Per Repubblica di oggi ho scritto questo.
Settecentoventi ore, trenta giorni. I più pessimisti dimezzano a quindici. In Italia, il ciclo vitale di un libro equivarrebbe a una meteora. Negli ambienti editoriali se ne parla da diverso tempo: all’inizio dell’autunno furono i piccoli editori del Festival di Belgioioso a denunciare che l’esistenza di un romanzo o di un saggio stava diventando effimera come quella di una farfalla: se entro un mese non vende, si restituisce all’editore. Le cause? “Troppa offerta, ma soprattutto poco curata: occorre più attenzione a quello che si pubblica, la quantità non è negativa di per sé – sostiene Paolo Pisanti, presidente dell’Associazione Librai Italiani- Comunque, sessantamila novità l’anno sono una cifra incredibile rispetto a qualsiasi categoria merceologica, e senza soluzione di continuità. Un pasticcere sa che ci sono i momenti più impegnativi, come il panettone a Natale e la colomba a Pasqua. Noi non abbiamo pause. Non possiamo far altro che sostituire le quasi-novità con altre novità”. Tutto, dunque, si giocherebbe nell’arco di una manciata di giorni: non è troppo poco? “No. Perché per fare spazio ai nuovi arrivi abbiamo bisogno di liberare i magazzini, e prima ancora di passare dalla vetrina al banco e dal banco allo scaffale: ci sono tempi tecnici, e tempi finanziari. I pagamenti all’editore avvengono mediamente a novanta giorni. Se voglio fare un’operazione economicamente valida, devo vendere i libri prima di pagarli, ma in tempi così brevi è difficilissimo. Dunque, diventa antieconomico tenere un libro che stenta a decollare più di venti-trenta giorni: se fosse possibile pagare solo quello che si vende, o avere termini di pagamento più lunghi, le cose andrebbero diversamente. Infine, i numeri sono cresciuti troppo. Quindici anni fa un best-seller vendeva centomila copie: oggi, per essere tale, deve venderne un milione. Favorire un gruppo ristretto di autori danneggia il pluralismo della diffusione: sembra un paradosso, ma l’Italia non è il paese dei best-seller”.
Ma non è neppure il paese dei troppi libri, dice Cecilia Perucci, direttore editoriale di Corbaccio. “Anzi, teoricamente i libri non sono mai abbastanza. Sicuramente c’è stata un’accelerazione dei tempi, per esempio nel passaggio dall’edizione rilegata al tascabile. Ma non di copie: l’editore, ormai, lavora in base agli ordini che riceve dal libraio, che ha la parola finale sulla quantità. Certo, non tutti i libri possono vendere centomila copie: se hai la fortuna di averne tre o quattro l’anno, perà, puoi permetterti di investire in testi che hanno una misura diversa”.
E, forse, vita breve. La corsa alla pubblicazione rischia di essere un falso traguardo per l’esordiente: “oggi – dice Marco Zapparoli, direttore di Marcos y Marcos – sarebbe difficilissimo vendere un Calvino al suo debutto. Ci sono libri che possono essere apprezzati solo in tempi lunghi e sarebbe impossibile riconoscere la novità rappresentata da Calvino in una manciata di giorni”. Responsabilità dei librai o degli editori? “Diciamo che la situazione è divenuta tesa per mancanza di complicità fra libraio ed editore: più gli interessi sono solidali, più il libraio rifletterà prima di procedere alle rese. Cosa che non può avvenire se l’editore continua a battere moneta, ovvero a mettere fuori libri. Sa perché gli editori pubblicano sempre più titoli? Perché pensano erroneamente di poter compensare le rese che riceveranno e di far quadrare il budget: in poche parole, se in un anno non è stata raggiunta la fatturazione prefissata, in quello successivo si “picchiano fuori”, per usare il termine aggressivo oggi di moda, più titoli a una tiratura alta. I librai stanno al gioco per un po’, ma infine si stancano e rendono. Un abbaglio molto simile a quello degli swap finanziari: che alla fine si sono rivelati carta straccia senza alcun valore. Il libro ha un valore, invece: deve essere trattato con rispetto proprio perché ha bisogno di maturare. Cinque anni fa noi lanciammo la campagna Meno tre: passammo da diciotto novità di narrativa annuali a quindici. L’anno successivo siamo scesi a tredici. Andò benissimo e non abbiamo mai cambiato: anzi, nel 2011 festeggiamo i nostri trent’anni proprio con una collana che si chiama Tredici: perché le energie che prima mettevamo nella produzione, le abbiamo trasferite nella promozione dei nostri libri”.
Annuisce, a distanza, Romano Montroni, principe dei librai, a lungo direttore delle librerie Feltrinelli, dal 2005 consulente delle Coop: “Il libro è come una pianta: diventa grande se lo innaffi tutti i giorni. Trenta giorni di vita? Può essere vero, ma dipende dalla libreria in cui viene collocato e dalla missione di quella libreria. Nelle Coop abbiamo sempre il trenta per cento di novità e il settanta di catalogo. Perché una filosofia di comportamento è necessaria: vedo troppi librai che per affrontare un problema finanziario fanno clic sul computer, tirano fuori l’elenco dei libri che hanno venduto meno negli ultimi tre mesi e rendono a più non posso. Una buona libreria deve sempre avere tre tipi di libri: quelli che si vendono molto, quelli che si vendono meno e quelli che servono a far vendere gli altri. E, soprattutto, un libraio deve saper riconoscere il valore di un libro indipendentemente da quanto vende: se a uno scrittore giovane dai fiducia, devi tenerlo. E non può mancare, in nessuna libreria, un testo di Calvino. Anche solo una copia”.
