PAOLO FABBRI E LA FRECCIA DEL TEMPO

Millepiani, in onda questa sera alle 21 su Cult Network (replica domani alle 9), ospita Paolo Fabbri. Che, fra le altre cose, dice:

“Si è spuntata la freccia del tempo. Chi sa se ci sveglieremo domani e sarà domani? Io sospetto che quando ci sveglieremo domani sarà oggi, cioè l’oggi del domani. È che probabilmente il tempo futuro, che una volta ci aveva tanto attirati e che sembrava il posto in cui avremmo avuto voglia di andare tutti ad abitare, è un po’ in crisi. Oggi tutto sommato vogliamo stare nel presente. Certo, l’obiezione che si potrebbe fare è che il presente è destinato a passare per definizione, ogni presente diventa subito al passato, come quando ho detto qualche momento fa presente, era già passato. Sì, è vero, però quando si perde la prospettiva del futuro è difficile pensare al domani se non come un oggi che si ripete. Così è quando si perde la capacità e la forza dell’utopia: si passa sconvolti dal presente al presente, dall’oggi all’oggi, e allora non c’è ragione che venga il domani.
Forse la freccia del tempo non si è spuntata, diciamo che si è distorta. Ma si è distorta male, perché una volta pensavamo che ci fosse prima il passato, poi il presente e poi si guardava verso il futuro, verso l’utopia. Forse non guardavamo bene, il modo giusto di fare le cose doveva essere diverso, dovevamo collocarci davvero nel futuro e mantenere la tensione del futuro, poi dal futuro si guardava al passato, si sceglievano le cose giuste in funzione dei progetti del futuro e poi si tornava al presente. Cioè la freccia del tempo dovrebbe cominciare dal futuro, tornare al passato e venire al presente, carico di un futuro che avesse avuto conoscenza del passato. Ma la freccia del tempo si è storta di nuovo e andiamo sconvolti dal presente al presente.
C’era una volta il
piano quinquennale: una volta si poteva pensare addirittura per anni la nostra società e costruire, come in momenti orgogliosi del massimo del comunismo detto reale e realizzato, organizzare una società per addirittura cinque anni, cosa che a me sembra del tutto inverosimile, e che nell’epoca del presente generalizzato, del presente in tensione ci sconvolge. Allora la programmazione, che un tempo era una problematica di società, è diventata una problematica di computer: la programmazione è, molto semplicemente, il modo con cui il programma del computer organizza la nostra giornata prima che noi intraprendiamo le nostre attività. Allora la questione è entrata addirittura nel vocabolario quotidiano. La gente dice: “mi sono programmato” per fare questa cosa. E di colpo la nozione di programma che è stata perduta dalla società è stata interiorizzata dai soggetti per via di macchina. Quando diciamo “ci siamo programmati” diciamo, molto semplicemente, “stiamo solo eseguendo le istruzioni del programma inscritto nel nostro PC”.
Siamo in un’epoca revisionista, sotto tutti i punti di vista. Ad esempio, abbiamo una sconsiderata passione per il passato, una tendenza a giudicarlo, e anziché pensare che uno dei modi di usare il passato è quello di dimenticarlo, e che forse aprire l’avvenire è solo possibile una volta che si è messo da parte il passato – era l’idea delle avanguardie del secolo scorso -, oggi la fine del futuro fa sì che abbiamo una straordinaria passione per il passato. Evidentemente questa passione per il passato fa sì che abbiamo l’impressione di noi stessi come di “nani seduti sulle spalle dei giganti”. Nessuno pensa che sia possibile un gigante seduto sulle spalle di un nano, e quindi è impossibile che nel futuro ci siano giganti che stimino il passato come un mondo di nani. Il risultato però è che inevitabilmente si pensa il passato nei termini dell’età dell’oro. C’è stata l’età dell’oro, quella dell’argento, quella del ferro, e poi verrà anche l’età del piombo: gli anni futuri potrebbero essere di piombo, tanto è vero che si parla molto di declino: le culture finiscono quando non riescono più a pensare il futuro e l’utopia, per pensarci come società costantemente minacciata dal declino.
Lo
zero è un’invenzione recente: i latini e i greci non avevano lo zero. Ci sono voluti gli arabi, alla fine del primo millennio, che hanno inventato lo zero e ci hanno permesso di far sì che quella cosa che sembra che non conti niente conti tantissimo: basta attaccare uno o due zeri (che sommati non danno nulla) a una cifra e passiamo da dieci a cento a mille. Nulla è più potente dello zero, che apparentemente non conta nulla e in realtà ha un valore di calcolo immenso. Una di quelle grandi invenzioni della matematica che ha un peso così grande… Zero ha la stessa radice di “zefiro”, che vuol dire “soffio”, e in arabo vuol dire semplicemente nello stesso tempo “vento” e “cifra”, lo zero è per definizione la vera cifra. Così siamo oggi nel valore dello zero ma, più che nella cifra moltiplicante, nello zero alito e vento. Pensate alla “tolleranza zero”, allo “sviluppo zero”, al “grado zero” della politica”.

