MADRI E FIGLIE

Ordunque. Sull’ultimo numero di Mente e Cervello la vostra eccetera intervista Laura Pugno a proposito di Sirene.  Ma sul penultimo aveva chiacchierato lungamente con Rosa Matteucci: il risultato è qui sotto. State bene.

Nel caso di Rosa Matteucci, è sempre difficile decidere: per esempio, per quanto riguarda il romanzo d’esordio –Lourdes– della scrittrice umbra, ci si continua a chiedere se quella vicenda di pellegrinaggio espiatorio fosse blasfema o mistica (di quel particolare tipo di mistica che si nutre, anche, della ripugnanza corporale). Oppure, nel caso di Cuore di mamma (uscito pochi mesi fa per Adelphi) si resta divisi sull’identità della vera vittima:  la madre o la figlia?

   La madre è Ada, ha un’età indefinita ma è sicuramente vecchia. Non anziana. Perché la vecchiaia di Ada è fatta di mille particolari disgustosi: l’odore di capelli non lavati, il fazzoletto sporco appallottolato nella manica del golfino, la sbrodolatura di minestra ben visibile sui vestiti, lo straccio per i pavimenti gonfio di acqua fetida e mai risciacquata.

   E’ fatta di risentimento, anche. Per la sua antica vedovanza. Per un mondo ostile che non le piace e  che chiude fuori dalla propria lurida tana di provincia (del resto, qualora qualcosa penetri dall’esterno, ha le sembianze di un predatore: come le due ladruncole che, con la consolidata scusa del controllo pensionistico, le rubano i risparmi). Per la figlia, perché non è con lei. O perché lo è, vai a capire. La figlia, a proposito, è Luce, è una donna matura, “né bella né brutta”, con un lavoro insipido, con un matrimonio altrettanto scialbo ormai alle spalle: ma ancora animata da un sognante desiderio di sentimenti dolciastri, di incontri fatali occhi negli occhi, come nelle cartoline e nei fotoromanzi. Per la figlia, la madre è un ostacolo. Per la madre, la figlia è una minaccia: specie se manterrà fede al proposito di installare la temuta badante in casa sua.

   “In realtà – racconta Rosa Matteucci – Ada e Luce sono la stessa persona, raccontata in due epoche diverse della vita. Quando sei giovane, vedi il genitore come un vecchio scalcinato. Quando invecchi, sai che neanche tua figlia scamperà ad un implacabile futuro bisognoso di cure e pannoloni. Ho deciso di raccontare la storia di una madre ingombrante anche per portare prepotentemente alla ribalta il problema di una società dove non muore nessuno, dove nessuno vuole morire e dove una medicina sempre più sofisticata asseconda questo desiderio il più possibile. Eppure,  tutti sperano che i vecchi muoiano: perché hanno un costo sociale altissimo e perché vanno accuditi. Una situazione schizofrenica, no? Da un lato la vita perenne, dall’altro la selezione della specie. Poche decine di anni fa le donne quarantenni erano anziane, a cinquanta erano decrepite, a sessanta crepavano. Ora neanche la menopausa biologica coincide più con l’età reale del corpo e della mente. Le donne arrivano a toccare gli ottantacinque anni, eppure già quando ne compiono settanta ci si augura che scompaiano il prima possibile.

E qui entrano in scena le badanti. Secondo le indagini recenti, l’Italia è il paese europeo con il più alto numero di immigrate che lavorano nelle nostre case. E secondo le sociologhe americane Barbara Ehrenreich e Arlie Russell Hochschild, le autrici di Donne globali. Tate, colf e badanti, le donne occidentali si sono riscattate sulla pelle delle colf. Come le schiave medievali dei paesi vinti che erano costrette a servire i vincitori, hanno scritto.

E’ vero, l’Italia importa soprattutto badanti. Che hanno il merito di ritirare i vecchietti fuori delle case, di portarli a spasso, di far loro compagnia. Ma sono schiave, sì. Però c’è un problema economico, di domanda e di offerta. Molte ucraine sono ex contadine che in Italia accudiscono anziani che ripugnano a tutti in cambio di ambienti dignitosi e televisori a quattordici pollici. Eppure, credo, già la seconda generazione di badanti sta riuscendo a creare un piccolo capitale da riportare al paese d’origine.

Sono quasi sempre donne, questo è innegabile.

Alcuni sono maschi, affidabili e robusti. Però, sì, le ucraine prendono il posto delle figlie italiane. Nelle società, il ruolo della cura e dell’assistenza è delegato alle donne, perché per tradizione storica le medesime stavano tappate in casa, mentre gli uomini si sono sempre fatti scudo del lavoro. “Devo andare a lavorare, non posso” è quel che ripetono: anche se la casa sta crollando.

