QUEL CHE NON TI UCCIDE…

Il Campiello? No. Il Festival di Mantova?
Neanche. La vostra eccetera, sul quotidiano di oggi, si è occupata di Pokémon:
convinta che la faccenda sia assai più seria di quel che sembra. Attendo
anatemi a piè fermo (qui trovate un’intervista vecchia di sei anni-si deduce
dal look professorale e dal fatto che definisco Gianluca Nicoletti “un caro
amico”- dove si spiega un poco la faccenda) e vi posto l’articolo. Anzi, due.
Prima quello uscito oggi, quindi il primo che ho dedicato alla faccenda, sulle
pagine culturali de La Repubblica, nel 2000.

La storia dei
Pokémon comincia ufficialmente dieci anni fa, quando un giovanotto a nome
Satoshi Tajiri – già collezionista di
insetti– consegna alla Nintendo un gioco per Game Boy. L’idea sembra semplice:
cercare, catturare, allenare e far combattere piccole creature che somigliano a
insetti, topi, serpenti: sono i Pocket Monsters, mostri tascabili. Ovvero, per
contrazione, Pokémon. Gli esperti, convinti che il futuro dei giochi digitali
appartenga alla playstation, li ignorano.
Tempo pochi mesi, e il Giappone cambia idea: le prime due cartucce, la rossa e
la verde, vendono un milione di copie. Tempo un anno, e la televisione
trasmette il primo episodio della serie animata. Altri sei mesi, e il
merchandising legato ai Pokémon frutta quattro miliardi di dollari. A dieci
anni di distanza, con quattro generazioni di videogiochi disponibili, Pikachu e
compagni hanno irreversibilmente modificato l’immaginario infantile.

Perché i Pokémon sono stati i primi venir
fruiti contemporaneamente come videogame, fumetto, cartone animato, film,
giocattolo e soprattutto come carta collezionabile. Dopo di loro, hanno seguito
la prassi quasi tutti gli eroi per giovanissimi: Harry Potter e gli Jedi, i
lottatori di wrestling e i personaggi de Il Signore degli Anelli. Non casualmente, a celebrare il genetliaco dei
mostriciattoli sarà, insieme a Nintendo, Gedis Edizioni, distributore nazionale
delle trading cards: il 17 settembre, al DatchForum di Assago, i fan si
incontreranno a “Buon compleanno Pokémon” per giocare, visionare cartoni,
scambiare carte e visitare una “stanza dei ricordi” che ripercorre un decennio
di Pokemania.

Il vero decennale dall’invasione, però,
cadrà fra due anni: è nel 1998, infatti, che la Wizard of the Coast, già
distributore di “Magic”, acquisisce dalla Nintendo i diritti per pubblicare un
gioco di carte collezionabili basato sui mostriciattoli. E nello stesso anno la
città di Topeka, Arkansas, diviene per
un giorno ToPikachu, con topi elettrici giganti che scorrazzano per le strade.
E’ il P-day: il giorno dello sbarco dei mostri in America. I risultati? Dopo un
mese dal debutto televisivo, Pokémon è il programma per bambini più visto degli
Stati Uniti. In sette mesi si vendono due milioni di cartucce e un milione di
mazzi di carte. Nel maggio 1999 Time dedica la copertina ai Pokémon. A
ottobre, Pikachu conquista quella del New Yorker. Bill Clinton li cita
nel messaggio radiofonico settimanale. Sui giornali rimbalza il loro slogan:
“whatever doesn’t kill you make you stronger”, quel che non ti uccide ti
rafforza. La frase originale era in tedesco, e apparteneva a Friedrich Nietzsche.

Da quel
momento, i Pokémon conquistano davvero il mondo: nel settembre 1999 l’Europa,
nel gennaio 2000 l’Italia. Sono ovunque: dai lecca lecca ai paralumi. Diventano
musical, libro, gelato, spauracchio di pedagoghi e associazioni di genitori.
Oggi, a mania sempre presente ma messa in ombra da centinaia di replicanti,
resta da capire perché siano stati così amati. Forse perché fanno leva sull’antica
attitudine infantile al collezionismo. Forse perché sono la perfetta
incarnazione del desiderio postfordista, che sostituisce la durevolezza della
merce con la sua moltiplicazione, e la sua vacuità. O forse, infine, perché
grazie a loro i bambini hanno creato la prima comunità planetaria che esclude
inesorabilmente gli adulti. Agli esordi del fenomeno, fu un giornalista
giapponese ad intuirlo: “I bimbi li adorano perché sanno che i grandi non
possono capire i Pokémon. Il loro grido, Pikachu, è il rituale di un universo
separato”.