Anche se oggi, forse, vivrebbe la vita di una farfalla.
Il libro deve maturare e anche l’autore deve essere un autore vero e non semplicemente un “personaggio”seguito dal ghostwriter di turno. Non è il pubblico che detta le regole ma l’editore e se si continua a ragionare in termini di “casi umani” e di “miracoli editoriali” che esauriscono idee e creatività all’opera prima, la situazione non potrà migliorare.
Qui in Puglia non ci sono quasi più distributori che accettano rese. Si lavora comprando i libri, anche se con pagamento a 60 giorni. Per cui diventa davvero complicato prendere quello che piace, invece di quel che è di moda,e che passa in televisione, buono o brutto.
Parlo come libreria indipendente, attenta ai nuovi autori, ai titoli a cui dare fiducia a prescindere, ma è davvero dura andare avanti, e combattere con sconti del 3X2 e simili.
Se le case editrici continueranno a trattare il libro come qualunque merce, probabilmente saranno sempre più i titoli pubblicati, ma quanti arriveranno al pubblico? Quanta la qualità? Vogliamo davvero provare a ragionare tutti e ragionare bene? Grazie.
“La verità è che c’è un’invasione di novità insostenibili, e che spesso non vendono nemmeno una copia. A volte con una battuta dico che gli UNICI A FARE UN PO’ DI SOLDI IN QUESTA INVASIONE DI LIBRI SONO SOLTANTO GLI AUTOTRASPORTATORI. GUADAGNANO INFATTI CONSEGNANDO I LIBRI, E GUADAGNANO DI NUOVO PORTANDO INDIETRO QUEI TITOLI COME RESA…” (Luca Nicolini, libraio e uno degli organizzatori del Festival della Letteratura di Mantova)
Lucio, è tutt’altro che una battuta. Durante la chiacchierata con Zapparoli, il medesimo mi ha detto chiaramente che la movimentazione è diventato il primo business della filiera.
no, infatti, non è battuta.
E se la movimentazione è il primo business della filiera, è facile immaginare che fine facciano i luoghi che dovrebbero provvedere a “tenere fermi” i libri…
Magazzini, depositi, e simili vengono venduti, ceduti, chiusi, ridotti sempre di più, accorpati ad altri.
Le librerie indipendenti vivono realtà come quelle descritte da Alina Laruccia.
Il libro sempre più coinvolto in un ossessivo e continuo movimento da squali destinati a muoversi sempre per non morire…
Guardando da dentro, sono sempre più convinta di quanto dice Zapparoli: poche novità all’anno, ben seguite sia nella fase realizzativa che in quella promozionale, è l’unica strada percorribile per ridare al libro il suo valore originario di deposito e veicolo di idee, storie, fantasia…
Forse sarebbe opportuno aggiornare sul vocabolario la voce “editore”.
In realtà Sir Robin (prometto che ti rispondo presto alla mail, per inciso), non c’è una sola responsabilità per la situazione attuale: è un sistema che, al momento, sta producendo questi effetti.
C’è la rete, è vero. Però al momento – ed è un parere personalissimo – sono molto prudente per quanto riguarda gli eBook in Italia.
Sono in crisi le case editrici e le librerie, non c’è dubbio, andare avanti a sfornare 60 mila novità all’anno non serve a nessuno (se non ai trasportatori, appunto).
Se come dite, per apprezzare un libro e il suo autore occorre tempo, allora prendiamoci questo tempo. Chi scrive si prenda il tempo necessario per essere conosciuto, faccia il self-publishing e si metta a tessere relazioni. Alla lunga i frutti verranno e saranno duraturi e consolidati.
Basta affidarsi agli editori e ai librai, che se ti pubblicano, poi ti bruciano in un mese. E chi s’è visto s’è visto.
come si diceva, la responsabilità non è di un unico attore. Sono parte in causa, quindi parlo “pro domo mea”, però non penso che l’unica soluzione sia: lasciamo stare editori e librai. Meglio dire: lasciamo stare editori e librai che si comportano in un certo modo. Credo che l’autore abbia bisogno di un interlocutore che faccia da intermediario, da filtro, da ponte, tra sé e i lettori. Un buon lavoro di editing è importante per un testo, aggiunge valore (ho sempre presente Grazia Cherchi – meravigliosa tessitrice di “editing” scomparsa troppo presto – quando lavoro). Un buon lavoro di impaginazione è importante per un testo. La bella pagina non è un vezzo, è necessaria.
Danae sono d’accordissimo con te, un buon editing e una buona grafica per la copertina sono importantissime.
Ma per fare questo ci sono agenzie specializzate, che paghi e ti fanno il lavoro. Poi sta all’autore credere nel valore della propria opera e promuoverlo. Se incontrerà l’interesse di qualcuno venderà.
Sono diventa intollerante ai filtri a priori delle case editrici e alle preoccupazioni economiche dei librai. (questo in generale, poi sappiamo che le eccezioni posso sempre esserci).