12 pensieri su “PAOLO FABBRI E LA FRECCIA DEL TEMPO

  1. Su una cosa non sono d’accordo, la passione per il passato.
    E’ vero che molti prodotti mainstream (film soprattutto) sono rivolti al passato, ma dove altro la coglie Fabbri?

  2. A forza di ripeterlo si finisce per crederci. La fine del futuro come la fine della storia. Un modo come un altro per impedire alla storia (e al futuro) di andare avanti con le categorie di pensiero che gli appartengono.
    Da tempo non si vedeva un blocco sociale e intellettuale di simile forza e dimensioni: la fola che tutto quello che c’è da dire è stato già detto. Non è morto il futuro, che io sappia, ma il modo di interpretarlo usando categorie che sono stantie ma ancora ritenute vincenti. Troppo complesso questo futuro, troppo veloce. Basta pensare alla sfera della politica, nella quale si fa fatica a generare valori e categorie interpretative che non siano figlie, ancora oggi, delle dorsali ideologiche di antica memoria.
    In effetti ci sono tanti futuri, tante finestre che si aprono e che non possono essere rubricate nel flusso consueto, cioè quello dell’ideologia (parola neutra). Mi viene in mente il dibattito attualmente in corso su WMI (writers magazine italia), quando si parla di esordienti che nelle loro storie NON dicono, NON approfondiscono, lasciano celati i finali, le conclusioni, le vie di fuga che si aprono dentro storie che sono istantanee, frammentarie, come se la realtà dovesse sfuggire alle interpretazioni lineari. In altre parole scritture che NON seguono i canoni rassicuranti del racconto o del romanzo borghese. Nulla di strano, e per certi versi nulla di nuovo (basti pensare alle avanguardie), se non la difficoltà di “leggere” un modo diverso dello scrivere, non più di avanguardia a questo punto, ma contemporaneo. Questa difficoltà diventa teoria, la teoria della fine del futuro. Per fortuna hanno inventato lo zero, dal quale possiamo ripartire. State bene. M.

  3. Fabbri (o meglio, quello che ha scritto) mi ha dato l’impressione di una persona che potrebbe essere molto intelligente, ma che arriva a conclusioni poco stimolanti. La riflessione sulla freccia del tempo era accattivante, niente di nuovo, eppure sembrava una freccia “pungente”, ma poi quell’accenno al revisionismo, alla proposta “scurdammoce o passat’, ueh” mi è sembrata una soluzione moscia e zoppicante (soprattutto in questi giorni, cazzo, scordarsi il passato fra il 25/4 e l’8/5 non se puede!)