11 settembre 2006

Come è possibile che un giocattolo ignori il suo
possessore? Che sia, per usare le parole esatte, "estremamente
intelligente", in possesso di una propria "forza di volontà" e
dunque "non si lasci comandare"? Avviene, eccome, in un universo
complesso e sbrigativamente affrontato come l’ ultima ossessione planetaria di
origine nipponica. Un’ ossessione che si chiama Pokémon e ha 151 volti diversi:
topoconigli elettrici, tartarughine, serpenti, fossili, volpacchiotti,
farfalle.
(…)

Troppo facile,
però, giudicare il tutto come il frutto perverso e maniacale di una campagna
marketing mostruosamente potente, facilitata dalla "nippo-dipendenza"
che ebbe inizio oltre vent’ anni fa con gli Atlas Ufo Robot. L’ unica cosa che
i Pokémon hanno in comune con Goldrake e cugini è la loro capacità di
trasformarsi in qualcos’ altro. Combattono per istinto, non per giustizia. E l’
unica tenue propensione al politicamente corretto sta nella loro origine
naturale: ci sono mostri d’ acqua, di terra, d’ aria, di fuoco e di quindici
elementi diversi, e vivono in aree che chiameremmo protette come boschi, prati,
grotte. Ma sul resto differiscono completamente: nella loro vicenda non ci sono
elementi narrativi, dal momento che in ogni episodio del cartone Ash non fa
altro che incontrare esemplari diversi e cercare di catturarli, o combattere
con gli allenatori rivali o degenerati. Dunque? Dunque il Pokécosmo si potrebbe
riassumere così: c’ è una non-storia che piace perché fa leva sulla
predisposizione alla serialità e al collezionismo dei bambini: tanto che nel
videogioco i mostri si devono scambiare con un altro possessore di Game boy
collegato via cavetto per completare la serie, come nella versione tecnologica
del "ce l’ ho, mi manca". Poi c’ è un colosso del giocattolo che ci
costruisce sopra un’ altra bella fetta del suo impero. Insomma, si crea a
tavolino un culto nei confronti di una merce.

Solo che non è
più così facile, e oggi i culti prendono strade diverse rispetto ai binari
concepiti originariamente. Basti pensare a quel che accade su Internet, dove al
sito ufficiale dei Pokémon si affianca un numero impressionante di siti tutt’
altro che ufficiali. Del resto il videogioco e il cartone sono esemplari: i
Pokémon sono catturabili ma non guidabili. Si possono allevare facendo sì che
accumulino "punti esperienza" in ogni combattimento, e dunque
crescano in conoscenza (e possano evolversi), ma non comandare. Sono, insomma,
il simbolo esemplare di una riflessione che li ha ignorati fino a questo
momento, ma che in Italia si è già concretizzata in un saggio di grande
interesse come Merci di culto, che Fulvio Carmagnola e Mauro Ferraresi
hanno pubblicato non molto tempo fa per Castelvecchi. Testo che insidia i
parametri classici di osservazione della merce: primo fra tutti quello,
ritenuto ancora intramontabile, di valore d’ uso. Perché per capire non
soltanto i Pokémon, ma la nascita di ogni "ossessione" e dunque di
ogni forma per l’ appunto culturale di rapporto con la merce, bisogna
affiancare a Marx anche fonti di pensiero in apparenza meno elevate: Deleuze e
Guattari, ma anche Kevin Kelly e i redattori di Wired, ma anche Gianluca
Nicoletti e i suoi "golemaniaci". Tutti coloro, insomma, che nei
propri settori e dalle proprie tribune sostengono che bisogna abbandonare l’
idea faustiana di un controllo del creatore sulla creatura e che, insomma, la
merce ha un proprio destino, pur se imperscrutabile. E ha, in un certo qual
senso, una propria sensibilità.