E’ assurdo che un autore fatichi anni dietro un libro per giocarsi tutto nel giro di un mese, le case editrici come diceva Zapparoli dovrebbero dedicare più tempo ad un singolo libro, seguirlo e sostenerlo, questo non significa vendersi l’anima al diavolo ma essere professionisti seri, ho l’impressione invece che vige il famoso “pochi, maledetti e subito”.Ad esempio non ho mai capito perché non hanno mai stampato delle edizioni economiche di Wunderkind 1 e 2?Da profana penserei sia la cosa più ovvia da fare, ho per le mani una trilogia prima di stampare il 3 perchè non esco di nuovo con i primi due ad un prezzo più abbordabile visto anche il target a cui è indirizzato?forse mi sbaglio però il dubbio è lecito che dite?
E fidatevi anche delle librerie indipendenti.
Di noi che abbiamo davvero a cuore i libri.
Lo dico anche a quegli autori che spesso preferiscono i centri commerciali alle librerie,in cui ci sono lettori seri, che amano parlare e raccontare e raccontarsi .
Finchè ci saremo, venite a trovarci. Non troverete un commesso distratto, ma una persona che parlerà volentieri con voi e vi consiglierà e accetterà consigli.Di nuovo grazie.
Alina Laruccia
@ Loredana Lipperini
mah! … sarò franco, io sono molto prudente per ciò che riguarda proprio la lettura in Italia.
Esempio che, credo, sembra ot ma ot non è.
L’altra sera al cinema multisala insieme ad una coppia di amici, fra il serio e il faceto, mi sono dovuto giustificare perché preferivamo andare a vedere clint Eastwood piuttosto che checco zalone: «ma voi volete spararvi le pose…». Per dire, non la retrospettiva sul cinema iraniano degli anni 80, ma matt damon.
Questione di modelli, no?
Discorso complesso, sir Robin. Ho dedicato la rubrica di domani proprio a uno studio americano sulla lettura: stanno cambiando i modelli, ma occorrono comunque risorse e stimoli che vanno offerti.
Sir, scusa l’ignoranza (e l’OT), ma che significa: «ma voi volete spararvi le pose…» ?
Elisa Sanacore,
capisco la tua posizione. Io, personalmente, continuo a preferire l’idea di una casa editrice come luogo dove si elabora una certa visione culturale e si cerca di promuoverla (nel senso di “farla crescere”). Gli autori, così, sono parte integrante di un progetto più ampio, non singoli che vanno da un’agenzia specializzata e si fanno confezionare un prodotto. Nella mia esperienza quotidiana, ho a che fare con autori che non hanno la minima intenzione di farsi modificare il testo, e lavoro in una casa editrice. Posso solo immaginare cosa farebbero quegli stessi autori se dovessero rivolgersi a un’agenzia: “Io vi pago, e allora l’editing lo fate come dico io, la copertina la fate come dico io”.
Certamente da qualche parte bisogna ripartire.
Da un autore che ha qualcosa da raccontare, che sa scrivere bene, che si fa accompagnare nel suo lavoro di elaborazione (fosse solo per sentirsi dire: adesso basta limare e limare, lascia che i lettori leggano quello che hai scritto); da un gruppo di persone che si prende carico di quel testo, lo conosce e fa in modo che sia conosciuto; da un libraio che lo legga, ne parli con i frequentatori della sua libreria e lo venda.
Con calma, con calma (ha ragione Laura: un lavoro di elaborazione lungo, giocato in un mese è assurdo!).
E’ una strategia di marketing l’assalto all’acquisto rapido e immediato: basta guardare la folla nei negozi il primo giorno di saldi, nei cinema il giorno dell’uscita di un film di cui si parla ovunque, nel museo il primo giorno di una mostra stra-pubblicizzata.
Primo giorno, poi… tanti saluti! I principi del marketing si preparano a vendere un nuovo saldo, un nuovo film, una nuova mostra…
Il libro è entrato in questo meccanismo.
@Loredana Lipperini,
leggerò con attenzione la rubrica di domani!
Da qualche mese ho messo su una casa editrice. La scelta l’ho fatta subito: evitare di essere distribuito e fare tutto in proprio. Ovvero contattare singole librerie, offrire i libri in conto vendita (senza esborso da parte dei librai), offrire loro il 40% del prezzo di copertina, in modo che abbiano tutto l’interesse a promuoverli. E il risultato non e’ male. I libri sono sempre disponibili, e si vendono perfino.
@ Gianni Biondillo
^__^ Già!
Lo sparapose è colui che preferisce apparire, che assume una posa non sua per sembrare ciò che non è, per dare di se un’immagine precisa.
Insomma: marketing e comunicazione.
Non ricordo se è un modo di dire che si usa a Napoli o dove altro.
@gianni biondillo, sir robin,
…è tipo: “ma quanto ve la tirate!”?
Insomma, facevate troppo gli intellettuali a scegliere Eastwood!
o a non preferire checco zalone…
Parlo da libraio.
Montroni sa benissimo che le cose non stanno come dice lui. Noi librai veniamo “pressati” ogni giorno da nuove regole, le catene libraie guardano principalmente al guadagno, ovviamente, arrivando a vendere anche oggetto che con il libro nulla hanno a che fare. 30 giorni sono pochi, ma se entro tre mesi (a volte anche due) un libro non è partito lo si rende, a volte non se ne tiene neppure una copia. Le case editrici minori sono quelle che pagano il prezzo maggiore, sono pochi i libri di sconosciuti che vengono presi in più copie, il libro vende, nell’80% dei casi, solo se ha passaggi televisivi (meno se ha recensioni su quotidiani o giornali anche se c’è una fetta di clienti che è molto attenta a queste cose).
