La Buchmesse di Francoforte e l’Italia paese ospite, tra Carosone e ‘O sole mio. Come scrive Paolo Rumiz, “”Non era solo un inconveniente. Era percepibile ovunque nello spazio centrale offerto al mio Paese, ospite d’onore della rassegna, una rappresentazione tendenzialmente da cartolina, un’ambientazione sonora che lasciava poco spazio alla forza della parola nuda. Il tutto con la preoccupazione di riempire gli intervalli tra gli incontri con mandolinate o musiche vagamente sedative, stile sala d’aspetto di un dentista o comunque tali da evitare, con motivi nazional-popolari, eccessivi acuti intellettualistici nei conferenzieri”.
E’ una questione di competenza di chi ha lavorato (male, malissimo, anche prima di Mazza) a uno degli appuntamenti più importanti per la nostra editoria e la nostra cultura? Sì, anche. Ma secondo me entra in ballo anche il concetto stesso di cultura secondo questo governo: perché fin qui, dai tempi del non compianto Sangiuliano, hanno parlato spesso e volentieri di “egemonia culturale” della sinistra senza tirar fuori uno straccio di progetto. Cosa sia l’editoria italiana, cosa si muova nei libri italiani, forse non lo sanno neanche (ma forse non lo sapevano neanche prima). E non danno alla cultura e alla letteratura in particolare il ruolo che si prende anche suo malgrado: raccontare il mondo, raccontare il sentimento del tempo, anche.
In sostanza: chi ha organizzato e pensato la nostra presenza alla Fiera ha immaginato un invito ad amare l’Italia perché è il paese dove fioriscono i limoni eccetera. I limoni fioriscono pure, tra un diluvio e l’altro: ma c’è molto altro da raccontare. Ancora una volta, volendolo fare. Peccato.
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A proposito di lavoro culturale. C’è un aspetto che si associa immediatamente a queste due parole ed è quello della sopravvivenza dei lavoratori della cultura. Dal momento che si avvicina il primo Festival italiano di letteratura working class (che si deve ad Alberto Prunetti e ad Alegre), e sollecitata da un articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto, vado a leggere un articolo sul Guardian di Ben Quinn, che a sua volta riporta i dati del rapporto intitolato Structurally F*cked . Vi si legge fra l’altro che la proporzione di lavoratori culturali che provengono da un contesto operaio si è ridotta della metà.
Mi torna in mente la lectio sul giornalismo culturale che Nicola Lagioia tenne quasi un anno dopo la morte di Alessandro Leogrande: “Se era così bravo, così competente, così coraggioso, così in gamba come tutti quanti non smettono di dire, perché i grandi giornali non hanno fatto a cazzotti per accaparrarselo, salvo parlarne in termini di superlativo assoluto e lodarlo solo dopo che era morto?”
Ai mille lavori di Leogrande penso spesso, e penso anche a chi ha oggi la sua età e fa appunto quei mille lavori per tirar fuori uno stipendio, e penso ai dati del Guardian e al fatto che alle parole “ascensore sociale” parecchi farebbero spallucce, qualcuno ti guarderebbe storto e altri non saprebbero neanche cosa è.
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