L’ allenatore
di Pokémon, che non ambisce altro che a possederli tutti per poter combattere
con altrettanti possessori, ha forse a che vedere meno con Marx e più con zio
Paperone e il suo deposito in cima alla collina, dove si ammucchia una
ricchezza tanto inquantificabile quanto priva di senso perché priva di utilità.
Possesso puro, come già propose Hegel. Puro, aggiungono gli autori, desiderio.
Perché al concetto di produzione si è sostituito quello di rappresentazione: la
merce è rappresentazione ed esiste in quanto tale. Il suo valore non è più
legato al tempo di lavoro necessario a produrlo, non soddisfa bisogni. Serve ad
altro. A quello che Hannibal Lecter suggerisce come chiave all’ agente Starling
ne Il silenzio degli innocenti. Qual è il nostro primo motore? Cosa facciamo
per vivere, per – direbbe un allenatore di Pokémon – evolverci? Desideriamo. La
merce produce e soddisfa un’ economia del desiderio. Desiderio cui non
corrisponde la mancanza perché a muoverlo è una trama complessa, una macchina
autocostruita e senza controllo, fatta da parti umane e non umane. Un’
intelligenza collettiva, dove desiderati e desideranti sono alla pari, e dove
le leggi non sono più quelle del marketing. Per esempio. Non sono i motori
primi del design ad aver rilanciato la forma a dirigibile della lampada
Titania, ma gli spettatori che l’ hanno più recentemente intravista in film
come Sliding Doors o The Truman Show, e si chiedono dove possono
trovarla. Quella lampada, cioè, unisce alla sua vita di oggetto un’ esistenza
mediale: entra in un circuito di desiderio. Diventa ipermerce. E l’ ipermerce è
fatta di convergenze, di agganci possibili. Non è importante neppure che se ne
ricordi il nome, o che questo si unisca ad una funzione specifica. Fino a che
punto ha importanza che la Coca-Cola serva a dissetare o che i computer Imac
vengano usati per navigare in Internet o che una lampada a forma di Pokémon
effettivamente si accenda?

L’ ipermerce
crea attorno a sé culto, rito, tribù: sollecita comportamenti di affezione che
vanno oltre la pura e semplice fruizione utilitaria. Così, a suscitare
desiderio non è tanto la scarpa della Nike in quanto oggetto, ma il suo swoosh,
il piccolo baffo che vi è cucito sopra e ne è il simbolo (che, dicono, è l’
ectoplasma della Nike di Samotracia). Il baffo è autonomo. E la merce che
rappresenta è potentissima, perché può fare a meno di parlare di se stessa e
delle proprie qualità e le è sufficiente esibire un segno. Carmagnola e
Ferraresi chiamano tutto questo "animadvertere", una sintesi tra la
parola "anima" e la parola "advertising": ovvero, se non l’
anima, il comportamento animato della merce. Che, come la mente cartesiana,
"dubita, concepisce, afferma, nega, vuole, non vuole: immagina anche, e
sente". In parole povere, è l’ unica vera opera di intelligenza
artificiale di cui l’ uomo sia stato capace finora. E che, per di più, aumenta
in potenza se ha maggiore passato ("punti esperienza", direbbe il
solito allenatore di Pokémon) da esibire: perché la Vespa è merce di culto?
Perché esprime una felicità di ieri, vera o fabbricata molto bene, come le
fotografie d’ infanzia dei replicanti di Blade Runner e come la vita
antecedente del giocattolo Woody in Toy story 2. Dal momento che la
merce, come tutto ciò che è vivo, non vuole morire, e fa di tutto per guadagnarsi
un po’ d’ eternità. O, almeno, la possibilità di un’ evoluzione

26 marzo 2000

28 pensieri su “QUEL CHE NON TI UCCIDE…

  1. La stroncatura molte volte è un gesto di rispetto verso il LETTORE. Non dimentichiamoci che il critico in prima istanza si rivolge al lettore, e soprattutto a lui deve rendere conto. Inoltre la stroncatura può essere ispirata a un doveroso senso di VERITA’.