Se il libro non ha pubblicità è inesistente, noi siamo arrivati a fare, con gli editori con cui abbiamo resa libera, rese ogni due tre mesi. In libreria arriva, ogni settimana, un quantitativo enorme di libri. Scrivono tutti da Carlo Conti a Paolo Brosio e il problema è che questi libri, per via della pubblicità, vendono. Per non parlare delle case editrici che comprano vetrine, che comprano premi letterari ecc…
E vogliamo parlare della guerra degli sconti? Guerra dalla quale, ovviamente, le piccole case editrici sono tagliate fuori per ovvi motivi commerciali. Anche la figura del libraio si sta ridimensionando, sembra quasi che la professionalità non serva più. è un discorso complesso, è vero, ma vorrei tanto sapere dove ci porterà questo sistema.
Marino Buzzi
@ Marino Buzzi,
che la professionalità non serva più, è vero, è triste pane quotidiano per tutti noi che lavoriamo nell’editoria… L’importante è vendere, quindi va bene Brosio, va bene Carlo Conti… No, proprio no, Parigi non val bene un libro di Carlo Conti!
Si sa come sta procedendo l’iter della legge sul prezzo dei libri?
@ Danae, vedi anche io capisco la tua posizione di piccola casa editrice che vuole portare avanti un certo modello di fare editoria.
Quando scrivi: “continuo a preferire l’idea di una casa editrice come luogo dove si elabora una certa visione culturale e si cerca di promuoverla (nel senso di “farla crescere”)”. L’ideale è molto bello e sarebbe bello trovare editor e editori che seguano un autore, cercando di crescere insieme ed elaborare un visione culturale. Il fatto è che spesso ciò non succede, molto spesso non succede. Succede invece che o l’editing è una semplice correzione di bozze o l’editore ti dice mi piaci come scrivi, ma il libro è da modificare.
E questo modificare non significa semplicemente renderlo migliore dal punto di vista letterario, significa scrivere la storia che vuole l’editore (cosa che è capitata a me e che ho rifiutato, anche perché se un autore decide di scrivere una storia piuttosto che un’altra una scelta a monte ci sarà pure stata no?). Questo per rispondere alla tua affermazione: “Nella mia esperienza quotidiana, ho a che fare con autori che non hanno la minima intenzione di farsi modificare il testo”.
Continui dicendo: “Posso solo immaginare cosa farebbero quegli stessi autori se dovessero rivolgersi a un’agenzia: “Io vi pago, e allora l’editing lo fate come dico io, la copertina la fate come dico io”.
Va benissimo, chi paga ha diritto ad avere ciò che vuole, così come chi compra un libro ha diritto di scegliere ciò che vuole. E se un autore ha speso soldi per farsi fare un libro e poi nessuno lo compra sono affari suoi.
@ Elisa Sanacore,
non volevo fare “l’intuizionista” da quattro soldi e quindi non l’avevo scritto, ma, ecco, comprendo la tua posizione perché è evidentemente frutto anche di esperienze negative che hai avuto, e che sono all’ordine del giorno.
Posso anche capire cosa significa che un editore dica: “mi piace come scrivi, ma vorrei che scrivessi quello che dico io”. Questo perché come gli autori cercano qualcuno che li pubblichi, così gli editori cercano autori per scrivere qualcosa che sanno (o vogliono, o pensano, o progettano, o immaginano) necessario o importante per il proprio catalogo.
Questo è uno degli snodi in cui si può e si deve cominciare a intervenire: l’incontro di “progettualità” tra editore e autore.
Sul modificare il testo, se il redattore o l’editor è “in buona fede”, lo farà con “spirito di servizio” nei confronti del testo e del suo autore. Mi sembra un’occasione sprecata dire: scrivo, me lo faccio sistemare a mie spese, lo promuovo da me, e se nessuno se lo compra sono affari miei. Sono idealista, mi rendo conto, ma continuo a pensare che spostare di un nano-millimetro la propria visuale per confrontarsi con un altro fuori da un’ottica commerciale “pago-pretendo” può aiutarci a migliorare…e magari anche a vendere di più…
Spararsi le pose (espressione diffusa nei dintorni di Napoli) è già leggere, ancor di più scrivere. C’è da augurarsi che gli italiani leggano di più e scrivano di meno? Che gli editori pubblichino di meno? Io non ho letto Guerra e Pace, ma ho letto Peppe Fiore, Culicchia, Carlotto etc Non è solo colpa mia. Il mercato editoriale mi seduce con questo. Sembra che la libreria soccomba alla dinamica esperienziale del sight seeing, l’attitudine turistica a farsi travolgere dalla quantità. Che gli editori mi aiutino.
Per continuare il confronto con Danae… ovvio che tutto ciò che pensiamo e diciamo è frutto di esperienza e, ancor più, la vita è fatta di incontri. Se avessi incontrato un editore capace di esaltarmi ora parlerei diversamente, ma il caso ha voluto che facessi un’esperienza tale per cui ora porto avanti altri tipi di discorsi.
Sappiamo bene che un editore, essendo un imprenditore, deve fare quadrare il bilancio, quindi nel catalogo deve avere titoli che “facciano cassa”, per poter avere le risorse per almeno una collana più ideale, diciamo così.