Ma c’è qualcos’altro, qualcosa di più sottile della mancanza di tempo,  che rende difficile ad una figlia rapportarsi con una madre anziana?

Certo. Mia madre vecchia sono io da vecchia. Mia madre era il mio specchio. Inoltre, nessuno di noi ha ricevuto un’educazione tale da poter pensare un giorno, di essere il genitore dei propri genitori. La famiglia patriarcale non esiste più. E va bene. Però in quel tipo di famiglia era impensabile rottamare il nonno e la nonna in un istituto. Adesso è la norma, anche se i costi sono altissimi.

Per tornare alla madre: c’è qualcosa della tua in Ada?

Sì, certo. Penso anche a quei dettagli sgradevoli di cui spesso i lettori mi chiedono conto. Li inserisco perché sono un’osservatrice obiettiva: ma il mio è un occhio benevolo, se mi venisse meno la pietas mi limiterei a descrivere una semplice galleria degli orrori. Ecco, nella sbadataggine e nella disgustosa noncuranza di Ada ci sono molte cose di mia madre. Mia madre era peggio, però.. Lei era una donna bellissima e un’intellettuale raffinata: ma faceva delle porcate orrende, perché era stata educata da piccola ereditiera con stuolo di governanti, poi perdute insieme alla sua ricchezza. Mangiava le banane e buttava le bucce per terra. Un tempo le raccoglieva la cameriera, poi l’ho fatto io. E il pop-corn. Nel libro, Ada sventra il regalo della figlia, un cuscinetto rosa ripieno di chicchi di grano, per fare il pop corn che poi dimentica sulla padella. Anche mia madre lo faceva. Di più: metteva la cera a dadi, quella per depilare i baffi, sul fuoco, e se ne andava. Una volta le fiamme arrivarono al soffitto.

Somigliava ad Ada anche nella parsimonia di abbracci?

Era peggio, anche in questo caso. Era anaffettiva. Io sono una figlia non voluta: quando è rimasta incinta di me si è buttata dalle scale nella speranza di abortire. Quando sono nata, mio padre ha continuato a ripetere per due giorni che ero un maschio, pensa che situazione. Però, in un modo non materno, lei mi ha voluto bene: pretendeva che le balie non mi toccassero e mi teneva lei, come una bambola. Non mi dava da mangiare, in compenso, e vietava alle cameriere di farlo: mi nutriva mia nonna, di nascosto.

Cosa significa “in modo non materno”?

Che mi ha voluto bene sul fronte intellettuale: mi ha istruita, mi ha stimolata, e quel che mi manca di più è proprio questo alter ego con cui discutere. Ah, e poi mi amava attraverso i cani: lei li adorava, come veri figli, e se io li accarezzavo era come se accarezzassi lei.

E nonostante questo era per te  il modello da raggiungere.

Per forza. La madre è sempre un modello, finchè non diventa una rivale da distruggere. Da adolescente, pur di non misurarmi con una campionessa di bellezza e intelligenza come lei, non potevo che morire: di anoressia e di bulimia. Come moribonda ero il massimo: ma sono sopravvissuta. E mia madre era indistruttibile. Non era la mamma classica che ti rifà il letto, lei leggeva Rilke e conversava di filosofia. Ti dava consigli. Aveva classe. Ecco, da questo punto di vista un po’ le somiglio. Non l’ho mai vista arrabbiata, non ha mai fatto una scenata, non ha mai alzato la voce. Quando mio padre è morto, perché non era stato curato come era necessario in ospedale, lei non si è scomposta. Davanti alle cose più orrende della sua vita non ha gridato, né pianto. Era forte, ed era il mio punto di forza.

Tuo padre, invece?

Mio padre era un altro pazzo: il suo motto era niente famiglia e grandi alberghi. Era ingegnere, ma aveva il vizio del gioco. Quando vinceva, mi portava al Danieli al Des Bains e mi faceva regali bellissimi. Dopo tre giorni perdeva e mi rubava tutto. Anche da adulta, quando andavo a trovare i miei genitori, dovevo togliere il portafogli dalla borsetta, altrimenti mio padre mi avrebbe tolto anche gli spiccioli.

Un colpo dopo l’altro.

Non è tutto. Aggiungo la storia di mio nonno. Quando la famiglia va in rovina, un mese prima che il palazzo di famiglia venisse messo all’asta, mio nonno chiama i suoi quattro cani in giardino, alza la pistola e ne uccide tre. Io, che avevo otto anni, mi metto davanti al quarto. Lui si spara davanti a me e io perdo la parola. Non parlo per un sacco di tempo.