  2. Il rispetto verso il lettore, lo si esercita anche non stroncando, ma dicendo semplicemente, e nel rispetto dell’autore, il perché l’opera non ci piace. Credo che sia il metodo migliore. Ai suoi tempi, per riprendere il post più sotto, Cotroneo esagerò pur di diventare famoso in quel campo.
    Bart

  3. Cara Loredana, molto affascinante la riflessione. E finalmente il pensiero critico si applica anche alle “bambinate” delle nuove generazioni! Un piccolo appunto: Topeka è in Kansas, non in Arkansas.

  4. Spiegare perché un’opera non ci piace non vuol dire stroncare? Non facciamo i sofisti… Il vero problema è che il lettore oggi è letteralmente “truffato” da una teoria infinita di recensori + o meno prezzolati che scrivono seguendo logiche di scambio e logiche servili. Essi danneggiano i lettori, la cultura e il buon senso.

  5. Premetto: non sono di umore radioso, ho un bel po’ di cose arretrate che mi soffiano sul collo et similia.
    Vorrete dunque perdonarmi se sarò esplicita: sono francamente stufa di queste semplificazioni da bar sport del genere “Oh oh! I critici son tutti prezzolati! Oh Oh!”. Ne ho letto un paio, poco fa, sul blog di Remo Bassini, dove Manginobrioches scrive:
    “leggendo i giornali spesso i libri si perdono di vista. si entra nel circuito vizioso di critici senza patente, giornalisti che vorrebbero fare gli scrittori, scrittori che campano facendo i critici degli altri, e tutti gli amici che danno una mano agli amici, e – dietro di loro – l’industria che preme, e sforna e commissiona e paga uffici stampa e fa circolare copie lussuose, profumate, inutili.
    Raramente ho visto spazio, su un giornale, per un libro bello davvero, magari di un piccolo editore. E se è accaduto, è accaduto per caso, per vie traverse, non perché esiste in qualche modo un interesse generale e condiviso, un sistema che si occupi davvero, con gusto interesse e competenza, di editoria.
    I giornali devono commentare i codici da grattaevinci quando escono con la grancassa, perché quello è il loro mestiere: sono pubblicitari, non letterati.
    Infatti, non mi risulta che si entri nella redazione letteraria di un giornale per meriti accademici (e sono del mestiere, ahimé: conosco critici letterari che sono cronisti di nera, di basket, di rosa: ci si reinventa come si può, essendo un mestiere di aggiustamenti e superfici…).”
    Ora: se trovate gratificante fare di tutt’erba un fascio e tranciare giudizi con la scimitarra, continuate pure a divertirvi.
    Io, come detto altre volte, parlo per me: e di me dico che ho scritto centinaia di volte di piccoli editori, nella stragrande maggioranza dei casi ho scritto di libri che IO ho trovato meritevoli, che l’industria non mi preme nemmeno un po’ (liberi di pensare il contrario: ma dovete dimostrarmelo) ,che nasco cronista di nera, di rosa, di basket e che, ma guarda, la mia collaborazione a Repubblica è iniziata perchè ad un redattore delle pagine culturali era piaciuto un mio libro.
    Non sono un caso isolato, per giunta.
    Nè sono casi isolati coloro che, scusate la franchezza, piagnucolano per ignoranza, per superficialità, perchè è trendy farlo o, in taluni casi, perchè la sottoscritta ha ignorato velate o esplicite richieste di recensione.
    Non mi faccio “premere” dall’industria: ma neanche dai blogger. E scrivo di quel che mi piace.
    Grazie.
    Buona giornata.

  6. Ma qui si parlava della necessità o meno delle stroncature, cara Lipperini, nessuno la stava accusando di alcunché, almeno non l’ho fatto io, povero prete di provincia… Io dicevo solo che la stroncatura talvolta è + che necessaria perché molti – non lei, ma altri sì, non avrà l’ardire di negarlo – recensendo libri seguono logiche non solo commerciali di scambio di favori e di cortesie. La stroncatura quasi sempre fa bene al lettore e fa bene allo scrittore stroncato, che avrà modo di correggersi, sempreché si riconosca nella critica negativa. La stroncatura è utile, insomma. Io preferirei essere stroncato da Berdinelli o Ferroni o Fofi o La Porta piuttosto che ricevere fasulle sviolinate di quelle che si scrivono per fare contento qualcuno e non oper amore della verità.