Solo se è tranquillo economicamente potrà poi coltivare il vezzo di una progettualità tra editore e autore. Non che sia un vezzo, ma lo è stato reso tale dalla logica del mercato, purtroppo.
Siccome, poi, la prima domanda che un editore si fa, al di là del possibile innamoramento immediato di un testo, è: vende o non vende? Se risponde vende, è il massimo della felicità visto che ne è pure innamorato. Se risponde non vende… a volte contatta l’autore per dirgli di rendere il testo più commerciale, altre lo deve scartare con dispiacere.
In fondo la soluzione dell’autoproduzione e autopromozione di un autore potrebbe far comodo agli editori se la sfruttassero, nel senso che questi potrebbero cercare in rete i testi e gli autori che pensano essere adatti al loro catalogo e poi contattarli e farle una proposta. Sarebbe una operazione in fondo economica e mirata. E forse qualcuno già lo fa.
In tal modo si capovolgerebbe la logica: è l’editore a cercare l’autore e non l’autore a cercare l’editore… che mi sembra giusto, anche perché tutto il sistema e i guadagni dei singoli attori esistono perché un autore ha fatto la fatica di scrivere.
Nessuno nomina una questione che in termini di vendita (di qualsiasi prodotto) credo sia fondamentale: il prezzo.
Lo so, l’ho gia’ detto, e sempre un disco rotto. Ma in Italia gli editori prendono i lettori per i fondelli, proponendoci prezzi assurdi. Libri a 15 euri che sono tascabiloni (neanche rilegati) di 200 pagine. Rilegati di 180 pagine a 17 euri. E sto parlando di romanzi, non di manuali.
Esempio: L’arte di correre di Murakami, al suo esordio in Italia costava 18 euri. Al suo esordio in America costava 14$, cioe’ 10.5 Euri. Il 75% in meno.
Il nuovo libro della Murgia costa 17 euri, mi pare, e se non sbaglio sono meno di 200 pagine. Anche il suo libro, scusi la franchezza, ha un prezzo allucinante per l”oggetto che e’ (un tascabile di fatto, senza copertina rigida, per 15 euri).
So che i libri non vanno comprati un tanto al chilo (e il suo lo sto leggendo con molto piacere e allo stesso tempo molta angoscia proprio in questi giorni), ma questi prezzi sono RIDICOLI. E credo che giochino un ruolo importante nel determinare i percorsi di acquisto dei lettori, anche di quelli forti, che magari aspettano la tredicesima o altro prima di comprare vari titoli. E quindi lasciano passare i famosi 2-3 mesi di cui si parla qui.
ehm, non e’ il 75% in meno, ovviamente, ma 7.5 euri in meno…
@Tuscan
da quanto mi dicono amici residenti in vari stati degli Usa, la maggior parte dei prodotti in America costa meno. Da un punto di vista merceologico italico il libro è, a mio parere, un oggetto abbastanza economico. Ci sono tascabili per 12 euro e rilegati magnifici (tipo i meridiani) a 70. Costano troppo? Probabilmente sì, ma il loro costa va messo in relazione al resto dei prodotti (non libri) in vendita.
Barbara, ti confermo che le cose in America costano meno. Pero’ il prezzo del libro italiano continuo a trovarlo esorbitante. Un tascabile a 12 euri e’ – per me un furto. Per non parlare dei numerosi libri pubblicati come grossi tascabiloni e che costano 15-18 euri (Einaudi e Feltrinelli sono i peggiori per me in questo campo). Ogni volta che vengo in Italia e pago i libri che mi segno durante l’anno mi viene il voltastomaco.
Il meridiano a 70 euri ha senso. Un Einaudi tascabilone a 18 no. Ma vedo che il prezzo del libro e’ sempre assente quando si parla dei problemi dell’editoria, come se non contasse. Per me e’ un errore madornale.
@Tuscan
sono d’accordo. Bisogna parlare anche del prezzo dei libri. Sono contenta se mi spieghi – non per polemica ma per autentica curiosità – perché un tascabile a 18 euro è uno scandalo e una scatola di aspirine (confezione da 20) a 8 euro no. Giusto per parlare di prezzi. In Italia – parlo della saggistica – gli editori spesso si caricano dei costi di ricerca attraverso gli anticipi visto che non ci sono fondazioni indipendenti o privati disposte a sostenerle.
PS
non sono un editore
Se considerassimo gli editori un ente culturale, esso potrebbe al limite essere finanziato da fondi statali. Ma visto che lo Stato italiano continua a tagliare sulla cultura non se ne parla nemmeno.
In quanto ai finanziamenti da parte di privati… qui nasce il solito problema che troviamo in altri campi, cioè che i finanziatori saranno quelli che detteranno la linea editoriale… ma gli editori dettano già la linea editoriale in quanto soggetti di mercato… ma allora, forse, sono gli editori a dover cambiare prospettiva, nel senso che non possono più pensare unicamente a guadagni derivanti dalla vendita del libro.
Non so, sarebbe bello sentire qualche editore a proposito.
@Barbara: be’, a parte che non ho detto che l’aspirina a 8 euri non sia eventualmente uno scandalo, pero’ non credo si possa fare un raffronto tra due prodotti cosi’ diversi per finalita’, utenza finale e tipologia di mercato. E in ogni caso io non ho idea se 8 euri siano molto o pochi rispetto all’estero, per esempio: sono allergico all’aspirina, quindi non ho termini di riferimento!
