MAMMA MIA: PERCHE’ E’ DIFFICILE INTRAPRENDERE DISCORSI SUL MATERNO

Noto che le discussioni sul materno si moltiplicano e, come spesso avviene, si irrigidiscono. Le cause sono infinite, come sempre: un episodio di cronaca, un libro (come quello di Michela Murgia, “Dare la vita”, che al solito viene preso come attacco personale a chi ha figli – e che noia, e basta con i personalismi, anche, non siete il centro dell’universo – e non come la traccia di una possibilità), altro. 
Ben 12 anni fa scrivevo questo, in “Di mamma ce n’è più d’una”. Con qualche variante, temo che valga sempre.

 

Il Palazzo d’Inverno era luogo di meraviglie e splendore. Ma il suo nome era anche Città proibita. L’imperatore della Cina, che deteneva il potere più alto, era un prigioniero proprio in virtù di quel potere. Anche la maternità è un Palazzo d’Inverno: dove è splendido aggirarsi ma da dove non si può uscire. A meno di non abdicare, condividendo quel che ci è stato attribuito. Perché potere e libertà si elidono. Per secoli, la maternità è stato l’unico potere concesso alle donne, e oggi torna a essere prospettato come il più importante, l’irrinunciabile, il naturale, il primario.

Lo ribadiscono  televisione, giornali, libri, pubblicità. Nelle narrazioni, in assoluto, si torna a raffigurare la donna soprattutto in quanto madre in nome della ritornante “naturalezza”. Ma anche se così fosse, ha poco di naturale l’idea di una felicità costruita sull’idea di una scelta obbligata: non è necessariamente “naturale” restare a casa con i propri figli a girare l’arrosto, magari gestendo un blog con cui ottenere qualche gadget dalle marche di detersivi e di pannolini. Non è naturale l’idea di voler plasmare se stesse e i propri figli secondo lo spettro di una perfezione impossibile. Non è naturale l’ossessione contro l’Artificio (dalle medicine alla scuola). E’ semplicemente l’aggiornata declinazione di una gabbia che imprigiona la madre e il figlio. Un’utopia malvagia. Una dis-topia..

Alla Semain de la critique di Cannes, e poi al Torino film festival, si è molto parlato di 17 filles, opera prima di Muriel e Delphine Coulin basata su un fatto di cronaca. Diciassette adolescenti  restano incinte contemporaneamente: il loro è un gesto di protesta, e insieme di onnipotenza. Come spesso avviene alle giovanissime, detestano la vita meschina offerta da una cittadina di provincia. Ma invece di sognare la partenza verso mondi diversi, credono che sia la maternità quel luogo fantastico cui approdare e  lo status che permetterà loro di essere forti. La rivolta, dunque,  non è più  la fuga on the road di Thelma, di Louise, delle tante donne che hanno sfidato il proprio ambiente (finendo per venirne uccise, molto spesso),  ma un ventre rotondo. Le ragazze pensano che questo sarà il primo passo per il cambiamento: madri giovanissime che crescono assieme i loro figli, formando il nucleo che rifonderà il futuro. Una dopo l’altra, convinte dalla madre alpha, Muriel, rimangono dunque incinte, e trasformano la gravidanza in trend: chi non le imita viene “considerata una sfigata”, tanto che qualcuna finge di aspettare un figlio pur di non essere tagliata fuori da quel gruppo di corpi che, similmente a quanto avveniva per le aspiranti starlette o aspiranti escort, sono in quel momento ciò che conta, ciò che esiste, la via suprema – se  non per il successo – per la realizzazione. Non finisce bene: perché alla fine, dietro una fila di carrozzine identiche, le giovani madri si ritroveranno a chiacchierare sulla piazza del paese, così come fecero un tempo  le loro stesse madri. L’utopia si è sgretolata.