  7. E le carte yu-gi oh dove le lasci?
    Il fiorire di serie anime di bassa lega e il rispettivo enorme investimento in pubblicità è sintomo che qualcosa non funziona nella fruizione dell’arte cinematografica animata.
    A mio avviso la lezione di Anno Hideaki con il suo Evangelion non l’ha capita nessuno.
    O meglio qualcuno l’ha capita e quel qualcuno ignora la razza Pokemon e affini.
    Yours
    MAURO

  8. Mauro, yu-gi-oh è nato con l’intento esclusivo di fare soldoni con le carte, mentre Pokemon, almeno all’inizio, è nato per rivalutare il gameboy nel momento in cui l’avevano dato per morto.
    Chiaro che in nessuno dei due casi si può fare un paragone con Evangelion: però qui si aprirebbe un discorsetto interessante su fruizione, diffusione, distribuzione, programmazione degli anime in Italia…Io continuo ad avere la sensazione che uomini e donne di televisione (italiana) dovrebbero fare un piccolo stage in proposito…

  9. Loredana c’è tanta gente che la pensa come Manginobrioches, te lo assicuro, e questo ha un risvolto molto concreto: esiste un pubblico che diserta le pagine culturali dei quotidiani e supplementi vari e per farsi un’idea di cosa leggere va in rete evitando gli stessi che scrivono sui quotidiani e supplementi. Tu dici: c’è una rivoluzione, i prossimi premi Strega verranno dalla rete. Forse sarà così, boh. Sicuramente in rete si manifestano lettori sensibili, intelligenti che sanno fare informazione meglio che sulla carta (non parlo di me che sono cazzaro e insensibile) e che quindi stanno sostituendo i giornalisti nella loro funzione. Capisco il tuo discorso “non fare di tutta l’erba un fascio” perché c’è gente molto brava – solo per fare un esempio Pallavicini su TTL – ma tu cerca di capire il mio, che ci sono lettori esasperati davvero da un marketing esasperato bestselleristico talvolta senza nemmeno la sensibilità di uscire dalla culla del gruppo editoriale di riferimento. Oppure da baroni incastonati nelle redazioni come amorphophalli titanici. Sarebbe giusto che chi è fuori dalle logiche di marketing e di baronia si unisse agli scrittori che vanno nella stessa direzione e si tentasse di fare qualcosa.
    ps, il pezzo sui Pokèmon è ineccepibile come cronaca di un successo commerciale ma non dice nulla su cosa sia un pokèmon e da dove venga, perché non è che quelle creaturine siano nate dal nulla… Mancano le notizie che possono calare in un contesto culturale quelle piccole creazioni. Mancano le notizie che possono spingere il lettore a bucare il mondo dei pokèmon per cercare altro più interessante: occorrono le aperture, il far vedere la sfera più grande in cui gira la sfera più piccola di queste creature.
    Non sto parlando di giramenti di palle, ma di forza dell’immaginazione e di sguardo sempre più completo, curioso e innamorato del mondo.
    Un saluto

  10. Ineccepibile discorso il tuo Loredana. Ed effettivamente la mia generalizzazione potrebbe essere allargata fino ad arrivare alle bambole a grandezza naturale di Asuka e Rei che si vendono in Giappone.
    Un discorso-dialogo sugli anime in Italia sarebbe straordinariamente interessante e magari andrebbe a tratteggiare le differenze sociologiche fra gli otaku contemporanei italiani e quelli giapponesi di terza generazione.
    Trovi un breve ma sublime saggio al riguardo su questo blog:
    http://juste.splinder.com
    e più precisamente qui:
    http://juste.splinder.com//post/8408179/Shito%2C+rainichi%21+%7E+4.1
    Yours
    MAURO
    PS: complimenti per la conoscenza di tali “problematiche”. Non è da tutti i giornalisti… anzi di solito nessuno le sa…
    PPS: scusa i link “in chiaro”, non so se i commenti supportano l’HTML