Forse mi sono spiegata male. Per quanto riguarda la saggistica – non scolastici, che sono un mercato a parte – l’editore quando paga un anticipo a un autore finisce per finanziare anche le ricerche che l’autore deve necessariamente affrontare prima di scrivere. Se il testo che gli proponi non interessa, non ti fa il contratto. Gli editori non sono un ente culturale ma un’agenzia di cultura. Non la sola, ovviamente.
@Barbara. “l’editore quando paga un anticipo a un autore finisce per finanziare anche le ricerche che l’autore deve necessariamente affrontare prima di scrivere. Se il testo che gli proponi non interessa, non ti fa il contratto”.
Sì, certo, se il testo che proponi non interessa, non fa il contratto… questa è la prassi, non riesco a capire quello che vuoi dire.
Che poi, io non so se per la saggistica i diritti d’autore siano diversi, ma per la narrativa i diritti sono sul 5%. Una cifra irrisoria.
Facciamo un rapido calcolo: prezzo di copertina 10 euro, il 5% sono 50 centesimi a copia venduta. Se si vendono anche 3000 copie (che per un esordiente sono tante) il guadagno è di 1500 euro (divisi in 500 di anticipo e il resto diluito trimestralmente in base al ritmo delle vendite).
In definitiva un lavoro che è durato circa sei mesi, perché non è che un libro si produca in un giorno, uno guadagna (se va bene) 1500 euro!
Cifra da fare passare la voglia a chiunque di pubblicare.
Allora meglio affidarsi al print on demand, che almeno ti garantisce dal 35% al 60% sul prezzo di copertina. Cioè dalle 7 alle 12 volte la percentuale che ti dà un editore.
Il che vuol dire che il guadagno che ho vendendo una copia con print on demand è pari al guadagno che ho vendendo minimo 7 copie in libreria.
Mi sembra ci sia una differenza sostanziale.
Guarda – io non sono una che vende grandi numeri visti gli argomenti di cui mi occupo – ma per la saggistica l’anticipo te lo danno in due rate: alla firma del contratto e all’uscita del testo. Io ho avuto, per il mio ultimo libro, un discreto anticipo. Se poi vai a dividere per il mesi di lavoro – ricerca e scrittura – è stato quasi come avere lo stipendio di un call center. Ma per un anno ho lavorato su una cosa che mi interessava. La proposta era mia. L’editor è stato delizioso e i librai non hanno reso il testo, nonostante non fosse entrato in alcuna classifica. Altre volte è andata peggio. Probabilmente avevo proposto il testo alla casa editrice sbagliata. Per la letteratura credo sia tutto diverso. Il diritto d’autore è di norma fissato intorno al 7 per cento – ma prima devi scontare l’anticipo. Non so quanto questi dettagli interessano gli altri. Vado sul tuo blog e provo a cercare la tua mail – se non è un’intrusione di privacy!
Intrusione di privacy? Why? Il mio nome qui linka al mio sito e sul sito c’è il contatto mail… di quale privacy stiamo parlando? Tranquilla, questi scambi di opinione servono anche per stabilire contatti e proseguire il confronto.
Trovo stucchevole, ed oltremodo svilente, che la letteratura sia arrivata a soffrire questo stato comatoso dal quale sembra non riprendersi più. Ho letto i vostri interventi, trovandoli amarissimi e sensati… anche la piccola parentesi sulla malattia “zalone”, che come molti di voi sapranno, è anche “scrittore” con ben due libri. Chiaro è, che qualche ghostwriter l’abbia scritto al posto suo, ma non è questo il punto. A mio avviso, si dovrebbe scremare – ed è un sogno utopico, questo – la vera capacità di scrittura di un professionista od aspirante tale, dai classici parvenu dello spettacolo, che godendo della loro faccia di bronzo televisiva, s’improvvisano scrittori. Ma santissimo Satana: possibile che fino a trentanni fa, la figura dello scrittore nell’immaginario collettivo era incarnata da Calvino, Pasolini, Hemingway e via discorrendo… mentre oggi, l’invasione barbarica dei vari cretini dello showbiz ha sostituito la professionalità, con l’immagine pubblica? Sempre seguendo il mio ragionamento, le C.E. che pubblicano i libri di questi imbranati (dal punto di vista letterario, ci mancherebbe!), non hanno capito che hanno dato il “la” per l’inferno di chiacchiericci e boiate che oggi siamo costretti a contemplare sugli scaffali. solo chi scrive libri, conosce a fondo l’impegno e la dedizione che richiedono… ma dando l’idea che scrivere un libro sia facile ed alla portata di tutti… benvenuti nel deserto! Da anima dannata o per meglio dire “d’annata”, sguazzo nelle vostre debolezze… ma comprendo la tristezza di molti bravi autori, eclissati dai vari paladini dell’immondizia. au revoir.
Montroni,che era da Feltrinelli,sa benissimo come funzionano i negozi di questa catena e di altre simili.I pressanti inviti del management a raggiungere il budget annuale con tutte le conseguenze del caso,e cioè dopo 20gg di libreria,il libro viene immediatamente reso per far posto all’ultimo presentato in tv….
E con tutto il rispetto,il libro,alla coop,è l’ultimo articolo che interessa a questa azienda.