Eppure basterebbe cedere lo scettro, per difficile che sia. Basterebbe riaffermare, con forza, che non esiste un solo modo di essere madre, che non è vero – non necessariamente – che si partorisce nel dolore e che l’aborto è un lutto insuperabile, e che anzi la parola dolore e la parola sacrificio non si coniugano automaticamente per tutte le donne del mondo. Basterebbe ribadire che non importa se il figlio o la figlia non sono capolavori viventi, ma che sono meravigliosi in quanto esseri imperfetti e oggetto di imperfetto amore. Basterebbe sottolineare che non è necessario diventare madri per essere, ebbene sì, felici: perché le donne che scelgono di non esserlo non hanno voce, sono un’anomalia, una stortura, ancora oggi.

Non è facile, perché la maternità trionfante, in questi oscuri anni Dieci, fa comodo a troppi. In quella fatidica festa della mamma 2012, guardando il doodle (il logo quotidiano) di Google dove le due O si trasformavano in figlioletti saltellanti della G, a cui offrivano un fiore, mi sono domandata come mai la ricorrenza fosse divenuta, di nuovo, così importante. Quello stesso giorno, mentre croci fatte di feti di plastica sfilavano per le vie di Roma fra le urla di “assassine” dei manifestanti per la vita, Procter & Gamble acquistava un’intera pagina di quotidiano per scrivere queste parole:

“Non hai orari e le giornate sono lunghe, intense e imprevedibili.

Non ci sono aumenti di stipendio o promozioni. Non ci sono benefit o tredicesima di fine anno.

Non hai mai una settimana, un giorno o anche solo un minuto di riposo.

Per non parlare di tutte le notti e i weekend in cui devi essere di servizio.

Non esiste una scuola che ti prepari a questo lavoro.

Ma quando la vita ti porta a farlo, tutti si aspettano che tu lo svolga in modo impeccabile, con disinvoltura e senza sosta.

Descritto così, sembra un pessimo lavoro.

Ma chi lo ha intrapreso sa che non esiste niente di più appagante.

Il lavoro più impegnativo al mondo è anche il migliore al mondo.

Grazie di cuore, mamma”

Solo fino a un anno prima, questa santificazione della madre sarebbe suonata eccessiva, per giunta se proveniente di quello che è forse il maggior idealizzatore del materno in pubblicità e nel marketing on line, Procter&Gamble. Ma i tempi sono davvero cambiati. A giugno, dopo il doppio gol di Mario Balotelli alla Germania, i giornali esaltano la di lui madre, pubblicando la fotografia del suo abbraccio al calciatore, dalla tribuna, gli occhi chiusi per la commozione: incredibilmente, la posa risulta  identica a quello di uno spot che, come vedremo, proprio Procter&Gamble ha realizzato per le Olimpiadi, dove una giovane campionessa vola dalla madre in lacrime dopo la vittoria. E’ un trionfo di retorica: i siti d’informazione pubblicano gallery dove altri personaggi famosi baciano e stringono la gloriosa genitrice, da Valentino Rossi a Federica Pellegrini, passando poi a ragionare di icone della letteratura (La ciociara) o del cinema (Mamma Roma).
“Vuol dire che l’archetipo materno, in salsa tricolore, è davvero qualcosa di intramontabile, inattaccabile, eterno. Simbolo trionfante, imperituro, del nostro Paese”, scrive su Repubblica.it Claudia Morgoglione, ripercorrendo il mito a partire dalla divinizzata signora Rosa Berlusconi fino all’altra idealizzazione, poetica ma non meno soffocante, di Pier Paolo Pasolini (Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu / sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: / ho passato l’infanzia schiavo di questo senso / alto, irrimediabile, di un impegno immenso. / Era l’unico modo per sentire la vita, / l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita”).

Un pensiero su “MAMMA MIA: PERCHE’ E’ DIFFICILE INTRAPRENDERE DISCORSI SUL MATERNO

  1. Sicuramente le donne non hanno ancora conquistato il livello e le varie forme di potere degli uomini. In questa società italiana attuale si vuole togliere la libertà alla donna ma anche il potere. La maternità responsabile nelle sue varie forme, frutto del desiderio condivisibile ma non per forza è un momento tra i più belli della vita di una donna ma non può comportare una limitazione alla sua libertà come si vorrebbe attuare.

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