  11. Mi dispiace dirglielo signora Lipperini ma lei dei Pokemon non ha capito davvero niente.
    Queste risposte vanno date perchè sennò voi giornalisti superficiali continuate a scrivere castronerie.
    “La storia dei Pokémon comincia ufficialmente dieci anni fa, quando un giovanotto a nome Satoshi Tajiri – già collezionista di insetti– consegna alla Nintendo un gioco per Game Boy”
    Satoshi Tajiri era un collezzionista di insetti come molti in Giappone. Ha voluto creare un gioco che rappresentasse la collezzione degli insetti. Dire “consegnare è un eufemismo”. Ci si lavorò per 3 anni.
    Satoshi era restio all’idea di un cartone animato (anime). Fù convinto a patto che lui stesso controllasse che non si sminuisse il valore dei Pokemon. Arrivati alla 500 puntata e alla 9° serie (e anche 9 film al cinema) mia cara, mi duole informarle che una storia il cartone la ha. Bastava vedere 4-5 puntate per capirlo…
    Quest’anno si è svolto il Pokemon day a Mirabilandia e lei da vera esperta Pokemon lo saprà certamente.
    Lo sà che si è svolto il campionato nazionale di carte Pokemon?
    E secondo lei, la categoria 15 anni in su era composta da bambini?
    Secondo lei ragazzi dai 15 ai 35 anni sono bambini?
    Come si spiega i migliaia di siti su internet?
    Pensa vorse a babywebmaster?
    Ma se per lei Pokemon è roba da bambini vabbè…
    sicuramente lei è più informata di me.
    Io in fondo sono SOLO (se non avesse capito il tono ironico) moderatore di uno dei maggiori forum italiani sui Pokemon.
    Riflessioni come questa in basso alle orecchie di chi ha almeno scalfito la superficie del fenomeno (non dico di chi ne è esperto, dico di chi ha saggiato anche minimamente il fenomeno) suonano come “io non ci ho capito niente dei Pokemon”
    “L’ allenatore di Pokémon, che non ambisce altro che a possederli tutti per poter combattere con altrettanti possessori, ha forse a che vedere meno con Marx e più con zio Paperone e il suo deposito in cima alla collina, dove si ammucchia una ricchezza tanto inquantificabile quanto priva di senso perché priva di utilità.”
    Ora rifletta.
    La chiusura è dei bambini (bambini diciottenni esistono?) verso i genitori o sono i genitori e quelli come lei che non si curano minimamente di cercare di capire?

  12. Caro Lorenzo, punto per punto:
    a)Non ho mai scritto che Tajiri fosse l’unico collezionista di insetti in tutto il Giappone
    b)Il verbo “consegnare” non implica, in lingua italiana, che il tempo di lavorazione sia stato breve. Se mi permetti, poi, Tajiri iniziò a lavorare a Pokémon nel 1991. Dunque, impiegò cinque anni e non tre a realizzare il gioco.
    c)Nessuno ha mai scritto che Tajiri fosse favorevole alla realizzazione dell’anime. Quanto alla storia, credo che potrai convenire che quella di Pokémon ha uno spunto narrativo iniziale e uno sviluppo alquanto debole rispetto a quelle di molti altri anime e manga.
    d)So perfettamente che i giocatori di Pokémon, e di altre giochi con trading cards, arrivano a ben oltre i trent’anni. Ma, dall’alto del tuo ruolo, non credo potrai negare che la maggior parte dei fruitori (di Pokémon, non di Magic) è in una fascia di età più bassa
    e)Non mi sembra che nei due articoli si affronti il fenomeno in tono riduttivo: se così fosse, la sottoscritta non avrebbe dedicato ai Pokémon uno dei non molti saggi italiani sull’argomento (nel 2000, si chiamava Generazione Pokémon, e ti assicuro che li difendeva)
    f)Benvenuto nel club “dalli al giornalista”: ti troverai in folta e nobile compagnia.
    Cari saluti