Una sana politica,ma sempre più difficile,potrebbero farla i librai indipendenti (sempre meno),ma anche qui giocano ragioni di spazio,di vendite…insomma è sempre più difficile.Purtroppo i tempi sono questi.
Per la rete non mi sento di far ancora previsioni.
@il maligno guarda io non avrei nulla da dire a trovarmi sugli scaffali i libri dei personaggi tv, anche perchè non tutti i potenziali lettori vogliono leggere Pasolini o neppure il mio adorato Parise purtroppo, a condizione però che le CE investano poi i lauti compensi derivati in autori e libri magari meno commerciali ma che siano degni di essere chiamati letteratura, a volte penso al povero Giulio Einaudi a Pavese, Calvino e Vittorini che lavoravano con lui, guardando ciò che è diventata oggi la sua impresa c’è da rivoltarsi nella tomba!!Sono d’accordo con Elisa in fondo oggi grazie ad internet dovrebbero essere gli editori a cercare gli autori e non i secondi a elemosinare l’attenzione dei primi.
Credo che gli editori facciano finta di essere editori, prendendo e pubblicando in blocco quanto rientra nelle loro linee editoriali rigidamente tracciate.Più pubblicano, più guadagnano. Il gioco sta tutto tutto sulla resa e sugli acconti che anticipano agli scrittori. Senza queste voci che fittiziamente un anno le aziende portano in bilancio come ricavi e l’anno dopo come perdite, gli editori fallirebbero, poichè le vendite effettive dei libri non riuscirebbero a tenerli a galla.L’accesso agli aiuti di stato all’editoria, sono l’unico motivo della nascita di nuove case editrici e della loro esistenza in vita. Il discorso vale per tutto l’indotto della carta stampata. l.
Non ho ancora grande fiducia in Internet: e forse il fatto che lo dica una persona che vive sulla rete da sei anni e mezzo dovrebbe allontanare i sospetti di conservatorismo mediatico.
Elisa, il print on demand andrebbe anche bene: ma va bene per pochissimi, per coloro che hanno già una presenza forte, un nome che circola, una visibilità per usare una vecchia parola. E la capacità di usare il web non unicamente per autopromozione. Hai idea di quante persone pubblicano on demand e poi spammano su Facebook e blog e anobii per autopromuoversi? Con quali risultati? Con quali numeri?
Questo, perdonate la franchezza, ammesso che il testo abbia un valore. Perchè io non concordo neanche con “abbiamo tutti il diritto ad essere pubblicati”, che sento sempre più spesso. La risposta è no. Se un testo non è buono, non si vede perchè dovrebbe arrivare alla pubblicazione comunque.
Io credo alla funzione dell’editore, anche in rete. E’ vero che i filtri si sono allargati, è verissimo che si ragiona per filoni, è ultravero che la caccia all’esordiente usa, oggi, canoni che spesso non hanno a che vedere con la qualità. Ma non è completamente così, grazie al cielo.
Quindi, bisogna ragionare di nuovo sul sistema che è andato in crisi per meccanismi economici identici a quelli della finanza internazionale. Ma credo poco ad una folla di autori autoprodotti, senza un editing, senza una valutazione, senza una promozione che non sia quella dell’incursione sulle bacheche di facebook (il “tessere relazioni” di cui parlavi, serve a pochissimo se un testo non è supportato: e, ripeto, se non è un buon testo. Un po’ di autocritica, per favore: non è vera la balla che sento ripetere in rete, ovvero che gli editori non leggono. Leggono perchè hanno bisogno di esordienti, sia pure per macinarli dopo un solo libro e in trenta giorni. Ma leggono. Se non rispondono, è spesso perchè hanno letto e il testo non ha valore).
Ps. Gli editori cercano già in rete, Elisa: sono anni che fanno scouting sul web.
Pps. Elisa, tu pubblichi con una casa editrice a pagamento, per altro. Non vorrei che il discorso fatto qui portasse acqua a quel fenomeno, che a mio parere va fortissimamente osteggiato, perchè non fa che peggiorare le cose.
Tuscan. Il prezzo del libro è questione importantissima. Forse, però, per un altro articolo. Qui mi interessava occuparmi del rapporto librai-editori.
Un bravo autore non sempre è accompagnato da una grande auto stima. Promuoversi da soli diventa per alcuni un peso insostenibile. l’autore ha bisogno di sentirsi “autorizzato” a scrivere e le case editrici sono piene di persone che sanno leggere. Basta avere pazienza, aspettare il momento giusto e continuare a lavorare anche perché a mio avviso, il momento più felice per uno scrittore è proprio quello della creazione in sé. Pubblicare a pagamento? Mai. anche io concordo sul fatto che non tutti hanno diritto a essere pubblicati e che un pochino di autocritica non farebbe male.
Ciao Loredana, è un articolo molto interessante. Sarebbe più completo, però, se si facesse qualche nome. Si citasse qualche caso specifico. Così, per capire un po’ meglio come funzionano le cose. Perché ci sono alcuni passaggi che non sono proprio chiarissimi, e da lettrice – da frequentatrice assidua di librerie – mi piacerebbe saperne qualcosa in più. Non mi è chiaro, soprattutto, come facciano a rientrare nei costi gli editori che praticano questa invasione di libri usa-e-getta (stampati e macellati a velocità record). Nel tuo articolo Marco Zapparoli dice:
«gli editori pensano erroneamente di poter compensare le rese che riceveranno e di far quadrare il budget»
E cioè, dice, gli editori stanno prendendo un abbaglio. In realtà non ci guadagnano un bel niente. Ma è davvero così?