Adesso, però, spiegami perché Luce (e Rosa) vengono attanagliate dai sensi di colpa, invece di farli venire agli altri, eventualmente.

Sono stata sette anni in analisi per capirlo e per  “risolvere” la mamma. Adesso sto meglio, sto imparando che il punto di partenza devo essere io, e che non devo fermarmi a pensare quali sono le pretese degli altri su di me, e dunque come assecondarle. Finito. Ho seppellito l’immagine della bambina che ero, e che doveva morire. Ora sto per seppellire la giovane donna moribonda. Ho finito i funerali. Sono orfana: sono morti genitori, cani, gatti. Non devo rendere conto a nessuno.

Tua madre ha accettato la badante?

Sì. Perché stava male. Non accettava la malattia, in compenso. Per mesi mi ha rimproverata di averla soccorsa. Aveva un polmone solo, una broncopolmonite e una crisi di anossia. Morivo ed era meglio, continuava a dirmi. E forse sì, aveva ragione. Ci saremmo risparmiate undici mesi con lei attaccata alla bombola di ossigeno, ed io che ogni tre-quattro ore dovevo intervenire con un  siringone di acqua bollente per togliere il ghiaccio che si formava sugli ugelli. Sei litri al minuto, era l’erogazione: la Asl si chiedeva che ci facessi con tutte quelle bombole, in genere un malato ne usa molte di meno prima di morire. Ma lei non moriva mai, e mi mandavano gli accertamenti a casa per verificare che non facessi commerci illeciti di ossigeno. Poi c’era il cane.

Un altro?

Sì, un jack russell, inseparabile da mia madre, che rosicchiava il tubo dell’ossigeno e mordicchiava le infermiere, Mia madre non si rendeva conto. Quando lei è morta, ho buttato le bombole con tutto il carrellino fuori dalla finestra: solo l’immagine mentale del tubo, delle cannule e della mascherina mi fa stare male. E poi, dopo i primi due mesi e dopo una nuova embolia, lei insisteva nel voler morire. Mi perseguitava, diceva che dovevo ucciderla. Al punto che, con discrezione, ho cominciato ad investigare: scoprendo che se le avessi tolto l’ossigeno non sarebbe morta, ma sarebbe rimasta paralizzata. E sarebbe stato peggio. Avrei dovuto annegarla mentre le lavavo i capelli nel lavandino. Ma non potevo, e lei mi malediceva. Infine, era maggio, è cominciata l’agonia: e lei, a quel punto, voleva che la seguissi nella tomba, che non la lasciassi sola. Mi sono difesa. Non volevo andare con lei. E ho gettato la spugna. Poi…

Poi?

Poi è successo che non avevo più la mamma, non avevo lavoro perché il giornale con cui collaboravo mi aveva cacciata, non avevo più soldi. Il cane sì, c’era ancora. E allora mi chiama Roberto Calasso, e mi chiede per Adelphi “una cosa breve che faccia ridere”. Ed è nato il romanzo, Cuore di mamma. Le prime pagine che ho scritto non corrispondono all’inizio attuale del libro. Sono quelle in cui Ada, trascinata dalla figlia al pranzo sociale del paese, viene colta da paresi ed entra nel tunnel di una  lentissima agonia.

Cosa ti spaventa, adesso?

A me la vecchiaia fa proprio paura. Sono terrorizzata. Mi sono sempre detta: mi suicido prima di invecchiare. Poi, è chiaro, si dice e non si fa. Ma resta l’orrore della decadenza fisica. Non sono mai stata una bellissima donna, come lo era mia madre. Però l’idea del degrado, ecco, mi tormenta. Alla fine, per fortuna, ho un’ottima corazza intellettuale, mi dico. E smetto di preoccuparmi.

 

 

 

 

 

 

 

 

12 pensieri su “MADRI E FIGLIE

  1. La famiglia di Rosa Matteucci è un vero museo degli orrori, almeno a giudicare da questa intervista. Al di là del caso personale e di una famiglia al limite del patologico, è vero che il rapporto madre – figlia, anche in situazioni di (apparente) normalità è sempre contraddittorio, accidentato, confuso: lo dico da madre e da figlia (irrisolta), nella consapevolezza che il mio essere “figlia” ha condizionato pesantemente anche il mio essere madre … un’eredità difficile che si trasmette di generazione in generazione e che a un certo punto (ma non è facile!) va spezzata, cancellata, gettata via. Penso ai libri di Marie Cardinal, penso a Elisabeth Badinter, ad Alice Miller, ad Alba Marcoli (di quest’ultima vorrei ricordare “Il bambino perduto e ritrovato – Favole per far la pace col bambino che siamo stati”)

  2. a voce alta dico: mia madre non è più la stessa persona di una volta; ma non è vero, è la stessa persona, è solo che adesso è vecchia; è solo che prima non aveva bisogno e aveva un ruolo che le bastava e adesso invece si aggrappa ai rimasugli di affetto, cerca pezzi di intimità che non c’è mai stata e io scappo; anche certe carezze fugaci sulla schiena mi irrigidiscono e ho già il terrore di quando i miei figli mi percepiranno con lo stesso disagio, o forse è già così e non lo so.