  13. A Lorenzo vorrei dire che forse sarebbe meglio che leggesse “Generazione Pokemon” di Loredana Lipperini prima di scrivere non facendo attenzione all’ortografia…
    Per mettere una parolina sul discorso recensioni e stroncature, credo che le redazioni siano fatte da capiservizio e caporedattori che hanno un tot di spazio da utilizzare come meglio credono loro o il mercato o le case editrici e così via.
    Io, però, forse perchè ho sempre scritto su giornali infinitamente piccoli, quasi invisibili, non ho mai avuto indicazioni sui libri da recensire… tranne quella volta che ho dovuto scrivere del libro di Josef Seifert su Platone.
    Può darsi che abbia avuto tutti direttori e capiservizio illuminati.
    Non credo comunque che stroncare sia un’attività da praticare con intenti istruttivi.
    Non è piacevole perdere tempo su qualcosa che non piace per il solo gusto di dire che non piace.
    Meglio evitare di scriverne piuttosto che stroncare: occuparsi di cose positive fa bene all’anima, alla salute e a molte altre cose.

  14. E’ inutile rispondere punto per punto. Erano alcuni dei mille esempi che mi venivano in mente per confutare la tua tesi.
    Te ne potrei fare un milione di critiche così e tu mi risponderesti punto su punto con tesi che non stanno in piedi.
    Altrettanto inutile l’osservazione di Isabella.
    (mi riferisco al primo capoverso).
    Ok, la punteggiatura sarà importante, ma hai letto i concetti. O ti sei fermata alla a senza h?
    Capisco che era l’unica cosa che ti veniva in mente perchè tu dell’argomento non sai niente (se avessi saputo qualcosa è ineccepibile che mi avresti dato ragione).
    Ritornando alla Lipperini.
    Anche se la maggioranza fosse di bambini, non vedo perchè dover ometterre tutto quel movimento giovanile che gioca o appreza i Pokemon.
    Quella che non ha capito (il fulcro) è che i veri giocatori di Pokemon non sono bambini.
    A 7-8 anni non puoi pretendere di essere un fenomeno nei videogiochi o nelle carte Pokemon. Dire che i bambini sono la maggior fetta da una parte è giusto e dall’altra è completamente errato. Perchè un giocatore di scacchi è quello che gioca sapendo le regole non quello che muove a caso.
    Non mi può dire che un bambino che fa la 3° elementare riesce a giocare coscenzioso di tutte le strategie e tutte le tattiche a un gioco competitivo. Per analogia con gli scacchi, sono ragazzi almeno dai 12 anni in sù che riescono a padroneggiare il gioco.
    Ergo sono i giocatori più grandi a giocare veramente a Pokemon (non a cincischiarsi e basta).
    Un punto a suo favore: Lei effettivamente pur in modo imbarazzante vuole dare una luce positiva ai Pokemon. Il suo errore è stato quello della superficialità nello scrivere e questo fatto dell’età.
    Per me sentirmi dire quelle castronerie è l’equivalente di un professore di storia che apprende dai suoi alunni che l’impero romano cade nel 2007 o che l’America viene scoperta nel 1990.
    Tutto qui. Niente di personale. Vediamo di far cambiare questo paese. Sarà dura ma piano piano questi pregiudizi moriranno.

  15. Niente di personale neanche da parte mia: ma, caro Lorenzo, la vera castroneria è sostenere che sotto i dodici anni non si è in grado di giocare in modo competitivo con le trading cards o con i videogiochi 🙂
    Quindi, una regolina d’oro che vale per tutti coloro che lamentano l’esclusione da un articolo (o che non hanno visto recensire il proprio preziosissimo libro, come si diceva sopra): in uno spazio limitato come quello di un giornale non entra, per forza di cose, tutto.
    Grazie al cielo, ci sono contenitori più capienti, come questo che stiamo usando: dove, volendo e imparando a dosare le parole e a rivedere i propri pregiudizi, si può persino riuscire a comprendersi.
    Vediamo di far cambiare questo paese, e anche questo web, sì?

  16. Qui c’è un cortocircuito tra mondi immaginari, e qualcuno che si è presentato in maschera al gioco di ruolo sbagliato: Lorenzo, i troll stanno nella mitologia nordica, non nel mondo Pokemon. Vai subito a casa a cambiarti e torna travestito da Bulbasaur!