Se consideri che si tratta di un comportamento reiterato, e che il fenomeno ha dimensioni massicce, è evidente che forse – dico forse – un modo per recuperare i costi c’è. Un modo per guadagnarci qualcosina. Forse mi sbaglio, è soltanto una supposizione, ma immagino che esistano dei meccanismi capaci di trasformare una perdita apparente (nel rapporto vendite / reso), almeno agli occhi ingenui di una profana lettorice-compratrice (come me), in un solido motivo di guadagno. Esistono meccanismi del genere? Quali sono?
Un esempio.
Tra le collane per giovani adulti si potrebbe prendere come esempio la Mondadori e la collana chiamata Shout. A prima vista, sembrerebbe che la Shout sia stata concepita appositamente in perdita, che non abbia altro scopo che rovesciare in libreria un bel po’ di prodotti di bassa qualità (in alcuni casi commissionati a persone con poca o nulla esperienza, esordienti “amici”, diciamo così), prodotti che sono tutti regolarmente scomparsi dagli scaffali nel giro qualche settimana (a parte sparutissimi casi: alcuni romanzi di Gungui).
Se prendiamo per buona l’ipotesi che un qualche guadagno, nonostante tutto, la Mondadori ce lo tiri fuori, si spiegherebbe il fatto che la collana continui a esistere nonostante il clamoroso insuccesso commerciale, che continui a sfornare prodotti di bassa qualità che compaiono e scompaiono dagli scaffali in un battito di ciglia, che addirittura ci siano autori esordienti che hanno venduto una miseria a cui viene commissionato un secondo romanzo Shout.
Quasi che vengano premiati per l’insuccesso. Quasi che in alcuni casi allo scrittore di romanzi si preferibile la figura professionale dello “scrittore di resi”.
Insomma, perdona il pippone Loredana, la domanda è: secondo te ha ragione Zapparoli? Davvero quello degli editori è un calcolo errato? Oppure questa politica dei resi è una strategia di guadagno facile, pratica ed efficace?
L’unico a perderci, allora, è il lettore ingenuo che compra un libro che non è stato fatto per esser letto, ma per essere reso.
Beh va detto che scomettere su un autore nuovo nn è semplicissimo, ci vorrebbe quel minimo di preveggenza nel cogliere potenzialità o il gusto dei lettori che nn tutti gli editori hanno, io lavoro nella grande distribuzione e già fare gli ordini nn è facile, decidere gli spazi e i quantitativi in base ad aspettative, pubblicità, conoscenza della propria clientela, ma alla fine in magazzino i bancali da rendere superano sempre quelli in arrivo, nonostante gli sconti, i grandi nomi e i passaggi in TV, la verità è che scrivono in troppi, ci sono più scrittori che lettori come dice Loredana, qualche volta poi i primi sottovalutano l’intelligenza dei secondi, i lettori sono zattere in balia delle onde e gli editori …beh un pochino lucrano su entrambi!
Carla, è un pippone che mi lascia, perdonami, qualche sospetto. Primo: non accetto su questo blog insinuazioni sugli esordienti amici, qualsiasi casa editrice riguardino. Non è corretto, e mi fa pensare che la semplice e profana lettrice non sia affatto tale. E che la sollecitazione a fare casi specifici sia molto ben mirata.
Secondo. Le collane per giovani adulti, essendo questa fascia quella dei più forti lettori in assoluto del nostro paese, sono proprio quelle in cui si pubblicano titoli dopo titoli. Esiste, in questo caso, una possibile domanda molto ampia.
Terzo. Zapparoli non dice affatto che gli editori prendono un abbaglio: dice che aumentando il numero dei titoli e delle copie, anche se sanno che molte di quelle copie verrano rese (moltissime, anzi), vanno comunque a guadagnare. Il problema, semmai, sta nel fatto che i librai cominciano a rendere prima di dover pagare i libri: per questo il ciclo si è abbreviato negli ultimi tempi. Per questo, di qui in avanti, a mio parere, il sistema imploderà: parere personalissimo.
La risposta è sì e no, alla fine: fin qui il guadagno c’è stato, nei prossimi tempi rischia di non esserci più per nessuno. Men che meno per gli autori, se mai c’è stato. Che, ti assicuro, sono il vero ingranaggio debole di questa catena: non il lettore ingenuo. E, a proposito: la campagna “ridateci i soldi” che molti blogger stanno intraprendendo negli ultimi mesi è una campagna falsata. Nessuno obbliga nessuno con una pistola alla tempia a comprare un libro. Tanto meno uno scrittore. La persecuzione dei pubblicati, di cui molti blog come Le Malvestite stanno facendo la propria bandiera, è non soltanto il frutto di personali frustrazioni nel novantanove per cento dei casi. Ma una guerra fra poveri.
Guerra fra molto poveri. Visto che poi certe “firme” (che ancora credono all’anonimato in Rete) vanno chiedendo agli “esordienti raccomandati” (cioè dal loro punto di vista – tutti), agganci con case editrici parecchio vituperate, quali ad esempio: Mondadori. Vergognarsi un pochino, no, vero?