici nel panorama internazionale. L’ulti-mo uscito, W. H. Green, Lo Hobbit: un viaggio verso la maturità , è paragonabile a un gioiello elfico.
Sul piano delle arti visive forse soltanto adesso, con la conclusione della ridondante seconda trilogia, si iniziano a metabolizzare le immagini cinematografiche e ci si apre a nuovi orizzonti, meno schiacciati sul mainstream hollywoodiano. Così si tornano ad apprezzare le opere di un decano come Angelo Montanini e può emergere il lavoro di artisti originali come Ivan Cavini, Maria Distefano, Andrea Piparo.
Manca all’appello la narrativa. I più noti autori italiani di fantasy avrebbero forse potuto spendere un po’ più di tempo a studiare la chiave dell’universalità delle storie di Tolkien e un po’ di meno a cercare di emularle infarcendo le proprie di Elfi, Mezzelfi e Orchi”.
(prosegue sul sito dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani)
Come si dice “parole sante”.
E sottolineo anche il punto riguardante il “Cinema”. Il vituperatissimo mondo hollywoodiano che pensa solo a “li palanchi” ha contribuito molto a risollevare le sorti e le quotazioni del Professore nel mondo e non solo in Italia. Questo perché Jackson ha, con tutti i suoi limiti, fatto un buon lavoro, onesto, e appassionato. E ci ha indicato una strada (non la sola sia chiaro) per cui Letteratura e Cinema possano reciprocamente aiutarsi.
Caro ekerot, ti faccio notare che Jackson si è mosso molto a lato di Hollywood, se non erro fu costretto ad autoprodurre buona parte della Trilogia del “Signore degli Anelli” che porta bandiera australiana e neozelandese, solo in un secondo momento e in sede distributiva si aggiunsero altri produttori e le Majors (niente di nuovo: lo stesso accadde per “Titanic” e per il primo “Terminator”…). Hollywood è in grandissima crisi creativa ormai da un paio di decenni almeno (forse anche più) e si è ridotta a una fabbrica di remake o di commediole, salvo rarissime eccezioni. Ormai cose interessanti vengono praticamente solo dal Sundance e da qualche produzione indipendente.
Loredana, ho postato per errore la mia prima risposta come anonimo: se puoi, eliminala. Grazie.
Sì conosco le vicende produttive dei film, ma per quanto indipendente la New Line è pur sempre gruppo Warner. In questo contesto intendevo più che fisicamente prodotto ad Hollywood, prodotto hollywoodiano: film ad altissimo budget, cast di rilievo internazionale, progetto elefantiaco, e sicuramente superblockbuster. Quanto forse di più lontano dal mondo oxfordiano di Tolkien. Eppure queste due voci hanno risuonato in enarmonia nutrendosi l’una dell’altra.
Sul discorso della crisi di Hollywood concordo e quoto. Ma confido che sapranno risollevarsi da questi anni di oscurità (per fortuna non totale!).
Beh, la crisi artistica a Hollywood deve essere molto profonda se all’epoca della loro rispettiva produzione nessuno dei “capoccioni” aveva intuito la potenzialità “superblockbuster” della Trilogia tolkeniana o di “Titanic” o di “Terminator”! Il vero problema, caro Ekerot, è che questi esempi sono emblematici proprio perché dimostrano l’allergia degli studios a produrre intrattenimento CON SIGNIFICATO. Di effetti speciali (oggi anche specialissimi) siamo letteralmente inondati, ma di CONTENUTI molto meno. Ancor meno di UN SISTEMA DI IDEE (ideologie, direbbero i matusa che vanno rottamati). Ecco, credo sia questo ciò di cui parlano Loredana e WuMing4: dietro alla forma-genere (che produce senz’altro in sé contenuti, strutturalismo docet), c’è comunque un messaggio, ci sono comunque delle idee, c’è una solida struttura di pensiero. Che manca in molt* di coloro che si sono buttati a capofitto nel giacimento tolkeniano sperando di aspirarne un po’ di petrolio tanto per guadagnarci su.
Il Cinema, negli ultimi 15 anni (ma come dicevi prima giustamente la crisi è ben precedente), sembra aver demandato alla televisione mainstream la competenza di creare nuovi format, nuove idee, nuove strutture narrative. In questo senso è imbarazzante il numero di sequel, prequel, reboot, remake che sono finiti in cantiere ad Hollywood nell’ultimo decennio. Non sono così esperto, ma credo non fosse mai successo prima.