  17. Prego! ^_^
    A mio avviso una digressione tanto profonda sul movimento otaku non poteva che compierla un EX-otaku come shito!
    Si possono trovare tante piccole chicche con le quali spiegarsi anche questo piccolo dibattito “da otaku” nato in seno a questo post.
    Ripeto: ne consiglio la lettura!
    yours
    MAURO

  18. gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare. Dal nick si capisce che hai seri problemi.
    Non venire a curarli su Internet please, intasi la rete e basta.
    Per il resto è acqua passata. Mettiamoci una pietra sopra e continuiamo ad andare ognuno per la sua strada.
    Ps: (Mauro, la lettura di cosa? Del topic in questione?)

  19. Questo Lorenzo si presenta qui per la prima volta senza neanche un misero “ciao”, non sa niente di questo blog, non sa che la Lipperini, oltre a occuparsi professionalmente di Pokèmon dagli anni novanta, ne è anche un’ appassionata, e invece che ringraziarla la aggredisce, dimostra una precaria conoscenza della lingua italiana e nello specifico del significato del verbo “consegnare” (non sapendo che significa semplicemente “dare qualcosa a qualcuno”), poi fa questioni di lana caprina sul fatto che i bambini non capiscono un cazzo, uno gli fa una battuta e lui risponde con idiozie da psichiatra disoccupato… Internet ha un problema enorme, e ce l’ha soprattutto in Italia: un problema di maleducazione.

  20. Grazie per la pubblicazione di questo articolo che ho trovato estremamente interessante. (non che gli altri non lo siano 😉 ma mio figlio gioca col Game Boy)

  21. Ah ora capisco Mauro.
    Comunque non penso che per giocare a Pokemon o a qualsiaisi altra cosa devi essere definito Otaku.
    A me e ai miei amici basta 1-2 ore al giorno, magari uscire il sabato per vedersi (il che già esclude il fatto di non avere una vita sociale) e grazie a Internet e ai telefoni ci si sente ogni giorno.
    Chi crescendo dice: non ho più tempo per giocare a quello o a fare quello le reputo un perdente (e tanti la pensano come me).
    Cioè crescendo non si può dedicare un’ora al giorno? Invece che guardare la TV (e non diciamo che un adulto medio non lo fa) può benissimo giocare a Pokemon, collezzionare francobolli, scacchi, 4 cantoni con gli amici, rimbalzella e chi più ne ha più ne metta.
    Per il resto io e i miei amici pokefan usciamo con i nostri rispettivi amici di lavoro, di scuola, dello sport che condividiamo, con le nostre ragazze, ecc.
    E sarà un caso ma chi gioca a Pokemon è sempre ( o quasi!) una persona meravigliosa. Sono persone che non imbrogliano, sono amichevoli, si sacrificano per gli amici. Forse perchè abituati a una competizione pulita. Chi gioca al TCG sa che cè un comportamento etico, e ad esempio la prima mossa di una partita è stringere la mano all’avversario. E stingerli la mano è anche l’ultima mossa della partita.
    Se io alcuni amici li conosco grazie a Pokemon o grazie alla musica assordante di una discoteca ho tutto di guadagnato.
    Poi è questione di mentalità. Non tutti hanno l’elasticità di mettersi in gioco, competere, appassionarsi a qualcosa.
    Un Otaku tralaltro spende tutti i suoi soldi per le passioni che ha. Non conosco nessuno che lo faccia. In Italia sono rarissimi gli Otaku.
    Lina Sotis: Mi dispiace, ma anche io seguo i Pokemon da quando arrivarono in Italia e so con certezza che se non ci giochi (o non sei abituato a giocare a qualcosa di simile)fatichi a capirli ( a meno che non hai un elasticità mentale propria di un cosmopolita, ma in Italia è rarissimo poichè siamo abituati agli stereotipi dati dai genitori e dalla società: 3-12 anni giochini, 12-15 anni ragazze, 15-18 motorino, 18 automibile, ecc.).
    Quindi è indiscusso che la lipperini sarà moolto più brava di me a scrivere articoli, ma le assicuro che non temo un confronto in materia Pokemon.

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