  4. O.T.
    Cara Loredana,
    perdonami il fuori programma ma vorrei rivolgerti una preghiera.
    Potresti, per cortesia, invitare scrittori, narrattori, letterati e/o aspiranti tali a fare post meno lunghi.
    Io, come tanti, ho molti interessi e tra questi mi piace venire a leggere il tuo blog e pochi altri che trattano di scrittura.
    Il problema è che quando leggo io sono solo mentre gli scrittori sono tanti.
    La mia capacità di leggere ed assimilare non è infinita e spesso mi devo arrendere di fronte a post troppo lunghi.
    Chi lo dice ai nostri scrittori che la rete richiede sintesi?
    P.S.
    Se il problema da me esposto è solo mio vi prego di non considerare questo post.
    Grazie

  5. Scusate, ci stavo riflettendo per altre cose. E’ la coesistenza di passato presente e futuro a far sì che uno scrittore/ice – non solo, un individuo in generale – raramente si riconosca in “padri/madri”? C’è una bella frase di Marie Cardinale, che ho riportato per intero sul sito ilpostodeilibri.it, che dice, più o meno, (erano gli anni 70, ma oggi è uguale) per i ragazzi, i genitori sono un “passato morto”. E allora, (bello, a lei, alla protagonista 40 enne) viene in mente, per trovare un “contatto” coi figli, di ascoltare la loro musica, ma è lei che deve adattarsi…per loro, lei, la madre, non è “interessante”, poi a fine libro, lo sarà. (La chiave nella porta, M. Cardinal)

  6. E finalmente qualche pensiero, seppur incerto, che ci prende per mano e ci porta a spasso… nel tempo in questo caso specifico. Non tutto è condivisibile, soprattutto l’affabula restauratoria, però ho colto un processo mentale stimolante, intrigante… era ora. Ciao Grazie

  7. Roquentin, se sei in lettura, sappi che ho risposto alle tue ultime osservazioni nel post su JPS
    Fammi sape’:-)
    scusate il piccolo OT

  8. Chiedo scusa, è stato Kwais a precisare che lo zero è indiano, e non Saltino che ha scritto il commento sopra.
    Comunque ha ragione, e l’Anonimo torto, se ci fosse bisogno di ribadirlo :o)

  9. No, ha perfettamente ragione Saltino e l’Anonimo del tutto torto.
    Gli Arabi si limitarono a diffonderre l’uso dello zero come “cifra” ma l’invenzione (o la “scoperta” come la definiscono alcuni) è dovuta a matematici della valle dell’Indo, e parecchi secoli prima che gli Arabi iniziassero la loro secolare espansione.
    Tracce dell’uso dello zero come quantità operativa compaiono già nelle opere di Brahmagupta, intorno al 610 d.C., quindi prima dell’Egira, quando gli Arabi erano ancora una massa di tribù idolatre, disunite e litigiose e poco o niente “civili”, ben lontani dagli splendori dei secoli successivi.
    È ad un testo del sapiente indiano Mahariva, nel 9° secolo d.C., ripreso dall’arabo al-Khwarismi (lo stesso al quale dobbiamo la parola “algoritmo”) e poi da Ibn Sina (noto ai neolatini come Avicenna) e più tardi da Ibn Rush (in occidente Averroè) che si deve la diffusione del concetto di “zero”. Anche il termine “sifr” al quale Fabbri accenna (identificando erroneamente la radice come comune a sephir, vento, della quale è solo omofona, che è un errore di traduzione che risale a Fibonacci) deriva dal sanscrito sunya, che significa “vuoto” esattamente come “al-sifr” in arabo.
    C’è da dire che, molto prima die queste testimonianze scritte, nella valle dell’Indo venivano utilizzate regole aritmetiche che prevedevano l’uso della cifra nulla rappresentata come un cerchietto, e che i Sumeri, parecchi millenni prima, nel sistema numerico sessagesimale usato dagli astronomi usavano un segno (due cunei sovrapposti) a rappresentare la “differenza nulla” o il “numero vuoto” come risultato di un calcolo.
    Quindi ribadire che “lo zero è arabo” a chi fa notare che è indiano, non solo è un errore ma denota discreta supponenza.
    Scusate la lunga digressione, se qualcuno avesse dubbi, sul sito dell’università di Firenze ci sono ottimi articoli in merito, posso riportare i link.
    Gentile Loredana, dato che sarà a Firenze per Nuovo e Utile, presenzierà anche al BlogRodeo Live domani pomeriggio? Pare che il Confuso abbia alla fine accettato di coadiuvare Squonk come Bravo Presentatore nel ruolo che fu di Tommaso Labranca nell’edizione di Rozzano.

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