I film con sceneggiatura “originale” latitano, e sembrano confinati nella commedia più o meno indy. Solo supereroi e cartoni. Chiaramente non è così, ma ciò che arriva a noi è soltanto questo o poco più.
Molti autori si lamentano di questa situazione, anche se probabilmente è anche “colpa” loro. Accettando di girare e recitare certe porcate inevitabilmente dai linfa al sistema.
Penso che sia serpeggiata pian piano fino a diventare mastodontica la certezza che senza il filmone sparaflesciante di effetti speciali non si rientri nelle spese. E quando si ha paura di rischiare anche le storie finiscono nell'”omologatore”. Persino la Disney o la Pixar, con notevoli eccezioni, seguono questo canone del momento tanto che dopo dieci minuti dall’inizio del film sai già di aver esaurito tutte le sorprese.
Con ripercursioni non solo in America.
Possiamo parlare di crisi del Cinema? Si parla di crisi del Cinema credo dagli anni ’50. Quindi come termine non ci aiuta granché. Certo è che una riflessione interna i vari Spielberg, Abrams, Lucas, Nolan dovranno cominciare a farla. Altrimenti, davvero, non varrà più la pena spendere 8 euro per andare a vedere un prodotto fatto con lo stampino. Meglio restarsene a casa a vedere una serie.
Dalla periferia dell’Impero, i ‘capoccioni’ di Hollywood vengono accusati di non ‘aver capito’ le potenzialità del Signore degli Anelli, di Titanic e Terminator.
Misteriosamente, detti ‘capoccioni’ hanno investito miliardi di dollari nella produzione, distrubuzione e pubblicità di detti film. Evidentemente l’hanno fatto per sbaglio, dicono dalla periferia dell’Impero.
L’ipotesi che sapessero benissimo quel che facevano non è presa nemmeno in considerazione.
Ah, povera Italia…
Sasha come abbiamo già visto prima le Majors direttamente o meno finiscono sempre per produrre queste opere. E’ anche certo che fossero parecchio recalcitranti rispetto al SDA. Oggi, e basta scorrere un elenco dei film più visti, si contano a decine ogni anno i “seriali”. Come in tv. Ma con una qualità obiettivamente peggiore.
Giusto ieri sera sono andato a vedere il terzo capitolo di “Hunger Games”. Questa saga distopica era, a mio parere, un’eccellente materia da film: idea molto ganza, sviluppata molto male (soprattutto nel terzo libro). Quella di ieri sera è stata sicuramente una delle pellicole più brutte che abbia mai visto. Sono riusciti a far sembrare dei cani attori eccellenti come Jennifer Lawrence, Julienne Moore e Woody Harrelson. Un piattume di seghe mentali durato due ore, senza che accada nulla. Com’è possibile che in un film del genere che ha attraversato almeno 5 fasi di lavorazione della storia non abbia incontrato nessuno che si sia posto il problema della cacata immonda che veniva fuori?
La mia risposta è: perché è stato voluto così fin dall’inizio. E questo è un guaio. Il cinema hollywoodiano oggi annaspa senza sapere bene cosa voglia raccontare e cosa voglia essere.
Caro Sascha, se ti informassi un minimo scopriresti che Jackson e Cameron (quest’ultimo un laureato e appassionato di filosofia!) PRIMA di ricevere finanziamenti e avalli dalle Majors, hanno dovuto rischiare di tasca propria tutti i loro averi pur di girare come loro avevano concepito i film che ho citato. Le Majors, accortesi dell’affare, sono entrate in gioco solo a prodotto finito distribuendoli e facendo la loro fortuna e quella degli autori citati.
Restando in tema cinematografico, la “periferia dell’impero” (che non è solo l’Italia) spesso produce molte opere interessanti o addirittura innovative, ma a causa della sproporzione dei mezzi di DISTRIBUZIONE (non di produzione: capita che nelle top ten al botteghino “si infilino” prodotti a molto più basso costo e di alta qualità, un ultimo esempio italiano è il bellissimo film di Martone), non trovano un pubblico e quindi un successo commerciale.
Per il resto quoto totalmente le osservazioni di Ekerot sulle serie televisive, diventate ormai l’unico “laboratorio audiovisivo a grandezza naturale” che ci sia. E meno male. (Mi scuso se siamo andati O.T.)