  3. E’ una delle interviste più belle che abbia mai letto, anche se della Matteucci non ho mai letto niente.
    Nel merito, credo che il disagio che proviamo nei confronti dei nostri vecchi sia legato alla percezione allucinata di una società di singles, che insieme ai vincoli comunitari ha rescisso quelli generazionali. Per fortuna finirà presto: i costi sociali e psicologici dell’attuale stile di vita sono tali, che non sopravviverà più di qualche decennio. Non è questione di rimpiangere il patriarcato: gli attuali trentenni di casa non escono, diventeranno badanti dei loro vecchi per condividerne la pensione, come un tempo lo si faceva per condividerne l’esperienza. natura nisi parendo vincitur

  4. che ne è stato del jack russel?
    p.s. le famigerate rottamazioni in case di riposo a mio parere sono di gran lunga preferibili a badanti furbette che svolgono compiti disumani senza droghe o un briciolo di vera passione e allo strazio di vite irrisolte di figli consumate nell’inconsapevole attesa di una dipartita.Ho visto troppi sacrifici umani maturati nella debolezza disperata e/o ipocrita(quando il patrimonio familiare non consente il ricovero in strutture dignitose dovrebbe pensarci uno Stato degno di questo nome).Sono vicino all’autrice

  5. Dolcissima Loredana, non ho un picci, mi collego da un point pubblico.
    Che male c’è a chiederti quanto guadagni? Mi spiace che Tu arrossisca e tenga il muso. Daltronde sei una star del giornalismo. Pensa a quante giovani pensano a Te come ad un modello. Di tutte le star sappiamo tutto. Forza dunque, daltronde se è vero che G.A.Stella sta scrivendo un libro sulla casta dei giornalisti, ti conviene parlare, nessuno Ti mangia; non sei mica La Politosckaja o il grandissimo Roberto Saviano (l’unico giornalista italiano)
    Ti ricordo ancora che al netto intasco dalla coop 981 euro senza facilitazioni riguardo al trasporto nel carro bestiami, nè la mensa quotidiana da Flunch. Ti richiedo a quanto ammonta il Tuo contratto esterno con Repubblica e Tutti i benefit di cui godi circa viaggi in prima classe su treni, aerei etc. nonchè ingressi a cinema, teatri, e tutto renda una vita meravigliosa. Immagino che Tu ti senta male al solo pensar di pranzar da Flunch tra operai puzzoni. O viaggiare in treni locali tra migranti non perfettamente asettici ed educati. I Toui migranti sono letterati, profumati ed un pò effemminanati. Beata Tee!! Quanta invidia!!! Infine, a quanto ammonta il Tuo contratto Rai? Ti chiedo troppo? A me non pare.
    Circa il nuovo Re delle cliniche private italiane, Carlo DeBenedetti, è vero che voi dell’editoriale l’Espresso godete di Facilitazioni?
    Ricordo infine a tutti che Loredana ha firmato l’appello per la liberazione immediata dell’assassino comunista Ceseare Battisti, condannato per aver massacrato un giovane macellaio veneto e illeterato. Ciò per finanziare la lotta armata in favore del popolo. Spero che Tu mi risponda dolcissima Loredana.

  6. siccome sono di pessimo umore, dico basta. basta alle finte impiegate coop che in realtà hanno altri nomi e altri stipendi e vengono qui solo per provocazione.
    da quello che so la lippa è un collaboratore esterno, ha più volte raccontato di viaggiare in metropolitane puzzolenti e non mi pare in nessun modo abbia dato prova di snobismo o di far parte di lobbies culturali.
    Matilde Bonino usa le stesse parole di Massimo Del Papa. uno che si è fatto buttare fuori persino da Libero.
    da lettrice fedele, chiedo con tutto il cuore alla titolare di moderare i commenti o di bannare la presunta bonino.

  7. Anche se fosse una vera impiegata coop, le sue domande resterebbero altrettanto ingiustificate ed ingiustificabili.
    Siccome la moderazione dei commenti lascia sempre con l’amaro in bocca, mi associo alla richiesta di ban

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